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Riforme costituzionali: la relazione al Senato di Franco Bassanini
22 Gennaio 2004


Signor Presidente, onorevoli colleghi, la stragrande maggioranza degli italiani continua a considerare la Costituzione repubblicana come il fondamento della convivenza comune, la garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini e delle loro formazioni sociali e il baluardo ancora solido della democrazia italiana. Ma questa convinzione è fortemente condivisa soprattutto per quanto riguarda i princìpi fondamentali, i diritti e le libertà della Parte I della Carta del 1947.

Quanto alla Parte II, e in specie alla disciplina della forma dello Stato e della forma di Governo, già oggetto di numerosi interventi riformatori negli ultimi decenni, è viceversa convinzione diffusa ancorché non unanime che occorra completare la troppo lunga transizione istituzionale italiana, mediante un’opera di aggiornamento e revisione delle sue disposizioni.

Anche a questo riguardo occorre certo prudenza e cautela. Come è stato detto: "Le Costituzioni nascono per essere durevoli, anche se accade talora che non durino. Il compito di una Costituzione non è quello di inseguire i mutamenti, ma di assicurare la stabilità. La prova della "bontà" di una Costituzione sta nella sua longevità. Mentre rispetto alla legislazione ordinaria c’è, per così dire, una presunzione di necessità di continuo adeguamento, rispetto alla Costituzione vale la presunzione inversa, perché ad essa si richiede proprio di contenere il fluire delle leggi fissandone i limiti invalicabili".

Ma anche in quest’ottica, e dunque adottando una linea di prudenza e cautela, non si può non riconoscere che la seconda parte della nostra Costituzione abbisogna di alcuni aggiornamenti e correzioni. Essi si rendono opportuni per completare, integrare e, in qualche punto, correggere la riforma dello Stato in senso federale avviata nella scorsa legislatura, per adeguare il sistema delle garanzie democratiche e costituzionali ai profondi mutamenti già intervenuti nella struttura del nostro sistema istituzionale, per dotare il nostro Paese di una forma di Governo più efficace e democratica, e dunque effettivamente più capace di garantire partecipazione dei cittadini, rappresentatività delle istituzioni, tempestività ed efficienza nell’azione di Governo per la tutela degli interessi generali.

Da un lato, infatti, la riforma del Titolo V scontò fin dall’inizio la necessità di successive integrazioni, specie per quanto concerne la riforma del Senato, e anche di aggiustamenti e correzioni, poiché nessuna riforma di grande respiro nasce perfetta dalla testa del legislatore. Dall’altro, il contesto nel quale alla Costituente furono definiti il sistema delle garanzie e la forma di Governo è consistentemente cambiato. Sul terreno istituzionale è appena il caso di ricordare che la Costituente lavorò su due presupposti: che per la legge elettorale sarebbe stato adottato un sistema proporzionale (ordine del giorno Giolitti) e che la forma dello Stato sarebbe stata unitaria e accentrata, sia pure con largo riconoscimento delle autonomie regionali e locali.

Ora, non vi è chi non veda che l’adozione di sistemi elettorali maggioritari e di una forma di Stato ispirata al modello federale non possono non imporre modifiche profonde del sistema delle disposizioni costituzionali relative alla forma di Governo, allo statuto dell’opposizione, alle garanzie democratiche e costituzionali.
A maggior ragione ciò è necessario di fronte a modifiche della Costituzione formale e materiale che già hanno consistentemente mutato l’assetto istituzionale e l’equilibrio tra i vari poteri senza adeguati contrappesi e bilanciamenti.

Ma vi è di più: si impone una riflessione più ampia che indaghi sulle modificazioni che sono necessarie per poter affrontare con speranza di successo le sfide della competizione globale, dei grandi flussi migratori, dell’innovazione tecnologica e produttiva e della società dell’informazione e, da ultimo, gli stessi rischi di declino produttivo e tecnologico che incombono oggi sul Paese.

Per affrontare problemi di tale entità e portata occorre una democrazia più forte, più legittimata, più partecipata, più rappresentativa, più efficace. I Gruppi di opposizione hanno avanzato una proposta unitaria, coerente ed organica, che identifica con rigore i nodi dell’ammodernamento del nostro sistema istituzionale, del completamento della transizione. Tale proposta è riassunta nella bozza Amato, è articolata nei disegni di legge e negli emendamenti che abbiamo da tempo presentati e argomentata nella relazione di minoranza scritta che altri colleghi hanno, con me, concorso a definire.

Questi nodi sono, a nostro avviso, essenzialmente tre; su tutti e tre, purtroppo, la distanza tra il progetto dell’opposizione e il testo al nostro esame è molto forte.
Cominciamo con l’esaminare le questioni della forma di Governo e delle garanzie democratiche e costituzionali. Noi vogliamo una forte democrazia governante. Istituzioni forti sono meglio in grado di risolvere i problemi dei cittadini. Ma la forza nasce dal consenso, dalla legittimazione delle istituzioni e dalla loro capacità di interpretare attese e domande sociali, non solo dalla loro capacità di decidere e di attuare le decisioni prese.

Siamo dunque per un sistema che consenta agli elettori di decidere sul programma, sulla maggioranza, sul Governo del Paese e che dia alla maggioranza e al Governo gli strumenti per realizzare il programma approvato dagli elettori. Ma, nel contempo, la Costituzione deve stabilire con chiarezza i limiti del potere della maggioranza e del Governo e i limiti della politica. La dittatura della maggioranza non è compatibile con la democrazia.

Da Montesquieu in poi questo è il cuore delle Costituzioni democratiche e liberali: i limiti della politica da un lato, i limiti della maggioranza dall’altro, sono essenziali per dare a tutti la certezza che i diritti e le libertà di ognuno non sono minacciati, che le regole e i princìpi della democrazia non sono alla mercé di chi ha vinto le elezioni. Le regole, i diritti, le libertà dei cittadini non sono appannaggio del vincitore: questa certezza e questa sicurezza sono il cuore della democrazia e del costituzionalismo moderno.

Presidenzialismo sul modello americano, cancellierato sul modello tedesco, premiership britannica, semipresidenzialismo francese: ciascuno di questi modelli dà forza al Governo, stabilità alle maggioranze, legittimazione alle istituzioni, ma ciascuno prevede i checks and balances, contrappesi e garanzie efficaci, argini al potere di chi ha vinto, garanzie della democraticità del sistema e del pluralismo istituzionale.
E così il Presidente degli Stati Uniti è eletto quasi direttamente, ha grandi poteri, è il Capo delle Forze armate, ma non può sciogliere le Camere né mettere la fiducia sulle leggi e neppure nominare un Ministro, un ambasciatore o un direttore generale senza il consenso del Senato. E così il Primo Ministro britannico è scelto di fatto dagli elettori, ma il suo nome non compare sulla scheda elettorale e nulla vieta al partito o al Gruppo parlamentare di maggioranza di sostituirlo anche a metà legislatura, con una decisione adottata a maggioranza semplice, così come il Gruppo conservatore sostituì la Thatcher con Major.

È vero che la democrazia è forte se è in grado di prendere rapidamente le decisioni necessarie. Ma lo è se lo fa con il consenso dei cittadini, se garantisce adeguati controlli sull’esercizio del potere, se assicura un equilibrato pluralismo fra le istituzioni. Se ciò non accade, alla lunga non saprà neppure prendere le decisioni giuste, né saprà farle rispettare.

La personalizzazione della politica è un fatto con cui le istituzioni debbono fare i conti, non è un valore da promuovere fino all’esasperazione. Non basta la legittimazione elettorale per rendere democratica una forma di Governo: la storia è ricca, ahimé, di dittatori eletti. E neppure è vero che la concentrazione dei poteri nelle mani di un capo è un buon principio di sociologia dell’organizzazione praticata in tutte le aziende private. Vale forse per le imprese a conduzione familiare, gestite direttamente dal proprietario, ma nelle grandi imprese si usa dividere le deleghe tra più amministratori o almeno sottoporle all’indirizzo e al controllo di organi collegiali.

Ci siamo dichiarati per questo disponibili a ragionare su tutti i modelli democratici a disposizione, compreso il presidenzialismo americano; non siamo disponibili invece a mischiarli insieme per dare al Capo del Governo i poteri di Bush e di Blair, senza alcuno dei contrappesi e delle garanzie proprie, in varie forme, dell’uno o dell’altro modello.

Abbiamo espresso una preferenza per il modello britannico: prevediamo di dare al Primo Ministro tutti i poteri e le prerogative che ha il Primo Ministro inglese; di consolidarli in disposizioni costituzionali; di aggiungere una norma antiribaltone per cui, se cambia sostanzialmente la maggioranza espressa dalle elezioni, si torna a votare. Ma siamo contrari ad ogni ulteriore rafforzamento dei poteri del Governo e del Primo Ministro se non si risolvono contestualmente i problemi dell’adeguamento al bipolarismo maggioritario del sistema delle garanzie democratiche e costituzionali, del pluralismo dell’informazione, dello statuto dell’opposizione, del conflitto di interessi.
Il nostro sistema costituzionale, comparato con quello delle altre grandi democrazie, presenta anomalie rilevanti innanzitutto sui terreni ora ricordati. La legge elettorale maggioritaria e le riforme degli anni Novanta hanno già dato agli Esecutivi regionali, locali e nazionali poteri e strumenti più forti per governare, ma non hanno introdotto i checks and balances, i contrappesi propri delle altre democrazie.

Proprio per questo la nostra proposta è dedicata in parte notevole all’adeguamento delle garanzie costituzionali e democratiche. Si apre con disposizioni sul pluralismo dell’informazione e sul conflitto di interessi; prosegue alzando a due terzi la maggioranza necessaria per modificare la Costituzione, come per esempio in Germania e negli Stati Uniti; prevedendo maggioranze qualificate per l’elezione degli organi di garanzia (Presidente della Repubblica, Presidenti delle Camere) e per modificare i Regolamenti parlamentari.

Le attuali maggioranze furono infatti previste da una Costituente che ragionava sulla base di una legge elettorale proporzionale, dove nessuno può raggiungere la maggioranza assoluta in Parlamento senza averla ottenuta anche nel voto degli elettori. Ma così non è nel sistema maggioritario, dove chi vince, magari con il 40 per cento dei suffragi, può avere anche più del 55 per cento dei seggi in Parlamento.

Ancora: il nostro progetto definisce le linee di un efficace statuto dell’opposizione, assicura l’effettiva indipendenza della magistratura e delle autorità indipendenti, potenzia il ruolo di controllo del Parlamento, sul modello britannico e americano, ripristina le condizioni per un uso efficace del referendum abrogativo, potenzia gli strumenti della democrazia partecipativa.

C’è qualcosa di tutto ciò nel progetto al nostro esame? Praticamente nulla. Si accrescono a dismisura i poteri del Primo Ministro, neppure si sfiora il problema dei contrappesi e delle garanzie. Al contrario: si mettono le mani dei partiti della maggioranza sulla Corte costituzionale, si fa del Capo dello Stato e dei Presidenti delle Camere organi di parte, e stupisce che mentre il Ministro dell’economia propone, giustamente, una garanzia dell’imparzialità dei membri delle Autorità indipendenti ottenuta attraverso maggioranze qualificate nel voto parlamentare, viceversa questo lo si neghi ad organi di garanzia per eccellenza, come è, in primo luogo, il Capo dello Stato.

Come abbiamo detto noi vogliamo una democrazia governante, siamo per dare al Primo Ministro poteri più forti, in qualche misura anche un po' oltre il limite del sistema britannico. Pensiamo che sia giusto attribuire al Premier il potere di nominare e revocare i Ministri, di dirigere l'attività del Governo anche avocando al Consiglio la decisione su questioni di competenza dei singoli Ministri, di attribuirgli il potere di proporre al Presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere.

Prevediamo che si imponga a partiti e coalizioni di indicare preventivamente agli elettori il nome del proprio candidato Primo Ministro; prevediamo lo scioglimento della Camera in caso di cambiamento della maggioranza uscita dalle elezioni. Ma ci fermiamo qui: diciamo no all'elezione diretta del Premier, comunque configurata, e a norme che consentano al Premier di mettere il Parlamento, la Camera dei deputati, sotto costante ricatto ("o votate le mie proposte di legge o vi sciolgo").

Purtroppo è assai diverso il modello delineato dal testo in discussione. Esso prevede almeno tre istituti in contrasto con il sistema britannico. Primo, lo scioglimento automatico: se la Camera vota la sfiducia al Primo Ministro è sciolta. In Gran Bretagna, in questi casi, il Premier si dimette e la Regina nomina un altro Primo Ministro indicato dalla maggioranza parlamentare. Secondo: il Premier può sciogliere la Camera "sotto la sua esclusiva responsabilità". La possibilità di una mozione di sfiducia costruttiva è talmente limitata da consentire al Premier di fare ciò che vuole, alla sola condizione di disporre di un manipolo di fedelissimi. In Inghilterra, il Premier propone lo scioglimento alla Regina, che di norma accoglie la richiesta: ma non lo fa se il Premier non gode più del consenso della maggioranza.

Terzo: il progetto del Governo prevede nella sostanza un meccanismo di elezione diretta o quasi diretta del Premier, con l'obbligatorio collegamento di ogni candidato al nome del Premier e l'attribuzione di un premio di maggioranza, per garantire al Premier più votato una maggioranza stabile. In Inghilterra, il nome del candidato Premier è reso noto agli elettori, ma non c'è collegamento esplicito dei candidati al Premier né premio di maggioranza.

La differenza è fondamentale. Nel modello britannico, l'elettore sceglie il deputato che lo rappresenta, sapendo che la sua scelta concorrerà a determinare il partito, la squadra e il Premier che governeranno il Paese: tutte cose note, ma la sua scelta non è solo sulla persona del leader, ma è sul programma, sul partito, sul leader e sulla squadra nel suo insieme.

Nel progetto al nostro esame, invece, la personalizzazione della politica giunge al suo apice. Si sceglie il Capo, gli si affidano per cinque anni amplissimi poteri. Arriviamo qui al cuore del problema. Questo modello esprime una concezione che non è coerente con i princìpi della democrazia liberale moderna: esprime l'idea che il processo democratico si esaurisca, si sublimi nella scelta di un capo al quale sono delegati per alcuni anni pieni poteri, con la sola garanzia che alla fine si tornerà a votare. Garanzia modesta, visto che quel capo, controllando e ricattando la maggioranza parlamentare, può nel frattempo cambiare le leggi che disciplinano i diritti e le libertà dei cittadini, l'indipendenza della magistratura, il pluralismo dell'informazione, i meccanismi elettorali, i rapporti tra politica ed economia.

Veniamo ora alla terza parte concernente la riforma dello Stato e del Parlamento. Siamo per completare e anche per correggere ed aggiustare, dove necessario, perché come dicevo nessuna riforma nasce perfetta, la riforma federale, ma secondo il modello del federalismo cooperativo e solidale senza mettere a rischio l'unità d'Italia. Vogliamo un federalismo che funzioni sul modello delle grandi esperienze federali straniere, dunque nella consapevolezza che il sistema federale serve per unire i diversi, per fare della diversità una ricchezza comune - e pluribus unum - non per contrapporre, separare e dividere.

Dunque, pensiamo ad un Senato che sia il luogo del confronto democratico e dell'armonizzazione fra le ragioni della diversità e gli interessi generali. Rifiutiamo di accettare la totale devoluzione, in esclusiva, alle Regioni della legislazione sulla sanità, sull'organizzazione scolastica e sulla politica locale. Negli Stati Uniti, cari colleghi, la sanità è competenza degli Stati, non c'è una parola nella Costituzione degli Stati Uniti che accenni al Congresso federale, ma ciò non ha impedito al Congresso di approvare e finanziare grandi programmi federali di assistenza sanitaria (Medicair e Medicaid), e a Clinton di proporre un sistema sanitario nazionale sul modello europeo. Quel progetto non fu approvato non perché era incostituzionale ma perché la maggioranza repubblicana era politicamente contraria.

Quanto al Senato, il rapporto con il territorio deve essere forte. Lo si può stabilire nei termini proposti già nel '47 dalla Commissione dei 75 che prevedeva, accanto ai senatori eletti, senatori espressi dal sistema delle autonomie, nella misura di un terzo del totale. Noi abbiamo proposto di prevedere, accanto a 200 senatori eletti direttamente, una significativa rappresentanza delle Regioni e degli enti locali: presidenti, sindaci, eventualmente altri. Lo si può fare anche in altro modo - abbiamo presentato anche altre proposte -, ma è nel Senato che deve avvenire la composizione unitaria, attraverso il confronto, delle diverse ragioni ed istanze dei territori, attuando i principi di solidarietà e garantendo l'universalità dei diritti. Perciò è inaccettabile l'ipotesi, che per fortuna sembra tramontata ma che voi tutti avete votato in Commissione, di parlamenti macroregionali, che non ha nulla a che fare con gli organi comuni previsti dall'attuale articolo 117. Gli organi comuni previsti oggi dall’articolo 117 servono alle Regioni per gestire insieme funzioni per lo più amministrative, attribuite loro dalla Costituzione: per esempio un ufficio comune del Po o un ufficio del Tevere per le opere idrauliche necessarie a fiumi interregionali. Non sono assemblee politiche macroregionali nate per interloquire con il Parlamento federale: un istituito che non c'è in nessuno Stato federale.
Per questa ragione siamo anche contrari alla suddivisione del Senato in Commissioni territoriali, una disposizione ignota all'esperienza dei Parlamenti federali e che ha anch'essa aspetti preoccupanti per l'unità della Repubblica.
Siamo invece d’accordo sulla riduzione del numero dei parlamentari. Ma fa una bella differenza prevederla subito per le elezioni del 2006, oppure per il 2011, come la maggioranza propone, con il rischio che si decida poi di rinviarla al 2016 e poi al 2021.

Non lontane dalle nostre sono le proposte di ripartizione dei poteri legislativi tra Camera e Senato, ma noi non pensiamo che ci debbano essere leggi a decisione prevalente del Senato. Pensiamo per converso che l'approvazione del Senato, nei termini di una decisione bicamerale, debba essere necessaria per tutte le leggi, finanziaria compresa, che incidano comunque su funzioni, poteri e risorse delle Regioni e degli enti locali.

Deve essere però chiaro: un Senato federale è sempre, potenzialmente, un contropotere (rivolgersi a Schröder, che deve fare i conti con un Bundesrat a maggioranza cristiana-democratica, o a Clinton, che non riuscì mai a farsi approvare la riforma sanitaria). Dunque, non si può criticare il testo della Commissione perché configura il Senato come contropotere rispetto al Governo, ma caso mai perché non gli dà un impianto realmente federale. Dunque per quale ragione dovrebbe essere un contropotere un Senato totalmente espressione della stessa base elettorale della Camera?

Quanto al resto il Governo e la maggioranza lasciano pressoché intatto l'impianto del tanto vituperato nuovo titolo V, se non fosse per alcuni cambiamenti apparentemente minori ma tutti pessimi. Si insiste sulla cosiddetta devolution con il rischio di disarticolare servizi universali nazionali, essenziali per garantire a tutti i diritti di cittadinanza, come quelli della scuola, della sanità e della sicurezza pubblica. Per ridimensionare i rischi si limita pesantemente l'autonomia legislativa della Regioni in tutte le materie, comprese quelle di interesse squisitamente regionale e locale, sottoponendo le leggi regionali al vaglio del Senato e poi del Presidente della Repubblica per valutarne la coerenza con l'interesse nazionale, con il rischio di attribuire al Presidente della Repubblica responsabilità e poteri incompatibili con il suo ruolo di garante della Costituzione e dei diritti e della libertà di tutti. Si assegna alla regione Lazio il compito di definire lo statuto di Roma capitale della Repubblica quasi che si tratti solo del capoluogo della Regione.
Vi abbiamo offerto in Commissione su tutti questi punti valide alternative, tutte coerenti con l’esperienza dei grandi Stati federali, vi abbiamo offerto la disponibilità a correggere alcune disposizioni dell’articolo 117 come quelle relative alla competenza concorrente in materia di energia, comunicazioni e professioni su cui vi erano emendamenti convergenti, vi abbiamo offerto un modello alternativo basato sull’esperienza tedesca e ispirato ai principi di flessibilità, responsabilità e leale collaborazione che caratterizzano i sistemi federali che funzionano.

Di fronte a rifiuti immotivati e irragionevoli non ci ritireremo sull’Aventino, signor Presidente. Combatteremo la nostra battaglia fino in fondo. Non rinunceremo ad usare ogni argomento ragionevole per convincervi, signori della maggioranza. Facciamo appello ai molti che nelle vostre file hanno a cuore l’unità d’Italia e i principi di democrazia e libertà. Speriamo che sia accolto l’invito del Presidente della Repubblica, del Presidente della Camera, e anche del Presidente del Senato, a riaprire il confronto per giungere a soluzioni condivise. Non serve all’Italia una nuova Costituzione che durerebbe pochi anni e che la prossima legislatura dovrebbe di nuovo cambiare.
A questo, però, penso non arriveremo perché confidiamo, se il nostro impegno dovesse risultare alla fine vano, nella saggezza e nelle convinzioni democratiche del popolo italiano che alla fine dovrà decidere con un referendum. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e Verdi-U).