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Non ci resta che puntare sul lavoro femminile
I dati del rapporto Istat mettono in evidenza il ritardo dell´Italia rispetto a Francia e Gran Bretagna sul frontedell´occupazione
MASSIMO LIVI BACCI

da Repubblica - 22 maggio 2002


Il "Rapporto annuale 2001" dell´Istat, oltre all´ampio quadro della situazione economica, dedica analisi originali al lavoro, al consumo, alla partecipazione sociale dalle quali emergono non pochi interessanti spunti di novità, sui quali vale la pena soffermarsi. Mi riferisco soprattutto al lavoro e al suo intreccio, assai stretto, con la struttura delle famiglie e con le caratteristiche personali dei suoi componenti. E, problema dei problemi, alla necessità di aumentare l´occupazione femminile poiché se la tradizionale divisione delle funzioni per genere - all´uomo il lavoro e la produzione, alla donna l´allevamento e il consumo; all´uomo il pubblico, alla donna il privato - è in rapida ritirata, essa sopravvive ancora in vasti settori della società.
Sul piano internazionale l´Italia ha due forti handicap: il primo è costituito da una partecipazione al lavoro della popolazione adulta tra le più basse di Europa - circa 10 punti percentuali in meno della media dei 15 paesi Ue. Il secondo handicap sta nel livello medio di istruzione e formazione sensibilmente inferiore a quello di altri grandi paesi ricchi. Va poi aggiunto che la popolazione in età attiva, soprattutto la componente più giovane, è destinata a contrarsi rapidamente nei prossimi anni. Nei confronti di due paesi di analoghe dimensioni, demografiche e economiche, come la Francia e la Gran Bretagna, siamo nelle condizioni di quel pilota che deve evitare di perdere terreno grazie all´abilità di guida, nonostante disponga di un motore meno potente.
Insomma sfruttiamo male le nostre risorse umane che, inoltre, sono in via di contrazione. Questa situazione prefigura la necessità di un rapido recupero del ritardo che ci separa dalla concorrenza e che è particolarmente grave per le donne dato che meno della metà (47 per cento) di queste si colloca nel mercato del lavoro, contro una media europea di 14 punti più alta.
Una prima risposta al ritardo italiano deve venire da una maggiore istruzione e da una più adeguata formazione. Il Rapporto rileva come tra le donne che hanno completato la loro formazione esistano enormi disparità nel grado di attività secondo il grado di istruzione. Si considerino le donne con più di 30 anni e che sono laureate: il 76 per cento di queste hanno un´occupazione e solo il 4 per cento sono disoccupate; se consideriamo invece le donne con la sola licenza elementare le occupate sono appena il 17 per cento e le disoccupate il 12 per cento. Gradi d´istruzione intermedi si collocano ordinatamente tra questi estremi. Questa relazione inversa tra lavoro e istruzione avviene non solo perché il mercato privilegia e seleziona persone con buona formazione, ma anche perché le donne che maggiormente hanno investito nella loro istruzione perseguono una carriera con maggiore impegno e continuità. Insomma, al crescere dell´istruzione, aumentano sia l´offerta, sia la domanda di lavoro, mentre la mancanza di istruzione si configura come un potente fattore di esclusione sociale.
Poiché un obbiettivo condiviso è quello di fare aumentare rapidamente l´occupazione femminile, occorre passare per le forche caudine dell´organizzazione della famiglia. Un passaggio difficile specie in alcune fasi del ciclo familiare durante le quali l´impegno di cura dei figli è più gravoso. Infatti tra le donne che hanno tra 30 e 40 anni e che vivono da sole - e non hanno figli - nove su dieci sono attive. Ma tra le loro coetanee che vivono in coppia e che hanno figli, appena cinque su dieci si collocano nel mercato del lavoro. Naturalmente che le donne con figli abbiano tassi di attività inferiori a quelle che non hanno cure familiari non sorprende, anche perché questo avviene in tutti i paesi europei. Ma il divario è assai più forte in Italia che altrove, e in Italia, assai più forte nel Mezzogiorno che nel resto del paese. Anche in questo caso c´è un legame a doppio filo con il livello di istruzione: tra le donne più istruite, il fatto di avere o non avere una famiglia e dei figli influisce poco sul grado di attività. Tra le donne con basso grado di istruzione, invece, quasi i due terzi si collocano fuori del mercato del lavoro. Queste donne difettano delle risorse (non solamente economiche) che consentono alle donne più istruite di conciliare lavoro e famiglia. E poiché i redditi che possono spuntare nel mercato del lavoro sono modesti, non risulta conveniente per loro rinunciare alle economie "domestiche" che si ottengono con un maggiore impegno in famiglia. E´ evidente che le politiche sociali debbono spezzare questo circuito che si autoalimenta e che tende ad escludere i più deboli dal mercato del lavoro.
Della particolare debolezza del mercato del lavoro nel Mezzogiorno si sa quasi tutto, e la sintesi è che il tasso di attività è di oltre dieci punti inferiore a quello del resto del paese. Ma un´analisi del lavoro - sempre visto dal filtro della famiglia - è di particolare interesse e ci fa vedere come i vecchi modelli siano travolti dallo sviluppo, ma non ovunque. Se si considerano le famiglie con almeno due persone in età attiva si osserva, nel Centro-Nord, che in più della metà dei casi ci sono almeno due occupati e che questa proporzione è cresciuta fortemente negli ultimi anni. In altri termini, ci si avvia ad una sorta di pieno impiego familiare: gli adulti che non abbiano assorbenti impegni (formazione, figli) o particolari motivi di salute, lavorano tutti. Non così nel Mezzogiorno dove le famiglie con "pieno impiego" sono appena una su quattro, e quelle particolarmente vulnerabili, nelle quali nessun adulto è occupato, sono ben una su sei. Qui i modelli tradizionali sopravvivono con forza anche se vi sono segni della loro incipiente erosione.
I dati dicono inequivocabilmente che la crescita del lavoro in Italia è affidata alle donne, per le quali però deve essere possibile e conveniente entrare, o restare, nel mercato.

 

IL RAPPORTO ANNUALE DELL’ISTAT: COSÌ I COMPORTAMENTI FEMMINILI CAMBIANO LA VITA QUOTIDIANA
Donne, prima il lavoro poi la famiglia
di Chiara Saraceno

da La Stampa - 22 maggio 2002

Dal 1993 al 2001 in Italia ci sono state forti trasformazioni sul mercato del lavoro: sul lato della domanda, ma anche della offerta. Esse segnalano mutamenti non solo economici e produttivi, ma anche nella organizzazione familiare e della vita quotidiana. È quanto emerge dal Rapporto Annuale dell'Istat. Al centro di queste trasformazioni stanno i mutati comportamenti delle donne. Mentre l'occupazione maschile, dopo il periodo di forte declino dei primi anni del periodo, ha recuperato per attestarsi su valori sostanzialmente simili a quelli iniziali, quella femminile è aumentata del 14%.

Questo aumento ha origine non solo nelle mutate caratteristiche della domanda, ma nell'aumento del tasso di attività delle donne, ovvero della quota di donne che si presentano sul mercato del lavoro e si aspettano di rimanervi. Ciò in parte spiega perché sia contestualmente aumentato anche il tasso di disoccupazione femminile, che rimane consistentemente più alto di quello maschile (13% di contro a 7%). Esso è anche nettamente superiore, a differenza che per quello maschile, alla media europea, che è attestata, per le donne, attorno al 9%. Per altro, le donne sono coinvolte più degli uomini in rapporti di lavoro di breve durata. E ricevono in media una remunerazione più bassa del 25-40%.

L'aumentata partecipazione delle donne al mercato del lavoro, pur in condizioni di persistente disuguaglianza, ha consolidato una tendenza iniziata già a partire dagli anni 70: le donne non lavorano più per il mercato prevalentemente da giovani e nubili, per abbandonare poi quando si sposano ed hanno figli. Come i loro coetanei maschi, oggi entrano più tardi (perché stanno più a scuola) nel mercato del lavoro e ci rimangono anche durante le fasi di formazione della famiglia; benché non manchino uscite per cause familiari che segnalano la persistente difficoltà delle donne italiane nel conciliare lavoro e famiglia.

Le differenze territoriali si intrecciano a, e insieme scompigliano, quelle tra uomini e donne. Basti pensare che nel Centro-Nord il tasso di disoccupazione femminile, 7,2%, è meno della metà di quello maschile nel Mezzogiorno. Ma anche nel Mezzogiorno il comportamento femminile è in forte cambiamento, trascinato, come e più che nel resto del paese, dall'aumento della scolarità femminile.

La bassa scolarità, insieme alla condizione familiare, sta emergendo come il fattore di maggiore differenziazione tra comportamenti e opportunità femminili. Nonostante l'aumento della partecipazione femminile nelle età centrali e in tutte le condizioni familiari, queste ultime infatti continuano a costituire un forte elemento di differenziazione a parità di età. Tra le donne single tra i 30 e i 39 anni il tasso di attività è vicino al 90%, e non molto distante da quello maschile; scende di 10 punti tra quelle in coppia senza figli e non supera il 56% tra quelle con figli.

Tra queste ultime è anche più diffuso il part-time. Di più, le donne con figli hanno anche un tasso di disoccupazione più alto sia delle single sia delle coniugate senza figli. Il lavoro familiare, in altri termini, non solo continua a differenziare le donne dagli uomini, le mogli dai mariti, ma anche le donne tra loro rispetto alla possibilità di rimanere sul mercato del lavoro remunerato. Queste differenze appaiono più nette nei confronti territoriali, ma anche tra donne con titolo di studio diversi.

Non sorprendentemente, le donne con titolo di studio più elevato riescono a conciliare meglio responsabilità familiari e partecipazione al mercato del lavoro. Dalla prospettiva delle famiglie, questi mutamenti nei comportamenti delle donne implicano un aumento delle famiglie in cui vi è più di un lavoratore e soprattutto in cui lavora la moglie-madre; anche se la loro percentuale è ancora lontana dalla media europea.

Ciò ha conseguenze non solo sulla disponibilità di reddito, ma anche sulla disponibilità di lavoro familiare e di cura, nonché sulla domanda di servizi e di organizzazione dei tempi di lavoro e di vita. Tra il 1993 e il 2001 le famiglie con più di un occupato sono aumentate di oltre 671 mila unità, arrivando alla cifra di 5 milioni e 400 mila famiglie. Viceversa sono rimaste stabili le famiglie senza nessun occupato tra le persone in età da lavoro.

Data la diversa distribuzione territoriale del fenomeno, mentre nel Centro-Nord sono molto aumentate le famiglie con due occupati, senza tuttavia provocare una polarizzazione tra famiglie con più di un occupato e famiglie senza occupati, nel Mezzogiorno è avvenuto precisamente questo: sono cioè aumentati entrambi i tipi di famiglie e quindi anche il livello di disuguaglianza.

Di più, nel Mezzogiorno è anche alta la quota di famiglie (8%, il doppio che nel Nord) in cui tutti gli occupati hanno un contratto di lavoro atipico, laddove nelle altre regioni il lavoro atipico all'interno della famiglia si combina molto più spesso con la presenza di lavoratori che viceversa hanno contratti standard.

Il forte grado di omogamia matrimoniale, unito ai mutamenti nella domanda di lavoro, infatti, oggi più di un tempo produce una polarizzazione tra le famiglie sulla base delle risorse dei loro diversi componenti, in particolare della coppia: con conseguenze sugli stili di vita, il livello e il tipo di consumi, ma anche sul destino dei figli.

A livello nazionale le famiglie con componenti in età di lavoro in cui nessuno è occupato costituiscono il 4,6%, ma il 9,6% nel Mezzogiorno, a fronte dell'1,6-1,9% del Nord e al 3,3% del Centro. Si tratta di dati ancora relativamente contenuti, a motivo della prolungata permanenza dei giovani in famiglia e alla minore incidenza, nel nostro paese, del fenomeno della instabilità coniugale, ma in crescita.