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PAROLE & POLITICA
L'Italia disfatta
DEVOLUTION PAROLA MOLESTA
di CLAUDIO MAGRIS

 

  dal Corriere della Sera- 18 ottobre 2005


 

C'è una sola persona moralmente e culturalmente autorizzata a pronunciare la «devolution» e qualche anno fa avevo anzi proposto che le fosse riconosciuto con una specifica legge il diritto esclusivo di usarla: Alberto Sordi, sovrano interprete della pagliaccesca vocazione italica a «fare l'americano», a darsi l'aria di frequentatore del West pur abitando nel Varesotto o a Porta Portese e ad adoperare senza necessità termini anglosassoni nonostante la propria esilarante pronuncia. Purtroppo Alberto Sordi è morto e i suoi involontari imitatori hanno poco del suo genio e molto della balordaggine dei personaggi da lui creati. Non c'è infatti alcun motivo di dire «devolution» anziché riforma federalista, così come fa ridere i polli chiamare «governatori» i presidenti delle Regioni, quasi essi potessero, come negli Stati Uniti, concedere o negare la grazia al condannato sulla sedia elettrica.
Il termine «devolution», ripetuto con coatta iattanza, è vacuo come il «cioè» postsessantottino; non è tanto una parola che esprima un concetto, quanto un rumore, come quelli che il corpo talora emette anche involontariamente, magari con effetti socialmente imbarazzanti; un segnale convenuto di riconoscimento fra simili, come il fischio di certi animali o quello irriferibile immortalato da una celebre canzone goliardica. Purtroppo, in questo caso, non è in gioco una festa delle matricole o di addio al celibato, bensì il Paese, l'Italia, lo Stato, la Patria o come vogliamo chiamarlo; il suo destino e il suo futuro, la sua dignità, il senso e il peso della sua presenza nel mondo.
La ributtante riforma costituzionale in cantiere, che si appresta a cancellare quel poco o tanto di buono che c'è ancora nello Stato italiano e il senso stesso dello Stato e dell'Italia, non nasce dalla doverosa e sacrosanta esigenza di decentramento.
 

«Devolution», termine che mira a sfasciare l'Italia

È ovvio che la democrazia inizia ed esiste concretamente dal basso, nella realtà di istituzioni e autogoverni locali attenti alla peculiarità dei loro compiti ed è ovvio che un centralismo elefantiaco (come quello statale, spesso peraltro imitato da quello regionale, a differenza dalla più viva realtà comunale) è non solo potenzialmente livellante e illiberale, bensì anche anchilosato e inefficiente.
Ma la devoluzione — okay, devolution — non si ispira a queste esigenze concrete. Essa nasce da una regressiva negazione dell'unità del Paese e dal livoroso desiderio di distruggerla. Non a caso, sino a poco fa, veniva strombazzata — pur senza alcuna intenzione di porla in atto — la parola «secessione», con cui si sciacquavano la bocca macchiette di provincia assai poco simili all'aristocrazia cavalleresca del vecchio Sud di Via col Vento.
E secessione significa, appunto, distruggere l'unità del Paese.
A questa unità — a questo senso di più vasta appartenenza comune, pur nella creativa e amata varietà di città, territori, tradizioni, dialetti e costumi diversi — si vuol contrapporre un ringhioso micronazionalismo locale, spiritualmente strozzato dal proprio cordone ombelicale conservato sott'olio e chiuso a ogni incontro, pronto ad alzare ponti levatoi i quali offendono anzitutto il libero e schietto amore per il luogo natio, che è il piccolo angolo in cui impariamo a conoscere e ad amare il mondo. Vissuto e amato liberamente, il paese natale non è una endogamia asfittica né una sfilata folcloristica; Dante diceva che l'Arno gli aveva insegnato ad amare fortemente Firenze, ma anche a sentire che la nostra Patria è il mondo, come per i pesci il mare.
Le diversità sono il modo in cui si articola l'unità umana — come un albero nella varietà delle sue foglie, diceva Herder, scrittore illuminista e preromantico tedesco, amico e poi avversario di Goethe.
Anche la cultura esiste nella peculiarità delle sue forme ed è giusto che una Regione possa e debba curare, nell'istruzione e nelle iniziative culturali, la propria specificità, ma sempre nell'ambito di una formazione generale che interessa il Paese. La sicilianità di Verga è inscindibile dalla sua grandezza, ma non interessa un veneto meno di un siciliano; un'esclusiva competenza locale in materia scolastica che inducesse gli scolari piemontesi a ignorare Leopardi per studiare Gianduia sarebbe disastrosa anzitutto per quegli scolari. Già oggi dilaga un concetto regressivo della particolarità culturale: ad esempio, per ottenere — nella miseria totale in cui versa l'Università — qualche minimo finanziamento che permetta di comprare qualche libro o qualche rivista indispensabile, dobbiamo inventarci, a Trieste, qualche fasulla ricerca locale. Così il (poco) denaro verrà speso non per studiare Goethe, Mann o le conseguenze culturali della divisione della Germania dopo il '45, bensì per studiare qualche viaggiatore letterato tedesco che, andando a Venezia, abbia passato una notte a Trieste, dicendo magari, il mattino, «che bella città».
Le peculiarità locali compongono, costituiscono l'unità del Paese; se la distruggono, distruggono se stesse, così come un dialetto, parlato con gioiosa e spontanea naturalezza, viene falsificato in una tonta ideologia se lo si vuol sostituire o contrapporre alla lingua nazionale.
La «devolution» mira, oggettivamente, a disfare l'Italia, al contrario del federalismo patriottico (e antinazionalista) propugnato già in anni lontani da forze risorgimentali come il Partito Repubblicano — oggi snaturato e autoridicolizzato — che miravano a un Paese unitario e articolato nelle sue preziose varietà e destinato a integrarsi, senza dissolversi, in una unitaria e variegata Europa. La «devolution» è propugnata da partiti che costituiscono oggi la maggioranza parlamentare, benché divisi su molti problemi e soprattutto sul senso della Patria, visto che An, che organizza le marce e feste del Tricolore, governa insieme alla Lega, il cui leader ha dichiarato di volersi pulire il sedere col Tricolore. In realtà la «devolution» non si limita a intaccare la Nazione e lo Stato, ma si propone di evirare gli organi dello Stato capaci di impedire l'abuso dei poteri, non solo locali; mina l'armoniosa vita civile di una vasta e pluralistica comunità, retta da quel sistema di separazione, controllo e contrappeso di poteri elaborato dal pensiero liberale per garantire i cittadini e le libertà.
La riforma costituzionale che la maggioranza vuole varare è un attentato al patriottismo e al buon governo. Ma il Parlamento è composto di eletti che, secondo la Costituzione, sono responsabili verso il Paese, non verso il partito o la circoscrizione in cui sono stati eletti. Si è già visto come, nella maggioranza, a proposito della «devolution» ci siano persone cui sta più a cuore l'Italia che il proprio partito. È da sperare che parecchi avranno la dignità e il fegato di ribellarsi a questa mutilazione, di capire che essa deturpa anche il loro volto.