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Hillman: la rinuncia alla politica, che dramma

Usa, Bin Laden, globalizzazione: ecco cosa pensa il grande psicanalista di cui esce "Il piacere di pensare", conversazione con Silvia Ronchey "

Dobbiamo attingere a una figura dell'immaginazione capace di portare in sé la ferita fresca e ancora sanguinante dentro New York. Dobbiamo scoprire le immagini che emergono da quest'orrore. Dobbiamo trovare nuovi modi di immaginare la crisi di questi nostri tempi". Lo dice James Hillman. Il suo linguaggio psicanalitico non tradisce l'emozione di cittadino americano. Nato ad Atlantic City, New Jersey, professore a Yale, Chicago, Dallas, filosofo dell'anima, massimo epigono della scuola junghiana (già direttore dello Jung Institut di Zurigo), dopo essersi formato in Europa dove giunse da corrispondente di guerra, a 75 anni Hillman stava ultimando un libro intervista sul "piacere di pensare", tra saggezza socratica e platoniche riflessioni, quando è arrivata l'apocalittica mazzata di Manhattan. Allora il libro ha preso un'altra piega. Il "pensare" s'è fatto meno piacevole, riflettendo sulla realtà che il pianeta vive da quel maledetto 11 settembre.

Hillman non rinuncia al raziocinio critico nemmeno in tale frangente. Resta quello già annunciato il titolo del libro, che sarà presentato venerdì sera a Roma (alla Stampa estera): Il piacere di pensare (Rizzoli, 173 pagine, 22.000 lire); una lunga conversazione - già televisiva - con Silvia Ronchey, che due anni fa aveva intrattenuto Hillman sull'Anima del mondo, quattro edizioni pubblicate. Mentre cresce la paura globale, fa un certo effetto quest'altra affermazione di James Hillman, circa la guerra non mediata dalla politica: "L'idea di mediazione è razionalistica, umanistica, proviene da un'immagine archetipa di equilibrio ed è totalmente estranea alla mente assolutista, alla mente fanatica, come quella dei distruttori di New York. Per loro non esiste politica". Nemmeno per gli occidentali in guerra? "Il giovane Bush - risponde Hillman - ha usato una metafora: si può spezzare l'acciaio di un grattacielo, ma non l'acciaio della determinazione americana... Il giovane Bush dimentica che il fuoco scioglie l'acciaio, come è successo con le torri".

La psicologia ha qualcosa di meglio da offrire, invece della reazione armata contro la barbarie che ha colpito l'intera umanità? "Ci dev'essere azione, un'azione intelligente", risponde ancora Hillman, paventando tuttavia un'inquietante commistione degli opposti. "Devo segnalare il fatto singolare - dice, assumendosi tutta la responsabilità di tale perentoria dichiarazione - che esiste un'analogia, una simmetria, un preciso rispecchiamento tra l'industria globalizzata e l'organizzazione di Bin Laden. Entrambe mancano di collocazione, entrambe sono sparse per cinquanta nazioni, sono multinazionali, entrambe comunicano segretamente, mantengono le loro operazioni nell'ombra, nascondono il loro denaro e hanno una cultura strettamente corporativa con gerarchie senza volto né nome".

Eppure, Bin Laden una faccia ce l'ha e sa pubblicizzarla. "E' anche singolare - aggiunge Hillman - che questi nemici del capitalismo, come Bin Laden, come Noriega, come Saddam, siano stati tutti in precedenza alleati di imprese americane e abbiano appreso i loro metodi proprio dal Pentagono". Ma nemmeno l'erede di Jung, con tutta la sua profonda psicologia collettiva, può esimersi dal bollare i mandanti e gli esecutori di una tragedia non solo americana: "I distruttori di New York - precisa Hillman, senza mezzi termini - sono emissari della morte e sono nemici della vita e delle sue diversità". E' solo fanatismo che sfocia in pazzia? "I dirottatori - spiega ancora Hillman - non erano dei ragazzi selvaggi, dei pazzi, degli invasati. Erano attenti e, dobbiamo ammettere, intelligenti pianificatori, determinati a morire per la loro filosofia. Una filosofia che ha fondamento in Maometto stesso, nella Jihad e nella tradizione che l'islamismo ha seguito attraverso i secoli di sradicare o convertire gli infedeli".

Come valutare, psicologicamente, la reazione del popolo americano? "L'America vive la ferita vittimizzandosi eccessivamente e ritenendo la ritorsione necessaria alla guarigione. Preferirei che si guardasse la ferita come una fitta inferta nel profondo dell'orgoglio americano: il suo potere militare e industriale. Una ferita di iniziazione che lasci cicatrici nell'anima e renda l'America più dura e più forte, sì, ma con l'anima di un adulto e non di un bambino innocente". Nasce da qui anche quella che Hillman chiama "politica della depressione". "La depressione come atto politico - spiega - la pulsione irrefrenabile a comprare e spendere e vivere in fretta, uno stile di vita maniacale. La depressione è l'unico modo di mettere un freno a tutto questo. La depressione economica così come la depressione psicologica".

E Hillman sa bene che, in psichiatria, "la depressione è ira mascherata". Fin troppo diffusa, se è anche la grande malattia del secolo, quello appena passato e quello spaventosamente incominciato. Lui la chiama "male endemico collettivo". Chi ce ne guarirà, se si arrende pure la psicologia? "Ma il mondo non è solo sofferenza": ecco il flebile soffio di speranza cui nemmeno Hillman rinuncia