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Se la lontana Ossezia diventa casa nostra
ILVO DIAMANTI
 

  da Repubblica - 5 settembre 2004

 
È difficile, perfino azzardato, disegnare mappe nel giorno del dolore e dell´orrore. Le uniche mappe proposte dai giornali, in questi giorni, non a caso, descrivono i luoghi dell´orrore e del dolore. Beslan. La scuola e i dintorni. La palestra, dove bambini e genitori erano ammassati, uno sull´altro. E lo spazio esterno. Dove i parenti stazionavano, stretti fra l´attesa e l´angoscia. Dove le truppe speciali preparavano l´intervento. Anch´esso raffigurato, un passo dopo l´altro. La mappa del caos sanguinoso, che ha chiuso questa sanguinosa e sanguinaria vicenda. Difficile tracciare altre mappe, che ci servano a capire e a situarci. A "collocare" ciò che è successo e sta succedendo. A dargli significato. Anche perché le mappe di cui disponiamo sono inadatte e inadeguate.

Se l´ignota Ossezia diventa casa nostra

Sconcertate a paesi e contesti di cui non sospettavamo l´esistenza. Prima la Cecenia e il Daghestan. Oggi l´Ossezia, a sua volta addossata alla Georgia, all´Inguscezia e all´Abkhazia. Luoghi che stentiamo, talora, a pronunciare. Pochi milioni, talora poche centinaia di migliaia di abitanti. Ma stanno al centro dell´orrore e del dolore del mondo. Del nostro mondo. Nel quale i confini non funzionano più da barriera. Non solo dal punto di vista fisico, geografico, politico. Ma neppure dal punto di vista "cognitivo" e ideologico. Perché non ci permettono di dividere il mondo, di distinguere civiltà, religioni, culture, istituzioni. L´Ossezia, retroguardia (fino a ieri: oggi avanguardia) della lunga, violentissima guerra che la Russia conduce in Cecenia, per scoraggiarne, annichilirne le rivendicazioni indipendentiste. Senza esito, visti i risultati, nonostante la capitale, Groznj, sia stata ridotta a un cumulo di macerie. Ebbene, l´Ossezia, è uno dei tanti prodotti della "caduta del muro" e, quindi, del sistema sovietico. Un avvenimento salutato, allora come oggi, come la fine di una lunga sfida fra l´Occidente e il comunismo, fra la democrazia e il sistema autoritario ? economico, politico, civile ? che regolava i sistemi dell´Est. Una sfida vinta: dalla democrazia politica e dall´economia di mercato. Ma il muro, quel muro, costituiva anche un riferimento, per l´Occidente e i suoi cittadini. Un modo per chiarire, identificare: il giusto dall´ingiusto, la libertà dall´oppressione, la ragione dalla forza. Il muro: definiva il nostro mondo, alimentava le nostre certezze. Oggi l´Ossezia, un tempo regione ignota e periferica dell´impero opaco della non?democrazia e del non?occidente, non solo rivela la sua esistenza. Ma è qui, davanti ai nostri occhi. Entra nelle nostre case. È casa nostra. Conseguenza della globalizzazione comunicativa, certamente. Che ci rende "spettatori" ? non protagonisti ? di quanto avviene ovunque. E ci coinvolge, emotivamente. Influenzando le nostre emozioni e i nostri orientamenti. La globalizzazione comunicativa ? più di quella economica e dei mercati ? rende inutile ogni muro. Ogni confine fisico e cognitivo. E sposta, trasferisce (anche) sul piano mediatico i conflitti e le guerre. Il cui impatto è misurato per il grado di insicurezza, angoscia, instabilità che generano nelle nostre società, nell´opinione pubblica occidentale (e non). Anche per questo, assumono nuova, terribile attualità comportamenti e atti considerati impliciti alle civiltà pre?moderne e/o non?occidentali. La violenza rituale: l´uso del corpo come arma, la morte celebrata come atroce rito sacrificale. Le teste mozzate, le donne vestite di nero imbottite di esplosivo. Tutto ostentato ed esibito, come trofeo oppure come rappresentazione, a fini esemplari. Il premoderno, il non?occidentale, che diventano elemento essenziale, centrale, dei processi della comunicazione. Dello spettacolo. L´opposto delle guerre occidentali, che cercano, in ogni modo, di spersonalizzare la morte, le vittime. Le proprie e quelle altrui. Evitando, per quanto possibile, le guerre sul campo. Tenendo lontani i media, per quanto possibile. Anche, ma non solo, per timore dell´impatto sull´opinione pubblica interna.

I nuovi nemici dell´Occidente, invece, usano i media; e investono sulla morte, sulle vittime. Non solo, ne rendono protagonisti gli attori maggiormente risparmiati (o tabuizzati) dalla nostra cultura. Le donne e, oggi, soprattutto i bambini. Le donne guerriere; i bambini, vittime sacrificali e, talora, anch´essi guerrieri. Le donne che, lontane dall´archetipo della madre, inseguono i bimbi, per farsi esplodere insieme a loro. Lo spettacolo raccapricciante della morte, della violenza più atroce diventano parte, integrante, della strategia di guerra condotta dal terrorismo che ha messo radici nell´integralismo islamico. Un "nemico" senza patria e senza volto. Che si è adattato bene, per questo motivo, alle logiche della globalizzazione. Le ha interpretate con efficacia terribile. Perché ci rende "partecipi" di questi drammi. Ci coinvolge. Non ci fa dormire. Annulla le distanze e le distinzioni, da cui ci sentivamo protetti. (E suscita, per questo forme di pietà globale; come le candele, che molti italiani hanno acceso, alle finestre, ieri sera).

D´altronde, il terrorismo globale, per definizione, si muove scavalcando ogni confine. Irrompe nel "nostro" mondo (dalle "torri gemelle" a Madrid). Entra nei luoghi dei conflitti, in cui l´Occidente è coinvolto, affiancandone (e rappresentandone) il Nemico. In Iraq come in Palestina. Come in Caucaso. (Dove molti fra i terroristi erano arabi). E qui, a Beslan, in Ossezia e in Cecenia, scopriamo la novità, che ci rende più difficile riproporre ? magari aggiornate ? mappe, capaci di collocarci rispetto a ciò che avviene. Di situarci e, se possibile, distanziarci dall´orrore e dal dolore. Di rassicurarci. Non è solo la globalizzazione "cognitiva", a scoraggiare questa, comprensibile, esigenza. È che, in questi anni, è cambiata la geografia delle culture politiche, delle civiltà. Caduto il muro, il mercato, la democrazia ? in una parola: l´Occidente? hanno allargato e allungato il loro spazio. Per cui, mentre osserviamo, attoniti, al massacro di Beslan, non possiamo evitare l´idea ? fastidiosa ? che l´Ossezia, finito il comunismo, finita l´Urss, è diventata "Occidente". O, comunque, vi si è avvicinata molto. Perché la Russia è diventata (parte dell´) Occidente. Ed è ? da sempre, ma oggi più di ieri ? Europa. Per questo, dopo Beslan, la sfida dell´integralismo islamico ci spaventa. Forse più dell´Iraq. Capiamo che costituisce una minaccia esplicita, frontale, globale, ai valori, alle istituzioni, alle tradizioni che l´Occidente ? e l´Europa ? hanno coltivato, con fatica e fra molte contraddizioni. Una minaccia alla democrazia, alla tolleranza, all´eguaglianza dei diritti, al rispetto della vita, alla dignità della donna, alla tutela dell´infanzia. All´idea di Occidente in cui ci riconosciamo. Ma ci inquieta anche la "risposta" dei servizi speciali russi. E, a maggior ragione, il cimitero della Cecenia, su cui questa strage proietta la sua ombra sinistra. Rinnovandone la memoria torbida. Perché suggeriscono una risposta alla sfida del terrorismo e ? prima ancora ? del nazionalismo, tutta militarista, "realista". Che concepisce la guerra ? e la forza ? non come un mezzo estremo, da usare quando la politica ha esaurito le sue risorse. Ma come una via preferibile alla politica (e alla mediazione, al negoziato) quando promette soluzioni più rapide ed efficaci. Che considera le vite umane, la vita umana, un "costo", per quanto doloroso. Non un "principio" e un "fine", da salvaguardare. A ogni "costo".
Ci inquieta, tutto ciò, perché ribadisce quanto sia difficile ? e tanto più necessario ? difendere la democrazia dai suoi nemici esterni ed estremi. Ma ci rammenta, al tempo stesso, quanto sia difficile radicarla e coltivarne la pianta altrove, quando il terreno su cui viene piantata è arido. E quando viene piantata "a forza".
Per questo, il massacro di Beslan provoca un senso di vertigine (almeno, in me). Perché scardina le coordinate su cui poggiano le nostre poche certezze (e le nostre presunzioni). Rende inutilizzabili le nostre bussole. E precarie le nostre mappe. A cui, peraltro, non possiamo rinunciare. Senza mappe, per quanto provvisorie, come potremmo orientarci? Come potremmo camminare?