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I DOVERI COMUNI
di STEFANO FOLLI

 

  dal Corriere - 5 settembre 2004


L’11 settembre del 2001 il mondo smise di essere quello che era stato fino a quel giorno. Qualcuno lo disse e lo scrisse con più chiarezza di altri. Tre anni dopo, un altro settembre in una sperduta repubblica russa ha fatto capire a tutti fino a che punto il mondo sia cambiato. Il terrorismo globale è nelle nostre case, i bambini dell’Ossezia sono i nostri, le candele che si accendono per quei morti sono le stesse che s’illuminarono per le vittime delle Torri Gemelle.
La domanda è: quale sarà il prossimo passo? Non lo sappiamo, naturalmente. Ma sappiamo che la miscela di nazionalismo e di fanatismo religioso non ha bisogno di una mente ordinatrice, di un regista nascosto in qualche grotta per produrre illusioni sanguinose e lutti infiniti. Basta il contagio istantaneo tipico del mondo moderno e un’istintiva rete di alleanze fra gruppi radicali. È così che la Cecenia clandestina, schiacciata dalla repressione russa, è diventata un laboratorio fondamentalista.
Si invoca una «soluzione politica» per la Cecenia, l’Iraq, la Palestina. E sarebbe impossibile non essere d’accordo. Ma l’eccidio di Beslan ci ricorda che il tempo della retorica è finito e che altri maggiori pericoli s’intravedono. Lo scontro fra la presidenza di turno olandese dell’Unione europea e il governo di Putin costituisce un pessimo segnale. Nessuno può immaginare che sia auspicabile lasciare Putin solo con i suoi fantasmi, quali che siano le gravi responsabilità di Mosca nell’incrudelirsi della questione cecena. Perché i fantasmi russi sono il ritorno al nazionalismo esasperato, il prevalere degli apparati militari, il freno ai processi democratici. Allo stesso modo in Iraq la soluzione politica passa attraverso il concorso della comunità internazionale, non il suo disimpegno. Ma quando il presidente Allawi chiede agli europei e soprattutto alla Francia, a pochi mesi dalle auspicate elezioni, di «non essere neutrali», gli viene dato (qui in Italia) del «lacchè degli americani». Eppure anche all’estrema sinistra si sente ormai la voce di chi ha compiuto una scelta ideale: tra la libertà imposta dalle baionette dei marines e le teste mozzate dagli integralisti, preferisce la prima soluzione.
La verità è che si avvicinano mesi cruciali nel rapporto fra Stati Uniti ed Europa. E se non conviene a quest’ultima isolare Putin nell’ora della tragedia, ancor meno sembra utile ignorare quello che avviene a Washington. Può darsi che Kerry trovi i voti per spodestare Bush, ma forse è meglio abituarsi fin d’ora all’idea che l’attuale presidente possa restare in carica altri quattro anni. Le scorribande del terrorismo globale rendono questa ipotesi tutt’altro che remota. In tal caso gli europei - comprese le sinistre europee - dovranno disporsi a una condivisione di responsabilità con gli Stati Uniti fondata su di una speranza: come è accaduto in altri momenti della storia, il secondo mandato di Bush sarà probabilmente più pragmatico, meno ideologico, meno ispirato alle logiche neoconservatrici, più rispettoso del rapporto con gli alleati.

Dopo Beslan i doveri comuni

Se così fosse, sarebbe grave sprecare l’opportunità di affrontare insieme, europei e americani, i problemi della stabilità in Iraq, la lotta al terrorismo e il rifiuto dei ricatti. Una lotta da svolgere con mezzi politici e non solo militari, certo. A cominciare dalle relazioni con l’Islam moderato, rappresentato da alcuni governi, ma anche da tutti coloro che vogliono la modernizzazione democratica delle società musulmane. Il manifesto che il Corriere ha pubblicato va in questa direzione, come pure il progetto di una «Consulta» incoraggiato da uno schieramento ampio. L’importante è che siano accantonate le ipocrisie. Come quelle di quei governi che parlano il linguaggio della politica, ma hanno finanziato fino a ieri le organizzazioni terroristiche palestinesi che fanno esplodere gli autobus in Israele. E hanno finto di non sapere.
Stefano Folli