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10/07/2005

Nonluoghi e resilienza (una gran bella parola)

di Antonio Sofi, alle 19:26

 
londonmap.gifGabriele Romagnoli su Repubblica di oggi, in un lungo pezzo dal titolo “La nostra paura quotidiana” accenna al fatto che i nonluoghi, sui quali scrivevo nei giorni scorsi, sono i posti nel quale la paura del terrorismo alberga. Ovviamente concordo (forte dei distinguo già fatti) e cito:

Le sedi in cui il nuovo terrore si è depositato sono principalmente i non luoghi, gli spazi dove non si vive, si transita: gli aeroporti, i mezzi di trasporto, i locali pubblici. La guerra convenzionale ti viene a colpire dove sei, bombarda le abitazioni, entra a fucile spianato “casa per casa”. Questo terrorismo (questa guerra non convenzionale) ti colpisce dove passi. La minaccia ti segue, ti accompagna. In questo modo la paura, letteralmente, ti paralizza. Induce a non muoverti per sentirti al sicuro. […] La valenza stessa dei non luoghi muta.

Non muoversi per sentirsi al sicuro.
Se ti muovi spesso troverai metrò, grattacieli che solleticano le nuvole e attirano gli aerei, stazioni affollate che ti connettono ad altrove.
Attaccare i nonluoghi è cercare di minare le fondamenta della modernità.
E minare le fondamenta della modernità non passa (è questa l’intuizione delle nuove forme del terrorismo) attraverso la distruzione di monumenti famosi, pregni di storia, ormai simboli invecchiati e statici, buoni al massimo per cartoline e fotografie di prammatica; e nemmeno attraverso il tentativo (equiparabile) di attentare alla vita di personaggi famosi, autorità, leader nazionali.

E sono convinto che questa sia, solo in parte, una scelta dettata dalle difficoltà pratiche, o effetto di una strategia che ricerca il maggior numero di vittime.

Ilvo Diamanti, sempre su La Repubblica, scrive qualcosa di simile:

[…] gli attentati, ormai da tempo, non puntano più sui “bersagli alti”: leader politici, uomini di Stato e dell’esercito. Non solo perchè è, oggettivamente, difficile raggiungerli. Ma anche perchè i “bersagli bassi”, oltre che vulnerabili, sono i più importanti, per le democrazie occidentali.

Seguo un mio personale persorso mentale.
La paura blocca o fa scappare.
Il terrore incrina e spezza: abitudini, normalità.
La resilienza inglese - per esempio - è, invece, un’altra cosa ancora.
La resilienza: proprio una bella parola.

Specie in situazioni tragiche, le parole possono essere incredibilmente lenitive: a patto, però, di trovare la parola opportuna, di dire la cosa giusta. Il che è l’esatto opposto del parlare a vanvera, o tirare parole compunte a casaccio sperando che qualcuna di queste vada a colpire delle corde emotive nascoste.
La parola giusta è un esercizio di profonda condivisione, e comprensione, non proviene certo dalle facili empatie o dai cinici disincanti.

Resilience (tra gli altri, hanno usato nei loro discorsi questa parola - anche nome di un apposito ufficio governativo per le emergenze nazionali - Tony Blair e il Principe Carlo) vuol dire, in italiano, la capacità di un materiale di resistere ad urti improvvisi senza spezzarsi. In inglese il termine è meno desueto, e più complesso: è indice di una capacità insieme di reazione, di resistenza e di ripresa.

Lo stesso Diamanti, riferendosi - in buona compagnia in questi giorni - proprio alla resilienza britannica fatta di dolore composto, voci basse e poche polemiche, orgoglio e sentimento, scrive (grassetto mio):

[…] questo evento drammatico ha occupato uno spazio, tutto sommato, relativo. Niente a che vedere con l’effeto baricentrico e ipnotico prodotto dall’11 settembre. Ma neppure con l’inquietudine, spessa, provocata dall’attentato di Madrid. E’ come se il terrorismo, dopo essere precipitato nella vità quotidiana, ne fosse rimasto, a sua volta, imprigionato.

Diamanti conclude dicendo di non saper dire se questa capacità di resilienza al terrorismo sia un prodotto tipicamente britannico e quindi non esportabile; nemmeno se sia un male (ovvero l’effetto perverso e congiunto di abitudine e indifferenza) o un bene (il segno felice di una avvenuta metabolizzazione).

Ovviamente non lo so neanche io.

Ma se il terrorismo colpisce un nonluoghi (e non un politico o un monumento) perchè sa, chissà quanto consapevolmente, che è lì il centro di gravità simbolici e insieme il punto debole dell’identità occidentale, e lo fa proprio per iniettare in essi la paura di stare al mondo, allora la resilienza, oltre che una gran bella parola, è anche una risposta.