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TORNA A: SOCIETA', POLITICA, CULTURA: saggi ed articoli

Massimo D'Alema
Il partito riformista
Lezione tenuta il 29 aprile 2002 al corso "A cosa servono i partiti?"


29 Aprile 2002


 

Il tema di questo mio intervento può apparire circoscritto ma è in realtà immenso: cosa hanno rappresentato i partiti riformisti, nelle loro diverse esperienze nazionali, per la vicenda politica del Novecento? Vorrei anche rivolgere la mia attenzione al futuro e dunque a cosa possa essere oggi in Italia e in Europa un partito riformista, con quali problemi si debba misurare, quali prospettive possa avere, quali funzioni possa svolgere, quali innovazioni siano necessarie sul piano della cultura politica e delle forme organizzative per ridare vigore ad un partito riformista. Tuttavia credo che sarebbe pressoché impossibile svolgere questo tema senza abbracciare quello del ruolo che il riformismo socialista, o di matrice progressista, ha svolto in passato. Tanto più questo mi pare necessario in un'epoca nella quale tutti si dicono riformisti: non solo i massimalisti ma persino i reazionari, chiamando riforme i loro programmi di restaurazione sociale. Credo quindi che valga la pena iniziare gettando uno sguardo alle nostre spalle. E riflettere su cosa abbia rappresentato il riformismo nella storia d'Europa, quale sia il frutto della sua esperienza storica e il lascito dell'esperienza riformista.
Nella conclusione del suo bel volume “Cent’anni di socialismo” Donald Sassoon traccia un bilancio in questi termini: nell'Europa occidentale, egli scrive, la principale conquista del socialismo è stata l'incivilimento del capitalismo. Un ruolo importante hanno avuto su questo piano anche altre tradizioni politiche: le tradizioni cristiane sociali sul continente, la tradizione liberale in Gran Bretagna. E tuttavia il ruolo che la tradizione socialista ha svolto in quest'opera di incivilimento è stata fondamentale e insostituibile. Persino un critico severo del socialismo come Leszek Kolakowski ha scritto che “qualunque cosa sia stata fatta in Europa occidentale per creare più giustizia, più sicurezza, maggiori opportunità di istruzione, più welfare, più responsabilità dello Stato nei confronti dei poveri e degli indifesi, non sarebbe mai stata raggiunta senza la pressione dell'ideologie socialiste e dei movimenti socialisti, a dispetto di tutte le loro ingenuità e illusioni”. E non si è trattato soltanto dell'istituzione di un sistema di protezione sociale. In realtà il riformismo europeo di matrice socialista si pone come il vero erede dell'illuminismo europeo. E come tale esso è stato protagonista delle lotte per i diritti civili e della democrazia. Il riformismo socialista ha combattuto per l'estensione del suffragio universale laddove era limitato, per i diritti delle donne prima e più tenacemente di ogni altro partito, per l'abolizione dei diritti acquisiti e dei privilegi dell’ancién règime, contro la discriminazione razziale, per l’abolizione della pena di morte, per il rispetto delle differenze sessuali e per la depenalizzazione dell'aborto.
I socialisti, ovvero coloro che hanno svolto questo ruolo storico, non avevano l'obiettivo di abolire il capitalismo né quello di costituire una società “altra”. Anzi, questo fu il punto su cui si ruppe il movimento socialista, all'alba della rivoluzione d'ottobre, tra chi si schierò per una prospettiva rivoluzionaria e chi rimase nell'alveo di un movimento di carattere riformista. Il riformismo socialista ha cercato di regolare il capitalismo, operando all'interno di un duplice ordine di condizionamenti: in primo luogo entro un quadro di regole che non impedissero il funzionamento del capitalismo, al contrario il riformismo ha lavorato allo scopo di agevolare - condizionandolo - il capitalismo (almeno fino alla fine degli anni Settanta, quando si sviluppò quella grande offensiva culturale e politica di segno neoliberista che agevolò il processo di globalizzazione e che individuò proprio nello Stato sociale di matrice riformista un impedimento allo sviluppo delle forze produttive di tipo capitalistico). In secondo luogo il riformismo ha operato entro il quadro e con gli strumenti propri dello Stato nazionale. Perché il riformismo si è identificato con lo Stato nazionale e lo Stato nazionale ha rappresentato la leva per promuovere socializzazione e per costruire welfare.
Il partito riformista in questa sua opera si è fondato sull'equilibrio di tre elementi. In primo luogo il partito vero e proprio: i suoi iscritti, gli associati. In secondo luogo le molte forme di legame con la società: il sindacato, le leghe, le cooperative, e dunque le varie forme associative che nella tradizione e nella struttura del partito riformista hanno sempre rappresentato gli strumenti di un rapporto più largo del partito. In terzo luogo la rappresentanza parlamentare e la presenza nei diversi livelli di governo locale. Nella combinazione di questi tre elementi si racchiude, almeno in parte, la differenza strutturale tra diversi tipi di partito. Il partito riformista classico si è composto di iscritti, di associati, di club, di sezioni, della rappresentanza istituzionale (che ha avuto un grande ruolo in un partito che faceva della “risorsa governo” la risorsa essenziale a livello locale e nazionale) e dei diversi strumenti di legame con la società e di rappresentanza più diretta degli interessi, a partire dal sindacato. Non c'è dubbio che il partito riformista si differenzia dal partito conservatore o dal partito rivoluzionario anche per l’equilibrio tra questi tre aspetti della sua struttura, del suo rapporto con la società. Il partito conservatore di tipo classico è soprattutto un partito della rappresentanza, un partito elettorale: per rimanere alla divisione classica, un “partito della rappresentanza individuale”. Il partito leninista è invece soprattutto un “partito-apparato”, è partito dei militanti; l’elemento economico-corporativo vi appare subordinato. Com’è noto, tutto il “Che fare?” di Lenin è imperniato sulla preminenza del partito come strumento di superamento di una rappresentazione economico-cooperativa degli interessi di classe, sul carattere esterno della coscienza di classe. Mentre la rappresentanza istituzionale ha nella concezione leninista carattere puramente strumentale: il parlamento è tribuna. Nella visione leninista è il partito che ha assoluta preminenza e la sua struttura, per potere subordinare a sé gli altri aspetti, ha un carattere quasi militare. Il partito riformista, è stato una grande forza dell'integrazione sociale. Nel dopoguerra anche altri partiti di segno moderato hanno adottato il modello del partito di integrazione sociale, diverso sia rispetto al partito elettorale e della rappresentanza individuale di segno conservatore che rispetto al partito rivoluzionario centralizzato che deriva da un modello giacobino e poi blanquista della rivoluzione francese. Il partito dell’integrazione sociale evolve nel corso del dopoguerra verso quello che gli studiosi hanno chiamato “il partito pigliatutto”. E’ un'espressione che può apparire deteriore: in realtà nell'analisi che ne ha fatto Otto Kirchheimer tale descrizione dell’evoluzione dei partiti riformisti non ha affatto una connotazione negativa. Si riferisce infatti allo sviluppo di una capacità dei partiti riformisti di rappresentare una pluralità di interessi sociali e di deideologizzare il loro rapporto con la società in funzione di una moltiplicazione del consenso anche in termini elettorali. Il partito pigliatutto riflette quel necessario adattamento ad una crescente complessità sociale che i partiti riformisti hanno dovuto compiere, insieme ad una progressiva tendenza al pragmatismo (seppure ispirato a quei valori che sono propri e caratterizzanti delle forze di ispirazione socialista).
Secondo alcuni autori il partito comunista italiano e il partito comunista francese, pur da analizzare nel quadro dei partiti di matrice socialista che operano nell’Europa occidentale, non avrebbero invece vissuto questa evoluzione. Gli studiosi mettono l'accento sull’anomalia e sull’originalità dell'esperienza italiana dal punto di vista teorico: e non c'è dubbio che l'adattamento gramsciano del modello leninista, così come l’invenzione togliattiana del partito nuovo, si caratterizzino in modo piuttosto diverso rispetto ai classici partiti socialdemocratici, perché la matrice comunista (ovvero l'idea che il ruolo fondamentale del partito politico è la conquista del potere e non l'integrazione sociale) rimane centrale anche nell'ispirazione del comunismo italiano. E tuttavia soprattutto Togliatti, che da questo punto di vista è indubbiamente il più grande innovatore della tradizione comunista sul terreno della teoria del partito, è stato l'inventore di una forma di partito dell'integrazione dei cittadini nella repubblica democratica che ha svolto una funzione, nei fatti, per molti aspetti simile o paragonabile alla funzione di integrazione sociale svolta dai grandi partiti riformisti in Europa. Tale funzione ha avuto effetti diseguali nel paese ma non c'è dubbio che ciò che i comunisti italiani hanno costruito soprattutto in alcune aree del paese, e penso alle grandi regioni rosse, somiglia molto alle migliori esperienze del riformismo europeo come esperienza di riformismo dal basso: un riformismo fondato sulla partecipazione, sulle leghe, sulle cooperative, sulle case del popolo, sull'uso del potere locale. Tuttavia questo riformismo nei fatti - giacché da un punto di vista teorico questo tipo di definizione è stata sempre respinta dai comunisti italiani - hanno pesato due limiti: in primo luogo il persistente legame con l'Unione sovietica nel quadro della guerra fredda e la conseguente esclusione (da parte degli altri) e autoesclusione del PCI dalla possibilità di governare; in secondo luogo i persistenti sistemi finalistici della cultura del PCI che hanno determinato una irrisolutezza nel rapporto tra programma minimo e programma massimo, tra riforme e trasformazione sociale, tra riforme e potere. Questo è stato un tema molto tormentato dell’elaborazione dei comunisti italiani. Ricordo il tema delle riforme di struttura, il cui carattere strutturale consisteva appunto nel modificare gradualmente i rapporti di potere nella società. Si trattava di una concezione delle riforme collegata a una strategia della conquista del potere, una strategia di medio periodo delle conquista del potere, che nella visione del comunismo italiano si sostituiva alla strategia della vittoria elettorale, della conquista del governo, ovvero a quella strategia che è stata il modo in cui le socialdemocrazie hanno svolto il loro ruolo all'interno delle società capitalistiche avanzate e democratiche.
L'esperienza italiana conosce quindi da una parte un originale partito comunista, capace di costruire esperienze di riformismo dal basso assai significative ma in un quadro strategico e ideologico segnato da queste contraddizioni; e dall'altra parte un partito socialista, che soprattutto nel dopoguerra non è mai stato in grado di assumere i caratteri strutturali di un grande partito riformista europeo, non è mai stato in grado di disporre di quelle risorse nel rapporto con la società, con i sindacati, con le cooperative, che hanno caratterizzato l'esperienza riformista europea e che ha vissuto il riformismo più come identità di una sinistra di governo contrapposta ad una sinistra rivoluzionaria, non riformista perché comunista; più come differenza rispetto all'altra sinistra che non come pratica di una trasformazione sociale in competizione con le forze conservatrici. Ciò va considerato uno dei tratti fondamentali dell’esperienza del socialismo italiano, con l'eccezione del periodo del primo centrosinistra e in una certa misura del primo periodo craxiano (che indubbiamente ebbe una forte che impronta riformista, in modo particolarmente spiccato intorno ai temi della riforma dei sistemi politici e istituzionali). Ma il riformismo socialista si è definito piuttosto attorno ad un tratto di identità, di distinzione rispetto al PCI, che non sulla capacità di costruire una stabile esperienza riformista nella società italiana.
La vicenda italiana è quindi segnata da due partiti incompiuti, specularmente anomali, ciascuno dei quali porta in sé un tratto dei partiti del riformismo europeo senza aver saputo rappresentare nella società italiana qualcosa di paragonabile a quello che i laburisti in Gran Bretagna o i socialdemocratici in Germania hanno saputo rappresentare nei paesi europei più avanzati. Credo che questo ci aiuti a capire le ragioni per le quali, nel lungo processo di trasformazione del PCI, l'assunzione progressiva di elementi di cultura democratica liberale in forma quasi omeopatica (come ha scritto Piero Ignazi) abbia contato di più di un vero confronto con l'esperienza socialdemocratica. Qui certamente ha pesato moltissimo la divisione della sinistra italiana, la reciproca ostilità tra i due maggiori partiti della sinistra italiana. E l’innestarsi sulla tradizione democratica del comunismo italiano di elementi di cultura democratico-liberale ha caratterizzato l'evoluzione culturale del quadro dirigente delle forze intermedie del PCI, più che la capacità di fare i conti con l'esperienza socialista e socialdemocratica. Dunque anche il processo di trasformazione della sinistra italiana in questi anni ha scontato una debolezza delle sue basi riformiste. Si è alimentata l'illusione che fosse possibile compiere un salto in avanti, pur necessario, ma che questo salto in avanti lo si potesse compiere saltando a pie’ pari l'esperienza del socialismo europeo. Ragioni anche politicamente comprensibili (come il conflitto egemonico tra PCI e PSI) hanno tuttavia legato la trasformazione del PCI ad un’asse culturale particolarmente incerta e indeterminata. La grande e necessaria svolta del ‘89 non ha proceduto per quella che avrebbe potuto essere la via maestra e dunque quella che avrebbe potuto, una volta conclusa l'esperienza del movimento comunista, ricongiungere nell’alveo del riformismo socialista le grandi forze della sinistra italiana. Essa si è bensì mossa su un terreno assai più incerto, alimentando la speranza di costruire qualcosa che si proiettasse oltre quella che è stata raffigurata come una duplice crisi: crisi del comunismo e crisi del socialismo. Indubbiamente vi erano elementi di verità in queste analisi, e tuttavia la natura di questa crisi era radicalmente diversa: nel senso che il movimento socialista ha affrontato la sua crisi avviando una trasformazione, sia pur incompleta, mentre il movimento comunista ha esaurito la sua funzione storica almeno in Europa. Si è dunque trattato di due passaggi molto diversi. Secondo uno studioso che ha scritto un libro discutibile ma certamente interessante e ricco sul piano della ricerca, Carlo Baccetti (“Il Pds”), la trasformazione del PCI ha oscillato tra due modelli diversi e a sua detta poco compatibili: un partito radicale legato ai movimenti e aperto alla società civile oppure un partito di programma ispirato alle socialdemocrazie europee, costruito sulle competenze e volto verso l'obiettivo del governo. Non so se questa alternativa sia così drastica; tuttavia il giudizio secondo cui la trasformazione del PCI ha finito per oscillare tra esiti e modelli diversi mi appare fondato.
Questa lunga premessa sulla vicenda del socialismo europeo, sulle sue conquiste e sulla particolare vicenda italiana, mi serve per cominciare a descrivere un quadro che si presenta assai problematico, nel nostro paese e in Europa. In definitiva non c'è dubbio che il partito riformista di tipo tradizionale sia in Europa sotto l'effetto di una trasformazione e di una crisi, che in Italia insistono su una struttura che, per ragioni nazionali, mostra già una sua peculiare incompiutezza e fragilità. Quali sono i fattori determinanti di tale crisi del partito riformista? Credo che i suoi fattori determinanti siano stati e siano tuttora due: da un lato l'aumento della complessità sociale e del processo di individualizzazione del lavoro; dall’altro l'impoverirsi progressivo del policy-making nazionale. L'analisi di due studiosi, Katz e Mair, ha portato ad una definizione molto interessante, ripresa da Mauro Calise nel suo saggio “il partito personale”, secondo la quale in Europa i partiti – e in particolare i partiti riformisti - si sono sostanzialmente identificati con lo Stato nazionale. Ora, l'impoverirsi progressivo delle risorse dello Stato nazionale, delle sue risorse politiche, sotto l'incalzare della globalizzazione economica e dei processi di integrazione politica sovranazionale, rappresenta l'altro grande fattore di spiazzamento e di crisi del partito riformista. Il grande interrogativo che si è aperto è se questa crisi segni l’esaurirsi della funzione storica dei partiti riformisti, e in particolare del riformismo di matrice socialista ridotto ormai ad essere una forza residuale in Europa; e se in definitiva la stagione che abbiamo vissuto tra la metà degli anni Novanta ed oggi, nella quale le forze socialiste sono state forze di governo in quasi tutti i principali paesi europei, non abbia rappresentato una sorta di canto del cigno del socialismo. D'altro canto se noi guardiamo al panorama dei risultati elettorali, dei problemi aperti nel campo politico in Europa, troviamo riscontri fattuali a questa analisi. Ma esiste un’ipotesi alternativa, e riguarda la possibilità e la necessità di una rinascita del partito riformista in Europa. E dunque dobbiamo chiederci se, in questo quadro, l’obiettivo non debba essere quello della nascita di un partito riformista di tipo nuovo in Italia e su quali basi una rinascita di questo tipo sia pensabile. Naturalmente nell'esaminare questo problema non si può prescindere dalla forza dell'esperienza storica, pur guardando coraggiosamente ai problemi di oggi e alle prospettive del futuro. Io sono convinto di questa seconda tesi: ovvero che la crisi della forma storica del partito riformista coincida in realtà con il massimo bisogno di riformismo. Perché l'anarchia della globalizzazione capitalistica porta con sé rischi di instabilità, di conflitti drammatici, di diseguaglianze, e diffonde paure che la destra (anzi le destre, divise tra una destra apologetica-neoliberista che cavalca l'idea della fine della politica e della storia ed esalta il dominio del mercato come pieno compimento della vicenda umana, e una destra neo-nazionalistica, neo-localistica, corporativa) non è in grado di domare. Le destre non appaiono in grado di governare la nuova complessità neanche con soluzioni neoliberiste: perché in definitiva quel tipo di destra ha come suo postulato la rinuncia al governo della complessità e la convinzione che il mercato di per sé risolverà il problema del progresso e del benessere. Anche se questa convinzione ha vissuto una drammatica smentita nei fatti recenti: pensiamo alla tragedia dell’11 settembre, al problema del terrorismo che non è altro che l'altra faccia di una globalizzazione dominata dall’anarchia capitalistica. E quelle destre che cavalcano una paura neo-nazionalistica, neo-localistica nei confronti della globalizzazione, certamente non appaiono in grado di guidare quel processo di costruzione di nuove forme politiche che la globalizzazione richiede per essere indirizzata verso obiettivi di civiltà e progresso.
La mia opinione è che queste destre, pur registrando una crescita di consensi in Europa, non appaiono in grado di dare una risposta ai grandi problemi che le nostre società vivono. Una vera risposta a tali problemi può venire soltanto da una rinascita su basi nuove del riformismo. Ma la prima condizione per una rinascita del partito riformista è innanzitutto che essa avvenga in un quadro diverso rispetto a quello del riformismo nazionale. Il partito riformista può riprendere vigore soltanto se si lega ad un progetto di carattere sovranazionale. E oggi questo per noi significa concretamente un progetto europeo. La sconfitta dei singoli partiti del socialismo europeo nasce anche dall'assenza di un loro progetto comune sull'Europa, da un loro rinserrarsi dentro una visione tutto sommato nazionale e tradizionale della funzione dello Stato-nazione. L'unità politica dell'Europa non è mai stata in quanto tale l'obiettivo dei riformisti, anche se indubbiamente le forze di ispirazione socialista e le forze di ispirazione democratica, cristiana e liberale sono quelle che hanno concorso di più al processo di integrazione europea. Tuttavia il progetto di un forte potere democratico sovranazionale al centro di un nuovo federalismo europeo non ha mai assunto il carattere di un obiettivo distintivo, qualificante del riformismo in Europa. I diversi partiti del socialismo europeo sono rimasti piuttosto prigionieri delle diverse ottiche nazionali con cui si è guardato al processo di unità europea considerando questa prospettiva più come una tendenza inevitabile che come un obiettivo per cui impegnarsi. La mia convinzione è che questa sia una delle ragioni di fondo della sconfitta del socialismo oggi in Europa. Le forze socialiste hanno guidato il processo di avvicinamento dei diversi paesi europei alla moneta unica, hanno guidato l'aggiustamento delle politiche di bilancio, hanno pagato un prezzo alto da questo punto di vista in termini di politiche di austerità, senza riuscire ad alimentare l'utopia concreta di un’Europa politica in grado di restituire ai cittadini in termini di sicurezza, di politiche comuni per la pace, di politiche comuni per l’immigrazione, la criminalità, l'innovazione, per il lavoro, ciò che è stato loro tolto in termini di riduzione della disponibilità delle risorse nazionali, delle possibilità di bilancio, per favorire una politica di aggiustamento e di integrazione monetaria. La mia convinzione è che porre questo tema - l'unità politica dell'Europa - al centro dei programmi riformisti come cuore di un nuovo progetto riformista è la prima condizione per una rinascita del riformismo in Europa.
Unità politica dell'Europa è un concetto che non può essere disgiunto da un'idea forte del ruolo dell'Europa nel mondo. Non c'è dubbio che oggi viviamo una crisi della concezione che le classi dirigenti europee hanno avuto della funzione dell'Europa occidentale nel mondo. L'Europa occidentale nell'epoca della guerra fredda è stata alleata degli Stati Uniti lungo la grande frontiera di una competizione con il blocco comunista. Erano chiari i valori costitutivi: la democrazia e il riformismo anche come risposta all'esperienza comunista. Il riformismo si è fatto forte di una competizione in cui l'Occidente doveva dimostrarsi superiore anche dal punto di vista dell’integrazione sociale, della tutela degli interessi e dei diritti dei lavoratori. Il carattere del modello europeo era fortemente definito nel quadro della guerra fredda, della divisione del mondo. L'89 ha posto un interrogativo sul ruolo dell'Europa, un interrogativo a cui le classi dirigenti europee non sono state in grado sin qui di dare una risposta. Ha aperto grandi opportunità di unificazione dell'Europa ma nello stesso tempo ha indubbiamente aperto una dialettica nel rapporto tra Europa e Stati Uniti. È emersa l'insofferenza europea verso un mondo unipolare senza che tuttavia gli europei si rendessero capaci di sviluppare politiche in grado di promuovere l'Europa come attore globale: non in termini di antagonismo con gli Stati Uniti ma sicuramente in termini di crescente assunzione di responsabilità. Penso alla lentezza con cui ci si è mossi sul terreno di una politica estera e di difesa comune dell'Europa. Ora non c'è dubbio che l'unità politica dell'Europa cammina di pari passo con la ridefinizione del ruolo dell'Europa nel mondo: attore globale in grado di sviluppare una partnership responsabile con gli Stati Uniti, ma anche di sviluppare una propria autonomia. Questa è a mio giudizio una condizione essenziale affinché si possa cominciare a parlare di un governo della globalizzazione. Soltanto una pluralità di attori sulla scena mondiale può dare un senso e una funzione alle istituzioni che possono regolare la globalizzazione. Le istituzioni funzionano se c'è una pluralità di soggetti, in un mondo unipolare le istituzioni sono strumenti puramente tecnici. E c'è bisogno di un’Europa in grado di giocare il suo ruolo sul terreno della riduzione delle diseguaglianze, sul terreno dell'affermazione dei valori democratici che sono propri della tradizione europea, sul terreno del riconoscimento di diritti universali, sul terreno della costruzione della convivenza tra i diversi. Se pensiamo all'esperienza che abbiamo vissuto dopo l'11 settembre ci rendiamo conto come una concezione puramente militare del tema della sicurezza e della lotta contro terrorismo non è in grado di garantire sicurezza né di sradicare il terrorismo o di prevenire i conflitti, ma rischia soltanto di creare le premesse di nuovi laceranti e drammatici scontri. In tutto ciò si registra una debolezza dell'Europa, una sua peculiare incapacità a far valere il suo ruolo di attore politico globale.
Senza dubbio, da questo punto di vista, il Medio Oriente è il banco di prova più evidente di una difficoltà dell'Europa politica. Se noi pensiamo che il 75% degli scambi commerciali di Israele sono con l’Unione Europea, che l'associazione con l’Unione Europea è un pilastro della struttura economica di Israele, che quasi il 100% degli aiuti ai territori palestinesi vengono dall'Europa e mettiamo sulla bilancia quanto paga l'Europa e quanto conta politicamente ci rendiamo conto di uno squilibrio insostenibile. Tale difficoltà dell'Europa è una delle ragioni per cui fino ad oggi non si è trovato una via della pace. L'assenza dell'Europa è, a mio giudizio, una delle ragioni per le quali risulta più difficile trovare una via verso la pace.
Dunque una nuova stagione del riformismo deve muovere dall'assunzione di un progetto sovranazionale che assuma il tema dell'unità politica dell'Europa come cuore e che concepisca la costruzione europea nel quadro di una prospettiva di governo della globalizzazione. Solo nella prospettiva Europa-mondo oggi è pensabile una nuova stagione del riformismo. Il nuovo riformismo deve separare il suo destino da quello dello Stato-nazione. Questo vale sia sul terreno del rapporto con la costruzione dell'unità europea sia sul terreno delle sue politiche. Le politiche riformiste di integrazione e promozione sociale non possono più muovere intorno alla centralità dello Stato. Devono essere attente alle comunità intermedie, sia a quelle di carattere istituzionale (e pensiamo al ruolo cruciale che hanno le comunità locali come generatrici di un nuovo tipo di welfare) che a quelle di carattere sociale. In un bel saggio di Giulio Sapelli, comparso nell'ultimo numero della nostra rivista “Italianieuropei”, si scrive che il nuovo riformismo deve essere cosmopolita e mutualistico. Cosmopolita nel senso di separare il suo destino dal destino dello stato nazionale, mutualistico nel senso di controbilanciare gli elementi di statalismo propri della sua tradizione sulla base di una nuova visione del welfare. Un riformismo capace di valorizzare la partecipazione, il volontariato e nuove forme di welfare dal basso. È un riformismo ovviamente più aperto ad altre culture perché questa visione della società appartiene a culture diverse da quella socialista, che vengono sulla scena come elementi fondamentali per una nuova stagione del riformismo.
Una nuova stagione del riformismo comporta una rottura con la tradizione economicistica propria della sinistra che si è riconosciuta nel movimento operaio. Ovvero l’emancipazione da quel primato della crescita quantitativa che ha rappresentato a lungo, e ancora rappresenta in modo determinante, la visione della società propria della sinistra di matrice socialista. Un economista americano che è stato ministro del lavoro nell'amministrazione Clinton, Robert Reich, ha scritto un bel libro su un tema cruciale: se cioè non sia venuto il momento di mettere in discussione i criteri di valutazione del successo, del successo individuale e del successo di una società o di una politica. In questo libro egli testimonia la sua esperienza, la sua decisione di cambiare vita. Talmente egli aveva introiettato la necessità di mettere in discussione i criteri di valutazione del successo, che per poter vivere una vita più serena e più felice ha deciso di interrompere il suo lavoro di ministro del governo del paese più potente del mondo per dedicarsi ad un altro tipo di impegno civile e sociale, umano e familiare. In questo libro egli scrive che “il valore della nostra vita non si identifica con il nostro patrimonio, e la società è cosa diversa dal Pil. Possiamo se vogliamo optare per una vita più piene equilibrata così come più equilibrata può essere la società in cui viviamo”. In definitiva indica un riformismo più attento alla qualità della vita delle persone, alla riproduzione sociale oltre che alla produzione, alla felicità individuale. Sono convinto che vi sia un rapporto di stretta interdipendenza tra l'obiettivo di una più equilibrata ripartizione delle opportunità di benessere su scala globale, e quindi l'obiettivo di un riequilibrio del rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri, e l’affermarsi all'interno dei paesi ricchi di una politica più attenta alle ragioni di equilibrio della vita e meno attenta ad una rincorsa senza freni dell’arricchimento individuale o collettivo. Una visione non economicista della battaglia riformista spinge a pensare anche in modo nuovo alla rappresentanza del lavoro.
Il testo di Giulio Sapelli a cui facevo riferimento analizza la crisi irreversibile della rappresentanza socialista del lavoro. Certi dati sono impressionanti: se noi pensiamo alla composizione sociale dei più recenti risultati elettorali in Europa ci rendiamo conto che non esiste più una rappresentazione politica lineare degli interessi del lavoro. D'altro canto questo dato è già percepibile anche nel nostro paese. Quando molto tempo fa dissi che la Lega Nord era una costola del movimento operaio non intendevo fare l’occhiolino a Bossi, come è stato creduto a lungo. Si trattava semplicemente di un’analisi dei risultati elettorali. Il Mulino pubblicò allora un’analisi di grande interesse sul risultato elettorale nel Nord, da cui emergeva che tra i tre milioni di voti presi allora dalla Lega un milione erano voti operai e una parte non irrilevante dell'elettorato operaio della Lega era iscritto alla CGIL. Ma questo fenomeno non è esclusivamente italiano: basta pensare alla composizione del voto per Haider in Austria, o più recentemente, ai voti per Le Pen in Francia. È interessante osservare come tutte le ricerche mettano in evidenza anche una disgiunzione tra la rappresentanza sindacale - che resiste e si trasforma – e la sua rappresentazione politica. Ciò tocca un punto di fondo del partito riformista di tipo tradizionale, ovvero di quel partito che ha concepito tradizionalmente il sindacato come uno dei canali di rapporto con la società e con gli interessi della società. Mentre si conferma la funzione insostituibile che il sindacato ha anche nell'epoca del lavoro individualizzato, emerge una qualche separazione tra i destini del sindacato rispetto a quelli della sinistra politica. Questa crisi della rappresentanza socialista del lavoro non è soltanto rilevabile da un punto di vista fenomenologico, come non linearità dell’espressione politica. Essa ha anche ragioni profonde e strutturali: la rappresentanza socialista del lavoro si è plasmata all'interno del riformismo nazionale. Oggi il lavoro non rappresenta più una constituency i cui interessi siano rappresentabili in modo lineare sul mercato politico, anche perché nel lavoro si rispecchiano interessi fra di loro assai diversi e persino confliggenti. Ed è assai difficile pensare che questa rappresentazione possa essere ricostruita attraverso un'idea tradizionale della mediazione sociale. Un'esigenza di ricomposizione che certamente esiste e da cui una forza di sinistra non può prescindere, ma che non può fondarsi sulla rappresentazione lineare di un complesso di interessi di un mondo del lavoro fortemente frammentato e conflittuale che sono difficilmente ricomponibili attraverso tecniche tradizionali di composizione sociale.
Il vero grande problema, per una sinistra riformista, è puntare ad una riunificazione che avvenga sul terreno progettuale. Un progetto che non può che fare perno su due grandi idee forza: l'idea della libertà e l'idea della sicurezza. L'idea della libertà come piena possibilità di affermazione delle proprie facoltà, in un mondo nel quale sempre più l'autoimpiego, cioè la pretesa di ciascuno di determinare il proprio destino lavorativo, diventerà la condizione di tutti. La chiave di quest'idea della libertà come possibilità per poter affermare se stessi è indubbiamente la cultura e la formazione. E la sicurezza come costruzione di nuove reti di protezione del lavoro individualizzato, che evidentemente dovranno avere una natura nuova rispetto alle reti di protezione del lavoro tradizionale: anche perché la protezione del lavoro tradizionale è nata largamente come proiezione nella società della fabbrica. Se noi pensiamo al nostro paese, ma anche ad altri paesi, i diritti dei lavoratori sono stati conquistati a partire dalla condizione di lavoratori nella fabbrica. Le nuove reti di protezione debbono invece fondarsi su una visione più universalistica della cittadinanza. Uno dei temi più d'attualità, la riforma degli ammortizzatori sociali, che cos'è se non il passaggio da un sistema di protezione costruito come proiezione della difesa della condizione operaia a un sistema di tutela universalistico che si rivolge a tutti i cittadini in modo più inclusivo? Soltanto l'affermazione di politiche volte a promuovere sia la libertà, come possibilità di affermare pienamente se stessi nel lavoro e nella vita sociale, sia la sicurezza, intesa come espansione della cittadinanza e di una protezione sociale che non è più solo un diritto dei lavoratori, consente di pensare a quella sinistra che parla a tutti, secondo la bella espressione usata da Giuliano Amato nel suo ultimo libro. La sinistra che parla a tutti è una sinistra che non pretende di rispecchiare una data maggioranza sociale, che forse non c'è più, perché la politica non ha il compito di rispecchiare le maggioranze che ci sono ma ha il dovere di costituire le maggioranze intorno ad un progetto e ad una visione della società. Progetto e visione della società che siano ricche di elementi di speranza e fiducia verso un comune destino e che siano la condizione per combattere le paure delle chiusure nazionalistiche, corporative, localistiche di cui si alimentano le nuove destre.
Dunque il nuovo partito riformista, come lo si può immaginare, è un partito europeo e cosmopolita. È un partito capace di nutrirsi di una pluralità di culture. In questo senso è aperto il dibattito sul rapporto tra riformismo italiano il socialismo europeo. È stato in questi anni un dibattito cruciale che ha anche finito per alimentare molti equivoci perché, in qualche modo, lo si è voluto raffigurare come una discussione di ceto politico, nel senso di voler rimarcare una preminenza di un determinato segmento del centrosinistra. È una discussione in parte inficiata da una battaglia di posizionamento dei diversi settori del mondo politico del centrosinistra, ma se noi la liberiamo da questi aspetti essa appare una discussione largamente superata. È infatti evidente che se il riformismo italiano può affermarsi soltanto sulla base di questa visione, esso non può confinarsi in un nuovo provincialismo e dunque in una nuova anomalia italiana, ma deve collegarsi al riformismo europeo. E la gran parte delle forze del riformismo europeo - non tutte ma certamente quelle fondamentali - si organizzano nel socialismo europeo. Dunque questo legame è essenziale, ma non perché vi sia una ortodossia socialdemocratica a cui ci si deve ispirare (che come ortodossia è largamente messa in discussione dalla storia) ma piuttosto perché vi è un campo di forze cui ci si deve collegare per sviluppare una ricerca comune che punti a muovere oltre i confini della tradizione socialdemocratica e a costruire una più vasta aggregazione di forze riformiste e progressiste in Europa. Mi è capitato di sottolineare che in qualche modo le forze moderate hanno avuto più coraggio nell'aprire il Partito popolare europeo a componenti culturalmente molto diverse. Hanno fatto una scelta che io non condivido, di tipo neoconservatore, ma indubbiamente hanno avuto più coraggio nell'aprirsi di quanto non abbiano fatto i socialisti che sono stati sin qui incapaci di chiamare a raccolta forze di matrice culturale cristiana, liberale o ambientalista senza il cui concorso è difficile pensare ad un nuovo riformismo in Europa. Dunque se questo è il tema o la prospettiva, sul piano del modello di partito io non vedo l'alternativa tra partito socialdemocratico e partito aperto alla società e ai movimenti. Credo che il modello di partito cui si deve pensare è quello di un partito aperto, in grado oggi di porsi al centro di una costellazione di forme antiche nuove di partecipazione sociale e di ricerca culturale. D'altro canto la Fondazione che io presiedo, guidata insieme a Giuliano Amato, non è un partito ma si propone di essere una forma di partecipazione, di realizzazione di competenze, non racchiusa in uno schema rigido di partito. E sempre di meno possiamo pensare che le diverse forme di costellazione di sinistra si racchiudano nello schema rigido di un partito.
Tuttavia resto convinto che questa costellazione deve essere innervata da un partito politico di tipo nuovo, in grado cioè di essere collettore di diverse forme di ricerca, di partecipazione, di collaborazione, in grado di formare classe dirigente. Quello che è fondamentale ed è irrinunciabile dell'esperienza socialdemocratica è proprio questo: il fatto che il partito riformista europeo è volto al governo e mantiene l'obiettivo del governo come centrale della sua azione. Come perno di questa costellazione c'è l'idea del governo: la trasformazione sociale è governo della società. La vera alternativa è dunque tra una sinistra che arretra rispetto una prospettiva di governo, ma in quanto tale non sarebbe una sinistra riformista, e una sinistra aperta alla società, culturalmente plurale e organizzata in una struttura non centralistica e che tuttavia mantenga al centro di questa costellazione la prospettiva del governo. L'obiettivo è elaborare progetti per il governo della società e formare classe dirigente per il governo della società. Penso che la possibilità di rilanciare su queste basi la prospettiva del riformismo in Europa sia una prospettiva perseguibile. Troverei difficile trovare altre risposte alle sfide e anche alle sconfitte. Perché le sconfitte sono spesso momenti costruttivi che stimolano la riflessione e possono aiutarci anche a vedere la realtà la italiana al di fuori di un'ottica provinciale. Abbiamo discusso per circa un anno se la situazione italiana fosse qualcosa del tutto singolare e legata addirittura ad una persona. Ovviamente c'è un'originalità della vicenda italiana, ma è solo la versione nazionale di un processo più complessivo. Così come anche la vittoria dell'Ulivo non fu il frutto di un'invenzione italiana ma faceva parte di un ciclo: non a caso si accompagnò alla vittoria dei laburisti inglesi, dei socialisti francesi, dei socialdemocratici tedeschi ecc. Esiste un certo nostro provincialismo, per cui siamo convinti che quello che ci accade, nel bene o nel male, sia frutto di una straordinaria originalità del nostro paese. Ma il nostro paese fa sempre più parte di una società politica europea ed è quindi più costruttivo rendersi conto che un’opinione pubblica europea c'è già, perché in fondo dentro questa società europea si manifestano tendenze abbastanza omogenea e le risposte che si devono costruire sul piano politico sono omogenee, ferme restando le diverse varianti nazionali. Credo che sia molto importante che la sinistra italiana si metta in grado di partecipare a questa discussione. A me è capitato di essere stato un profeta di sventura: qualche settimana fa a Parigi, perché incalzato da tanti amici insieme solidali e sgomenti ma anche critici dello sviluppo del caso italiano e preoccupati per la nostra democrazia, mi è capitato di chiedere loro se fossero sicuri che quello che è successo in Italia non fosse piuttosto l'anticipazione di problemi e di sfide europee. Oggi credo che ragionerebbero in modo diverso. Effettivamente noi ci siamo resi conto che siamo alle prese con qualcosa che va al di là della possibilità di essere spiegato sulla base di un'analisi di corto respiro, tutta condotta sul terreno della riflessione sulle tattiche politiche e non in grado di fornirci criteri di interpretazione di processi più di fondo di sfide che richiedono più ambizione anche sul piano culturale per poter essere affrontate. Per cui quello che è essenziale è che la sinistra italiana si metta in grado di poter partecipare pienamente ad una riflessione e ad un nuovo processo politico internazionale, superando quelle divisioni e anche quel provincialismo del dibattito che hanno rappresentato sin qui un limite.