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IL CASO
Chi sono oggi i veri riformisti
MARIO PIRANI

 

da Repubblica - 28 dicembre 2002


Le parole politiche dovrebbero avere una data di scadenza. Passata la quale andare obbligatoriamente fuori corso, salvo i casi in cui venissero impiegate nel loro significato originario, sotto il controllo, però, di un qualificato organismo tecnico di certificazione, quale l´Accademia della Crusca o la direzione lessicografica dello Zanichelli. Non se ne può più, infatti, delle parole multiuso che cominciano bene e finiscono malissimo, imbrogliando le idee e confondendo le acque. Prendiamo l´attuale inflazione di «riformismo» e «riformisti».

Chi sono i veri riformisti
Usi e abusi di una parola
Gli acrimoniosi dissidi stanno a indicare che l´opposizione non sa dare risposte esaurienti
L´antico vizio di attaccare la sinistra per essere più indulgenti verso la destra
Un governo capace di elaborare una salda politica industriale nel quadro europeo
Il lessico della politica può ingenerare confusione Ecco un "breviario" per distinguere neofiti e vecchi seguaci del riformismo

All´inizio, e per quasi un secolo, la definizione identificava quei socialisti che rifiutavano finalità di palingenesi rivoluzionaria e ambivano, invece, assicurare per via democratico-parlamentare un miglioramento graduale delle condizioni delle classi lavoratrici. Per contro i comunisti (affiancati in Italia dalla corrente massimalista del Psi, che, come dice la parola stessa, propugnavano un «programma massimo») inalberavano, sia pure in chiave più teorica che pratica, l´obiettivo finale di una rivoluzione proletaria, per instaurare un sistema alternativo a quello in vigore. Nella lunghissima fase intermedia - chè altre, almeno da noi, fortunatamente non se ne son viste - le lotte sociali e sindacali, sia quelle di matrice riformista che quelle di stampo comunista, non si differenziavano molto, se non, talvolta, per una qualche maggiore o minore attenzione alle compatibilità del sistema, ovverosia all´equilibrio economico. Come, ad esempio, quando, a cavallo del '68, venne escogitata la formula del «salario, quale variabile indipendente». Ma furono, quasi sempre, febbri passeggere, il buon senso riformista avendo la meglio in ambedue i campi, a dispetto del fatto che quell´aggettivo suonasse allora, per gli uni, timbro di autenticità e, per gli altri, sanguinosa ingiuria.
Poi, con la caduta del Muro di Berlino, la corazzata comunista si trasformò inopinatamente in un vascello fantasma, evocatore di incubi e tragedie, disertato da equipaggio e passeggeri, mentre il barcone riformista si presentò come un mezzo di salvataggio su cui tutti si aggrapparono. I più lesti a salire a bordo furono anzi proprio i postcomunisti che occuparono quasi tutti i posti di coperta, mentre i pochi, autentici titolari del marchio sociale, sopravvissuti alla tempesta casalinga di Tangentopoli, che aveva imperversato nel frattempo, dovettero accontentarsi di strapuntini nella stiva o rifugiarsi su scafi corsari di dubbia compagnia. Non sempre, peraltro, «nomina sunt consequentia rerum» e la riprova fu fornita da numerosi neoriformisti, i quali, pur non rinnegando formalmente il battesimo salvifico, riscoprirono presto la convenienza di andare dove batteva il cuore di tanti che, pur non sognando ormai la rivoluzione proletaria, avevano conservato, a guisa di rane di Pavlov, il riflesso automatico ad autodipingersi come alternativi al sistema, alle regole condivise, alle compatibilità (di Maastricht e no), agli impuri connubi internazionali (la Nato ma presto anche l´Onu) e a quant´altro la ragione suggerisse. Il barcone riformista, tra chi lo tirava secondo il suo verso e chi volgeva le vele dall´altra parte, concluse così nelle secche un periplo avviato col vento di Euro in poppa. A rendere ancor più confusa e impasticciata la competizione anche gli skipper avversari pensarono bene di innalzare stendardi riformisti, in nome della devolution, dell´art.18, del presidenzialismo e di tutto l´armamentario caro ad una destra, anch´essa obbligata a incanalare nell´alveo riformista le sue pulsioni rivoluzionarie.
Questa forse inutile premessa dovrebbe servire a cogliere il senso di un libro da poco uscito con l´intenzione di fornire sia un breviario di riconoscimento per i «veri riformisti», sia, ad un tempo, sulla base dell´esperienza vissuta nell´ultimo biennio, una mappa o portolano per riprendere la navigazione. Lo hanno scritto i riformisti doc di prima fascia (quelli che in funzione di teste d´uovo gravitavano attorno ai governi Prodi, D´Alema e Amato): Boeri, Debenedetti, Ichino, Lombardi, Manghi, Onofri, Ranieri, Rossi, Salvati, Targetti, Treu. Si intitola Non basta dire No!, con il punto esclamativo finale piazzato, a mo´ di riformismo grafico, al centro della ultima O e non, pedissequamente, al termine della riga, mentre la prefazione è del direttore dell´eponimo quotidiano, Il Riformista, giornale che, fedele alla tradizione e agli usi di famiglia, per tre quarti fa le pulci alla sinistra e per un quarto alla destra. Infine, per non smentire il carattere paradossale e trasversale dell´attuale riformismo, il volume è pubblicato da Mondadori, la casa editrice del presidente del Consiglio.
Scherzi a parte, i vari contributi sono fertili di spunti innovativi, critiche argomentate, tentativi intelligenti per orientare la sinistra su sentieri promettenti. Se, peraltro, un difetto ricorrente è dato riscontrare, esso riguarda l´eccessiva attenzione prestata alla riforma del mercato del lavoro, mentre «questa non era la vera priorità per il paese, ma la continuità dell´intero processo di riforme», come spiega Paolo Onofri nel suo saggio. Certo, «la radicalizzazione ideologica del dibattito sull´art.18» non ha consentito di concludere con una soluzione, a nostro avviso davvero riformatrice, quale quella proposta da un altro degli autori del libro, Pietro Ichino, che consisteva nell´estendere la protezione dai licenziamenti senza giusta causa anche ai dipendenti delle piccole aziende che ne sono esclusi, demandando, per contro, al giudice se imporre il reintegro o stabilire una congrua indennità pecuniaria sostitutiva. Resta, quindi, ben vero «che la sinistra avrebbe potuto e dovuto in questa occasione marcare la propria identità riformista» (Nicola Rossi), ma, ciò detto, che senso ha oggi dedicare a questo tema così ampio spazio?
Dopo tanto dibattere e manifestare, tonitruanti impegni del governo e fermissimi «no pasaran» cofferatiani, sventolar di referendum e di patti per l´Italia, tutto è stato riposto in soporiferi cassetti. La legge che doveva sventrare l´art. 18 è stata rinviata a tempi migliori e, nel frattempo, sembrano essersi volatilizzati i fondi promessi a Cisl e Uil per aumentare le indennità di disoccupazione. Mai «tanto rumor per nulla»; ma, se così è, perché sovrabbondare, come si fa nel libro, nel discettare in proposito, a ogni pié sospinto, sotto le più diverse angolature? Tanto valeva che i nostri autori, con la testa girata all´indietro, senza cambiar postura, si tuffassero a rievocare l´altra virulenta battaglia che, appena trascorsi 500 giorni di governo, su intimazione improvvida di Bertinotti, si concluse nell´ottobre del '97, con le prime dimissioni di Prodi sulla Finanziaria, peraltro rientrate qualche giorno dopo, grazie all´impegno del Presidente del Consiglio di presentare un disegno di legge sulla riduzione dell´orario di lavoro a 35 ore settimanali, a partire dal primo gennaio 2001, in tutte le aziende con più di 15 dipendenti!
Gli intellettuali riformisti che hanno collaborato al libro non stanno, peraltro, volti solo con lo sguardo al passato e alle occasioni perdute. Un programma qualificante per il futuro (un futuro che, però, può cominciare fin da oggi, con un ripensamento nell´azione quotidiana) viene articolato a più voci, con l´obbiettivo di «uscire - come teorizza Michele Salvati - dal modello mediterraneo di tutela del posto di lavoro per dirigerci verso una tutela del mercato del lavoro». Il punto di partenza è dato dalla verifica del persistente alto livello di disoccupazione (femminile e meridionale) nel nostro Paese, cui si accompagna un bassissimo livello di occupazione. Peraltro, l´area, relativamente ristretta, di addetti ai vari rami della produzione, appare tuttora più rigidamente protetta di quanto non avvenga nei paesi dell´Europa settentrionale, per non parlare degli Stati Uniti, dove, alla minor tutela sul posto di lavoro, si accompagna, non solo una più bassa disoccupazione e una più alta occupazione, ma anche un sistema di ammortizzatori sociali orientato a garantire chi resta disoccupato. Di qui l´ambizione di trasformare tutto il sistema degli ammortizzatori sociali, tenendo ben conto - avverte Ferdinando Targetti - che «non si può chiedere ai lavoratori di abbandonare l´antica liana della tutela a livello d´impresa, senza che sia offerta in cambio una nuova liana di tipo europeo». Come spiega Tito Boeri, che approfondisce l´argomento, «all´indomani dell´Euro e con un allargamento della Ue verso paesi con un più basso costo del lavoro, è legittimo cercar di trovare un diverso modo di proteggere i lavoratori contro il rischio di disoccupazione, un modo che sia meno costoso in termini di riduzione della crescita potenziale della nostra economia». Ma è in grado la sinistra italiana e il sindacato, senza lacerarsi tra chi difende la cittadella degli occupati a tempo indeterminato e chi cerca spazio per gli esclusi, di proporsi un modello, nel campo del lavoro, di Welfare sostitutivo: reddito minimo garantito, consistente indennità di disoccupazione, istituzioni di formazione continua in cambio di meno rigide difesa all´entrata e all´uscita dall´azienda, come anche degli ammortizzatori di vecchio tipo, quali la cassa integrazione, i prepensionamenti o altro ?
Questo resta, comunque, un crocevia obbligato se si vuol ricomporre un quadro unificatore del mondo del lavoro, proponendosi, ad un tempo, un rilancio produttivo. Si tratta - deve essere chiaro - di una riforma che implica un notevole spostamento di risorse e di investimenti sociali, che i nostri autori indicano in almeno mezzo punto del pil.
L´interrogativo che, comunque, ci siamo posti non sarà, peraltro, risolto solo dalla maggiore razionalità della nuova impostazione rispetto a quella oggi predominante. In quest´ultima si identificano, infatti, strati e segmenti sociali deboli, non tanto in termini monetari, ma, come dice Nicola Rossi «in termini di saperi e di conoscenze non conseguite o ormai non più conseguibili... che chiedono di essere rassicurati e protetti rispetto ai mutamenti... di poter difendere una identità costruita spesso faticosamente e fatta non solo di posizioni di rendita ma anche di conquiste di civiltà». E, allora, come può il riformismo, oggi all´opposizione, «definire i termini di un nuovo compromesso sociale capace di tenere insieme le ragioni della competitività con quelle del modello sociale europeo... come liberarsi dai pesi del proprio passato per tornare a riflettere liberamente sull´evolversi della società italiana ed europea?».
Gli acrimoniosi dissidi all´interno della sinistra, la tenzone degli eterni duellanti, D´Alema e Cofferati, il proliferare patologico di clan e sigle del tutto superflue stanno ad indicare, oltre al persistere di personalismi esasperati, anche la difficoltà di fornire una risposta esauriente a quegli interrogativi. A meno di non concludere che in questa fase non esiste una prospettiva di governo per una sinistra riformatrice ma solo un arroccamento di lungo periodo all´opposizione. Se altro non è dato, sarebbe bene che quanti lo credono lo motivassero esplicitamente, e, del resto, il Pci è stato all´opposizione per quasi un cinquantennio senza smarrire la sua ragion d´essere né l´aspirazione a presentarsi come «un partito di lotta e di governo».
Chi, per contro, reputa ancora aperta una strada di rivincita sul centro destra non può limitarsi ad elaborazioni per quanto razionali o a impiegare il tempo attorno a temi quali «il portavoce unico» o le primarie per il 2006. L´Italia sta perdendo i pezzi, le grandi industrie tramontano, la scuola affonda, la ricerca scompare, la giustizia sembra ferita a morte. La prova governativa di Berlusconi appare largamente fallimentare ma anche alcune delle riforme varate dal centro sinistra, soprattutto quelle federalistica e scolastica, hanno inferto colpi gravissimi al Paese. La vicenda Fiat è esemplare. Come scrive Franco Debenedetti nella postfazione del libro di cui ci occupiamo, essa, a sinistra come a destra e nel governo, ha risuscitato l´invocazione all´intervento pubblico e al mantenimento delle vecchie rigidità. L´ipotesi di un ritorno all´auto di Stato, per quanto economicamente aberrante, può, peraltro, trovare molti ascolti compiacenti. Se i riformisti vi si accodassero o se vi contrapponessero, per contro, la loro tardiva vocazione alle privatizzazioni e liberalizzazioni, ne uscirebbero, comunque, perdenti. Occorrerebbe, forse, avere invece il coraggio di riproporre, in termini aggiornati, il discorso che caratterizzò la stagione del centro sinistra degli anni Sessanta e Settanta: il discorso di un governo capace di elaborare e applicare una programmazione economica indicativa, attraverso meccanismi selettivi ma automatici (e, quindi, non clientelari e politici) d´incentivazione. Tornare, quindi, ad avere una politica industriale che non risponda solo alla domanda immediata del mercato ma agli interessi a più lungo termine della competitività italiana nel quadro della nuova Unione europea e della globalizzazione. Una visione di questo tipo potrebbe avere due effetti: il primo, di ricostruire le basi oggettive per una riunificazione del popolo di sinistra e delle sue rissose rappresentanze; il secondo, di riempire di contenuti concreti un programma riformista che non si limiti a «dire No».