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Billy Wilder (1907 – 2002)

LA MORTE DEL GRANDE REGISTA, A 95 ANNI. HA SCRITTO I COPIONI PIÙ INTELLIGENTI E DIVERTENTI DEL MONDO, HA DIRETTO OLTRE 25 FILM CHE HANNO FATTO LA STORIA DEL CINEMA

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UNA volta (eravamo nel lusso datato e balneare dell´Hotel Carlton, a Cannes), Billy Wilder raccontava come, da giovane giornalista a Vienna, gli era capitato di intervistare Sigmund Freud: «Per ogni Natale il mio giornale, Die Stude, usava interrogare personaggi importanti su un tema di attualità. Quell´anno la domanda era: cosa pensate del fascismo e del signor Mussolini? Durante la mattinata l´avevo chiesto a Richard Strauss, ad Arthur Schnitzler, ad Adler. All´ora di colazione piombai da Freud, in Bergasse 19. Mi lasciarono ad aspettare in salotto. La porta dello studio era socchiusa, e fu così che vidi il Grande Oggetto del secolo: il divano del protopsicoanalista, un´ottomana col suo capezzale a salsiccia e un tappeto turco. Poi entrò Freud. Sono un giornalista, dissi io. Quella è la porta, disse lui. Merci, dissi io; e me ne andai. Grandissima scena». Delle grandissime scene non si stancava mai. Era nel cinema dal 1929. Era a Hollywood dal 1933, da quando aveva lasciato l´Austria e poi l´Europa all´avvento di Hitler. Ha scritto i copioni cinematografici più intelligenti e divertenti del mondo, da solo o magari con Raymond Chandler, con Charles Brackett, con I.A.L. Diamond. Ha diretto più di venticinque film: commedie brillanti straordinarie come A qualcuno piace caldo o Prima pagina; storie dell´America in nero come Giorni perduti, Viale del tramonto, L´asso nella manica, L´appartamento; favole di grazia sentimentale come Arianna o Sabrina; capolavori di sarcasmo come Fedora o La vita privata di Sherlock Holmes. Senza di lui, Marilyn Monroe, Audrey Hepburn, William Holden, Jack Lemmon sarebbero stati diversi: certo peggiori. Nessuno aveva come Billy Wilder malinconia e cinismo, ritmo e durezza, intuito infallibile per il gusto popolare e coerenza implacabile nell´attacco ai valori dominanti. Aveva un desiderio solo, «finire la vita in bellezza», ma non gli è riuscito, il suo ultimo tempo è stato incattivito dall´amarezza di sentirsi messo da parte: era molto vecchio, si capisce, lo capiva, ma non arrivava a rassegnarsi, pensava ancora a troppi bei film possibili. Era bellissimo guardare la sua piccola faccia da tartaruga e conversare con lui, un genio spiritoso che aveva vissuto una gran vita. Raccontava che Marilyn Monroe era il massimo, l´originale, il grande mistero, l´elemento X inidentificabile, la genialità, la suggestione del sesso moltiplicata dall´innocenza: «Stava lì con quel petto straordinario e con quegli occhi sorpresi: che c´è, cos´è, perché, è successo qualcosa, ho qualcosa che non va? Audrey Hepburn era seria e brava nel lavoro. Marilyn in certi momenti era cretina, non capiva niente, si bloccava, perdeva la memoria, entrava nel buio. Marilyn poteva essere disperante, ritardi, ripetizioni, pianti, necessità di rifare il trucco, drammi... Una scena di A qualcuno piace caldo toccò rifarla per 123 volte. In Quando la moglie è in vacanza, dopo aver ripetuto la stessa scena 73 volte, per incoraggiarla le dissi: "Non essere preoccupata, Marilyn". E lei, stupefatta: "Preoccupata? Di che?"». Wilder amava il cinema italiano, ma sfotteva gli italiani: «Sempre trame, libretti d´opera, stiletti, complotti: siete fantastici, vivete in un copione interminabile. Magari sanguinoso, ma sempre un copione... Germi era un vero maestro, il più simile a Lubitsch. Eppure, come bambini smaniosi di venir presi sul serio, avete rispetto soltanto per la pedanteria, l´accademia, l´impegno». Pensava che al cinema si potesse fare politica «soltanto di contrabbando», con la comicità, il divertimento, l´ironia: «Altrimenti diventa propaganda, predica, retorica: fare film a favore della guerra sarebbe criminale, ma fare film contro la guerra è banale. E inutile». Diceva che per un regista la cosa più difficile è divertire la gente senza doversi vergognare di se stesso. Assicurava di non aver mai rivisto un proprio film: «Mi ricordo ogni singola inquadratura e so già che vorrei rifarli tutti da capo. Ma il mestiere del cinema non va fatto in modo nevrotico. Io non sono Fritz Lang, che arrivava sul set alle cinque del mattino per disegnare sul pavimento ogni spostamento e movimento da far eseguire agli attori». Definiva il cinema «un´industria deprimente». Diceva che un solo tipo di film non avrebbe mai potuto fare: «Un film in cui apparisse Hitler o anche soltanto una svastica. Mia madre, mia nonna, mia moglie, tutti i miei sono morti ad Auschwitz».

Lietta Tornabuoni