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in Il Riformista  15 Novembre 2002

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NUOVI MASSIMALISMI. UN’IDENTITÀ POLITICA PERICOLOSA. DI UMBERTO RANIERI
Anticapitalista, ideologico, invidioso Ecco il vero antiamericano di sinistra


Il vero antiamericano di sinistra lo abbiamo conosciuto solo negli anni Novanta. Soltanto allora ha potuto esprimersi finalmente libero – senza più il vincolo di definire una posizione nei confronti dell'altro contendente del conflitto bipolare – quel sentimento di biasimo passionale per tutto ciò che di immaginario gli Stati Uniti portavano con sé. Soltanto allora, di fronte ad una potenza definitivamente egemone, quel biasimo ha potuto manifestarsi senza troppe mediazioni, come prodotto di una stratificazione culturale complessa, formatasi nel corso dei decenni e che vorrei analizzare. Con un'avvertenza. L'antiamericanismo è un tratto fondamentale – genetico, vorrei dire – di una parte della sinistra europea: quella più fortemente aliena alla responsabilità politica della guida del mutamento e più attenta alle ragioni dell'identità. Quella che si definisce essa stessa come non riformista – senza definirsi massimalista, ma questa è un'altra storia – e che verso la sinistra riformista ha maturato una contrapposizione almeno pari a quella usata contro la destra. Ed anche per questo l'antiamericanismo è uno dei crinali più aspri lungo i quali riformismo e massimalismo si confrontano ogni giorno.
Il primo strato dell'antiamericanismo di sinistra è certamente l'anticapitalismo. L'idea che gli Stati Uniti siano la patria del capitalismo non temperato costituisce l'architrave di questo pensiero, un'idea sostanzialmente immune dalle trasformazioni storiche del capitalismo così come dell'anticapitalismo. L'immagine di un "paradiso dei ricchi" dove tutto è permesso in nome del denaro accomuna le vignette sugli obesi signori vestiti di cilindro degli anni Venti alle ultime riflessioni dei nostri critici contemporanei (solo qualche giorno fa Cofferati e Realacci hanno scritto di un «mondo dei ricchi che non ammette dissociazioni e distinzioni»). E giustifica da ultimo l'immagine sorprendentemente riduzionistica di un unico potere economico planetario ("la lobby delle multinazionali") dal quale si dipanerebbero le fila della "globalizzazione neoliberistica". E', appunto, lo strato più elementare, che ogni giorno ci troviamo di fronte agli occhi. Vi è poi un secondo strato, meno visibile eppure più penetrante. Ed è il rifiuto del pragmatismo che informerebbe la società e la cultura statunitensi. L'idea di un mondo radicalmente secolarizzato si associa ad una immagine di semplificazione morale, nella quale scompare qualsiasi motivazione ideale diversa dal perseguimento del proprio utile o del proprio potere. In questo secondo caso siamo forse di fronte ad un retaggio propriamente ideologico della sinistra non riformista europea. Ideologico nel senso di profondamente legato al bisogno di un orizzonte di motivazioni trascendenti, quale quello che ha animato larghe parti della sinistra per tutto il ventesimo secolo. Un orizzonte organicistico, che in fondo non ha mai pienamente assimilato la lezione dell'illuminismo. E che ancora oggi reclama un "andare oltre l'esistente" come tratto qualificante di una sinistra che sia veramente tale. Un terzo strato, che difficilmente sarebbe riconosciuto come tale dagli antiamericani di sinistra, è la vera e propria acredine che una parte degli europei ha sviluppato verso coloro che considera come i vincitori nella competizione del ventesimo secolo. Competizione non militare, ma per lo sviluppo e il benessere. E l'idea che l'Europa sia rimasta indietro su questo piano, pur avendo partecipato su basi largamente autonome allo straordinario balzo in avanti della seconda metà del secolo, è ben presente nella testa dei nostri antiamericani. Salvo essere – invece che pungolo per l'adozione di politiche in grado di innalzare la competitività europea – una motivazione di disprezzo.
Sono solo alcuni tratti del profilo del tipico antiamericano di sinistra. Altri ne vedranno di diversi, con ogni probabilità. Ma quasi certamente condividerebbero una osservazione finale: l'America dell'antiamericanismo di sinistra, così come quella di ogni altro antiamericanismo, è un'America largamente immaginaria. Un altro da noi che serve a definire un'identità politica, piuttosto che a comprendere ciò che abbiamo di fronte.
Un'ultima considerazione. Gli sviluppi intervenuti nella complessa dialettica che ha investito la comunità internazionale circa i modi con cui affrontare la crisi irachena e che hanno condotto al riconoscimento della necessità di una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dovrebbero far riflettere sul carattere semplicistico della tesi che riduce la nuova strategia di sicurezza degli Usa a null'altro che una manifestazione di bellicoso unilateralismo. In realtà, come scrive lo studioso Federico Romero, siamo di fronte ad una strategia di lungo periodo ed enorme ambizione, la più vasta e radicale trasformazione della strategia internazionale americana dai tempi dell'elaborazione del "contenimento" nel 1947. Una strategia di cui sarebbe imperdonabile nascondersi i rischi e gli elementi di azzardo. Rischi che tuttavia non cancellano la solida concretezza di una sfida, le minacce del terrorismo globale, che ben lungi dall'essere rivolta solo contro Washington, riguarda direttamente noi e le società nelle quali ci troviamo a vivere. Sarebbe deprimente se il dibattito europeo si concentrasse solo su ciò che gli Stati Uniti dovrebbero o non dovrebbero fare. Rimuovendo così il nodo per noi più urgente: cosa deve fare l'Europa per affrontare le sfide cui la nuova strategia americana di sicurezza fornisce risposte. Risposte gravide di rischi ma risposte. E sarebbe ben misera cosa se a prevalere nella sinistra europea, in presenza di tali dilemmi, fosse una ondata di antiamericanismo.