Www.segnalo.it

Home page

Formazione Biblioteca e Cineteca Politiche e Leggi  Tracce e Sentieri

 

Paolo Ferrario

POLITICHE DELLE RIFORME NEGLI ANNI NOVANTA

Attenzione: si tratta di uno scritto "semi-lavorato", poi riconfluito in altri saggi, fra cui:


 

Politiche delle riforme in Italia: periodi cruciali

Nella storia della Repubblica Italiana negli anni novanta si è aperto un nuovo ciclo di riforme. Nella loro implementazione hanno agito sicuramente la grande variabilità ed estensione dei bisogni socio-sanitari, il rinnovamento di alcune delle regole elettorali per la creazione della rappresentanza politica, la preoccupazione di intervenire sulle tensioni presenti nel mercato del lavoro. I fattori che hanno influenzato questi processi sono diversi.

Certamente nello stato italiano anche nel passato sono state realizzate riforme: alcune di esse hanno funzionato (per esempio lo statuto dei lavoratori, le normative sulla famiglia ed il divorzio, alcune norme sulle pensioni); altre avevano obiettivi troppo alti rispetto ai mezzi disponibili; altre ancora hanno funzionato male e sono meritevoli di successivi aggiustamenti (per esempio quelle sulla scuola di base e sulla riforma sanitaria) ed altre ancora hanno avuto un "effetto boomerang", nel senso che hanno provocato forti contraddizioni nelle economie locali (per esempio quelle sugli affitti delle abitazioni ad equo canone).

L'Italia repubblicana ha, dunque, realizzato molte riforme, che si sono concentrate in alcuni particolari momenti della storia politica.

In modo estremamente sintetico è possibile proporre alcune periodizzazioni. Una prima stagione delle riforme è collocabile negli anni fra il 1945 e il 1951 quando furono poste le basi della nuova Repubblica e furono approvate la prima legge sulla scala mobile per la difesa dei salari e le leggi sull’agricoltura. E’ un periodo in cui le poche riforme attuate ebbero la caratteristica di essere fortemente in continuità con i periodi precedenti. Negli anni successivi non vi furono atti riformatori significativi.

Un secondo periodo è sicuramente individuabile negli anni del Centro Sinistra (1958-1968) con la riforma della scuola media inferiore (11-14 anni) e la nazionalizzazione dell’industria elettrica. Tuttavia il periodo riformatore più alto si è manifestato solo negli anni 1962-1963: successivamente segue un lungo ristagno durante il quale questa coalizione non riuscì a produrre alleanze riformatrici.

Una terza stagione si colloca negli anni Settanta. In questo periodo vengono create le regioni a statuto ordinario e inizia a consolidarsi in Italia un sistema dei servizi socio-sanitari articolato fra azioni statali, azioni regionali ed azioni a livello locale. L’avvento delle regioni ha prodotto un'accelerazione ed in certi casi un'innovazione nella diffusione di servizi professionali alla popolazione in stato di bisogno. Nella fase della politica del "compromesso storico" (1976-1978) basato su una formula di governo costruita attorno alla grande maggioranza di tutti i partiti dell’arco costituzionale, vengono varate alcune grandi riforme che hanno profondamente inciso nella vita sociale italiana: la legislazione sull’aborto, quella sul superamento e la chiusura dei manicomi e l'istituzione del servizio sanitario nazionale.

Dopo tale periodo si è prodotto ancora un lungo ristagno nelle politiche riformiste, che hanno attraversato tutti gli anni Ottanta. In relazione a quanto detto occorre però osservare che, se si mettono al centro dell’attenzione le politiche per i servizi sociali e sanitari, tale giudizio drastico andrebbe attenuato, in quanto gli attori principali di tali politiche sono diventate le regioni italiane. Infatti, per capire a fondo il ragionamento del sistema di welfare italiano occorre comprendere che esso si articola attorno alla struttura della pubblica amministrazione costituita da:

· amministrazione centrale: ministeri ed enti nazionali (come l’Istituto Nazione della Previdenza Sociale che eroga le pensioni)

· le amministrazioni regionali che hanno competenza programmatoria e finanziaria nei settori organici dell’ordinamento ed organizzazione amministrativa dei servizi sociali, dello sviluppo economico, dell’assetto ed organizzazione del territorio

· le amministrazioni locali: costituite dalla rete degli 8.000 Comuni, delle Province quali enti pubblici intermedi e delle amministrazioni per la gestione sanitaria (Unità Sanitarie Locali, oggi ridefinite Aziende Sanitarie Locali).

Quanto sinteticamente detto in precedenza ha lo scopo di introdurre una più sistematica analisi delle caratteristiche e dei processi di riforma attuati negli anni Novanta.

Politiche delle riforme in Italia: gli anni Novanta

Negli anni Novanta si osserva la concomitanza di varie azioni legislative:

· riordino del servizio sanitario nazionale

· riordino dell'ordinamento delle pensioni

· riforma degli enti locali territoriali sviluppata in due tempi, il secondo dei quali è attualmente in fase di realizzazione

· riforme del sistema della pubblica amministrazione

· l’allargamento delle responsabilità concernenti i servizi sociali, con il riconoscimento e la promozione del volontariato e con la definizione del ruolo imprenditoriale delle cooperative sociali

· legislazione a favore della famiglia

Più precisamente, in questo arco di tempo si sta ridefinendo il sistema istituzionale delle politiche di welfare, ossia la struttura amministrativa degli enti e dei soggetti che hanno un ruolo di attore nello sviluppo dei servizi socio-sanitari:

ciò che solitamente chiamiamo "stato sociale" (e cioè il complesso di politiche pubbliche nei settori dell’istruzione, della sanità, della casa, dell’assistenza, della previdenza, del lavoro) è null’altro che un’architettura istituzionale intesa a rimuovere imperfezioni dei mercati che di per sé comporterebbero una ridefinizione delle "regole di assegnazione" e cioè delle norme sociali che, in una data società, governano l’appropriazione delle risorse da parte dei singoli ()

Il grafico 1 illustra alcuni aspetti del processo che si sta manifestando.

Grafico 1Il disegno mette in evidenza che si sta attuando un incisivo programma di trasferimento di ruoli, competenze, funzioni e responsabilità dai livelli centrali ai livelli periferici sia pubblici che privati. Questo sta avvenendo attraverso un insieme di riforme indicate in modo sintetico nella successiva tavola.

 

 

 

 

 

Tavola 1

ITALIA: POLITICHE DI RIFORMA NEGLI ANNI '90

ANNO

PROGRAMMI DI RIFORMA

RIFERIMENTO LEGISLATIVO

1990

RIFORMA DEL GOVERNO LOCALE

Legge 8/6/1990 n. 142

1990

TRASPARENZA DELL'ATTIVITA' DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E DIRITTO DI ACCESSO

Legge 7/8/1990 n. 241

1991

PROMOZIONE VOLONTARIATO

Legge 11/8/191 n. 266

1991

SVILUPPO DELLE COOPERATIVE SOCIALI

Legge 8/11/1991 n. 381

1992

ACCORDO GOVERNO-SINDACATI-IMPRENDITORI SUL COSTO DEL LAVORO (GOVERNO AMATO)

 

1992

DIRITTI DEI PORTATORI DI HANDICAP

Legge 2/2/1992

1992

RIORDINO DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE (1°)

Decreto Legislativo 3/12/1992 n. 502

1992

RIORDINO DELLE PENSIONI (1°)

Decreto Legislativo 30/12/1992 n. 503

1993

ACCORDO GOVERNO-SINDACATI-IMPRENDITORI SUL COSTO DEL LAVORO (GOVERNO CIAMPI)

 

1993

RAZIONALIZZAZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Decreto Legislativo 3/2/1993 n. 29

1992

ELEZIONE DIRETTA DEI SINDACI

Legge 25/3/1992 n. 81

1993

RIORDINO DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE (2°)

Decreto Legislativo 7/12/1993 n. 517

1994

CARTE DEI SERVIZI PUBBLICI

Direttiva Pres. Cons. Ministri 27/1/1994

1994

PIANO SANITARIO NAZIONALE 1994-1996

Decreto Presidente della Repubblica 1/3/1994

1995

ORDINAMENTO FINANZIARIO E CONTABILE DEGLI ENTI LOCALI

Decreto Legislativo 25/2/1995 n. 77

1995

RIORDINO DELLE PENSIONI (2°)

Legge 8/8/1995 n. 335

1995

CARTA DEI SERVIZI NEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE

Linee guida del Ministero della sanità 31/8/1995 n. 2/1995

1996

TUTELA DELLE PERSONE RISPETTO AI DATI PERSONALI

Legge 31/12/1996 n. 675

1997

RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (LEGGE BASSANINI 1)

Legge 15/3/1997 n. 59

1997

RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (LEGGE BASSANINI 2)

Legge 15/5/1997 n. 127

1997

PICCOLE SOCIETA' COOPERATIVE

Legge 7/8/1997 n. 266

1997

DISCIPLINA TRIBUTARIA DELLE ORGANIZZAZIONI NON LUCRATIVE DI UTILITA' SOCIALE (ONLUS)

Decreto Legislativo 4/12/1997 n. 460

1997

PROMOZIONE DI DIRITTI PER L'INFANZIA E LE FAMIGLIE

Legge 27/08/1997 n. 285

1998

PIANO SANITARIO 1998-2000

Linee guida del Ministro della Sanità

1998

RIORDINO DEL PUBBLICO IMPIEGO

Decreto Legislativo 31/3/1998 n. 80

1998

POLITICHE PER L'IMMIGRAZIONE

Legge 6/3/1998 n. 40

1998

RIORDINO DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE (3°)

Disegno di legge del governo

Tali processi istituzionali avvengono, come in tutti i paesi di welfare europei, nel quadro di forti contraddizioni economiche che incidono sulla tenuta delle coalizioni di governo.

E’ dunque opportuno, per comprendere l’evoluzione delle politiche sociali negli anni Novanta, trattare succintamente anche queste problematiche.

Gli accordi sul costo del lavoro

Con le elezioni del 5-6 aprile 1992 inizia una fase nuova della politica italiana. La Democrazia Cristiana scende al suo minimo storico passando dal 34,3, % al 27,9%, il Partito Socialista Italiano scende dal 14,3% al 13,6% e il nuovo Partito Democratico della Sinistra si attesta sul 16,6%, mentre Rifondazione Comunista, la formazione nata dal distacco di una minoranza del Partito Comunista Italiana, non supera il 5,6%. La novità emersa da queste elezioni è la Lega Nord che accresce la sua percentuale di voto dallo 0,5% all’8,7%. Questo risultato elettorale si intreccia con il cosiddetto scandalo di "Tangentopoli" che investe in modo travolgente il sistema dei partiti della prima repubblica. In tale situazione viene individuato quale nuovo Presidente del Consiglio Giuliano Amato, il cui governo può essere considerato una transizione ai nuovi assetti politici degli anni successivi.

Un evento di notevole significato è la firma, il 31 luglio 1992, di un patto tra governo, sindacati ed imprenditori i cui principali contenuti sono i seguenti:

· la scala mobile viene abbandonata, tranne che nei casi di difficoltà nella contrattazione

· il sistema fiscale e contributivo non potrà più essere usato per correggere aumenti contrattuali troppo vistosi

· dovrà essere attuata una regolazione attenta della crescita dei prezzi

· la contrattazione articolata viene bloccata per tutto il 1993

Tale accordo scatena notevoli conflitti all’interno di una parte dei sindacati ed è interpretato da gran parte della base come una grave sconfitta, tuttavia:

sarebbe stato riconosciuto negli anni successivi come un evento di rilevanza storica. Non solo in un momento di acuta crisi interna costituiva un importante segnale a livello internazionale, ma segnò anche l’inizio di un rinnovato ruolo politico per le stesse organizzazioni sindacali e l’apertura di una fase in cui la concertazione fra le parti sociali - cioè imprenditori e sindacati -, sotto la guida dell’esecutivo diveniva parte essenziale dell’arte del governo ()

Gli esiti della serie di referendum del 17-18 aprile 1993 (all’interno dei quali l’82,7% si pronuncia a favore di un sistema elettorale che attenua il modello proporzionale a favore di quello maggioritario) comportano un mutamento dello scenario politico. A presiedere il governo è scelto Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia dal 1979. L’accordo sul costo del lavoro del 1993 costituisce indubbiamente uno dei pilastri della sua politica economica:

la firma dell’accordo sul costo del lavoro non è accolta dal clamore che meriterebbe un evento di portata storica. Eppure, è una svolta paragonabile, per i suoi effetti sull’economia e sulla società italiana, alla liberalizzazione degli scambi del 1954 e all’ingresso nello SME nel 1979, con i successivi tredici anni di politica della lira forte. In fondo, come 39 e 14 anni prima, con quell’atto il sistema Italia cambia pelle, muta in via permanente le regole del gioco, entra in una nuova era. Senza quella firma, tre anni dopo l’Italia non si sarebbe trovata a fare i conti dei parametri di Maastricht e a bussare alla porta della moneta unica europea ()

I punti chiave dell’accordo sono i seguenti:

· per la contrattazione aziendale si prevede la possibilità di tenere negoziati solo al di sopra di una soglia dimensionale che sarà indicata dai contratti nazionali del lavoro

· gli aumenti decisi in azienda sono commisurati alla redditività e alla produttività

· il governo stabilisce successivamente i contributi sociali ai quali questi aumenti saranno sottoposti, tenendo conto delle esigenze del bilancio pubblico

· una particolare attenzione viene posta alle esigenze delle piccole imprese per quanto si riferisce all’obbligo della contrattazione aziendale in determinate condizioni economiche

Le riforme del sistema delle pensioni

In connessione alle problematiche economiche sopra evocate, assume grande rilievo per le politiche sociali il problema dell’invecchiamento demografico della popolazione e le sue conseguenze sul sistema di welfare. Tale fenomeno ha ovviamente investito anche l’Italia ed ha indotto i governi ad assumere iniziative legislative di mutamento del sistema delle pensioni.

A partire dalla fine del 1992 il sistema delle pensioni italiano ha subito numerosi interventi. L’obiettivo di tali provvedimenti era quello di riequilibrare, nel lungo periodo, l’evoluzione della spesa delle pensioni rispetto al prodotto interno lordo, bilanciando gli effetti negativi dell’invecchiamento della popolazione, della diminuzione dell’occupazione e del rallentamento della crescita economica. Assieme a questa finalità di ordine economico vi era anche la necessità di uniformare le normative pensionistiche del settore pubblico, del settore privato e dei regimi professionali speciali in base a criteri di equità tra le generazioni e all’interno delle generazioni.

Un sistema delle pensioni è un’istituzione che consente la formazione di aspettative finanziarie definiti e calcolabili (una rendita vitalizia di un importo specifico, disponibile a partire da un certo momento del futuro) in cambio di versamenti per un periodo di anni di una serie di contributi. In Italia i sistemi pensionistici sono obbligatori, cioè la gestione finanziaria avviene attraverso casse o gestioni di diritto pubblico, cui i lavoratori hanno l’obbligo di iscrizione. E’ per questi motivi che in Italia assume un rilievo particolare la legislazione pensionistica e la questione previdenziale è stata spesso al centro dell’agenda politica italiana. In proposito è opportuno ricordare le leggi di riforma del 1968-1975 che hanno realizzato un "patto previdenziale" tra le forze politiche e sindacali e la successiva incessante attività legislativa tesa a modificare continuamente gli istituti previdenziali esistenti.

Una caratteristica di fondo del sistema pensionistico italiano consiste nel suo finanziamento che avviene attraverso il modello della "ripartizione" (pay as you go): i contributi versati da chi lavora non sono accantonati (o "capitalizzati"), ma versati immediatamente ai pensionati. Un simile meccanismo finanziario è ovviamente in equilibrio solo quando il gettito dei contributi copre le somme necessarie per il pagamento delle pensioni:

a spingere i governi verso i sistemi a ripartizione furono vari fattori, tra cui la vanificazione di ogni risparmio, compreso quello previdenziale, dovuta all’elevatissima inflazione post-bellica, il numero enorme di lavoratori pressoché privi di ogni forma di tutela in conseguenza dell'esiguità con cui in passato i datori di lavoro avevano adempiuto agli obblighi contributivi, la possibilità di contare su una minore incertezza delle prestazioni, l’opportunità di effettuare una redistribuzione solidaristica delle risorse e di valersi di minori costi di gestione (rispetto ai sistemi privatistici a capitalizzazione), la possibilità di utilizzare la logica della "ripartizione" per assecondare le modifiche strutturali del sistema produttivo ()

La forbice fra i contributi versati e l’andamento delle pensioni erogate ha determinato un ampio consenso sulla gravità degli squilibri esistenti () e ha sollecitato l’individuazione di soluzioni legislative in merito al problema.

Uno fra gli aspetti di più evidente iniquità del sistema è costituito dalle pensioni di anzianità. Si tratta di un istituto specificamente italiano, introdotto nel 1965 come "misura temporanea" per favorire i processi di ristrutturazione industriale in quel periodo di recessione. La pensione di anzianità consente ad un lavoratore di godere di una rendita pensionistica dopo un certo periodo di versamento di contributi previdenziali, indipendentemente dall’età anagrafica. La conseguenza è che, a parità di contributi versati, i pensionati di anzianità godono di un "rendimento implicito" dei contributi versati nettamente superiori a quello ottenuto dai pensionati di vecchiaia.

Negli anni Novanta il primo tentativo di riformare il sistema previdenziale è stato intrapreso in un periodo di emergenza finanziaria. Il già citato governo Amato adottava provvedimenti di riforma centrati sui seguenti punti:

· limitazione dell’adeguamento automatico dell’importo delle pensioni al solo aumento dei prezzi, e non anche a quello dei salari minimi contrattuali

· misure congiunturali come il temporaneo blocco delle pensioni di anzianità e la sospensione della perequazione automatica delle pensioni

· graduale elevazione (un anno ogni due, a partire dal 1994) dell’età richiesta per il pensionamento di vecchiaia nel fondo pensioni lavoratori dipendenti, fino al raggiungimento del 65° anno di età per gli uomini e 60° anno di età per le donne

· estensione a tutti i lavoratori pubblici e privati della disciplina del fondo pensioni lavoratori dipendenti, in materia di pensioni di anzianità (35 anni di contribuzione anziché i 15-20-25 anni richiesti nell’impiego pubblico)

· estensione a tutti i regimi pensionistici dei criteri di determinazione della retribuzione pensionabile previsti per il fondo pensione lavoratori dipendenti.

La riforma Amato è stata sicuramente incisiva, ma insufficiente a risanare il sistema pensionistico italiano. Due anni dopo, in seguito alla vittoria del centro destra alle elezioni politiche, il governo Berlusconi presenta una proposta non negoziata con i sindacati, articolata come segue:

l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni per gli uomini e 60 per le donne viene anticipato al 2000. Il coefficiente di ricalcolo viene abbassato all’1,75% a partire dal 1996, con possibili ulteriori abbassamenti. Si può andare in pensione dopo 35 anni di contributi, ma con una penalizzazione del 3% dell’importo della pensione per ogni anno che manca al compimento dell’età per la pensione di vecchiaia .... Niente scala mobile per le pensioni nel 1995. Dal 1996, sarà agganciata all’inflazione programmata, anche se i pensionati, al contrario dei lavoratori attivi, non hanno la possibilità di ottenere conguagli contrattuali con l’inflazione reale ... Per il sindacato è una dichiarazione di guerra ... In un diverso contesto, forse non si sarebbe arrivati al durissimo scontro delle settimane successive. Il contributo decisivo viene da un fattore politico: il sindacato - e ancora meno la sua base - non ha nessuna simpatia e nessuna fiducia per un governo di destra, al di là degli sforzi dei suoi dirigenti per mostrarsi neutrali. ... Politicamente, il rifiuto - anche sprezzante - a trattare, cercare l’accordo affonda tutto il quadro istituzionale della politica dei redditi e della concertazione ().

La riforma delle pensioni viene ripresa successivamente dal governo Dini (1995). La negoziazione avviene anche con riferimento ad una proposta dai sindacati, centrata sulla separazione tra spese e fondi per la previdenza e per l’assistenza, sulla flessibilità dell’età pensionabile e su un calcolo della pensione legato all’intera vita lavorativa. Il compromesso finale tiene conto di queste indicazioni e introduce un'innovazione di sostanza nel metodo di calcolo delle rendite pensionistiche, con il passaggio da un sistema retributivo a un sistema contributivo.

La conseguente riforma delle pensioni, approvata dal Parlamento nell’agosto 1985 ed in vigore dal 1 gennaio 1996, tende alla creazione di un sistema previdenziale fondato su tre pilastri: 1) sistema previdenziale pubblico, obbligatorio per tutti i lavoratori iscritti all’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale o ad altro ente; 2) fondi pensione, create su basi aziendali o di categoria, per dare una prima integrazione alla pensione di base; 3) contratti di assicurazione sulla vita per coloro che desiderano precostituirsi rendite ulteriori secondo le loro necessità e disponibilità. Più in particolare, per effetto della legge i lavoratori vengono suddivisi in tre fasce:

1. lavoratori nuovi assunti che accedono per la prima volta a un rapporto di lavoro e a una posizione previdenziale per i quali il metodo di calcolo sarà solo contributivo

2. lavoratori che al 31.12.1995 hanno superato 18 anni di anzianità contributiva: per essi resta immutato il vigente sistema di calcolo retributivo

3. lavoratori che al 31.12.1995 non hanno raggiunto 18 anni di anzianità contributiva, per i quali la pensione sarà calcolata in due quote: metodo retributivo per gli anni maturati fino al 31.12.1995; metodo contributivo per gli anni che decorrono dal 1.1.1996 alla data del pensionamento

Dunque, il sistema diventa integralmente contributivo solo per i nuovi assunti: di fatto il nuovo meccanismo entrerà completamente in vigore solo nel 2013 e funzionerà con queste regole:

· accesso alla pensione: l’età pensionabile diventa flessibile. Il lavoratore può scegliere di andare in pensione in un arco di tempo che va dai 57 ai 65 anni

· requisito minimo contributivo: per l’accesso alla pensione saranno richiesti solo 5 anni di contribuzione effettiva

· base di calcolo: viene considerata la contribuzione accreditata nell’intera vita lavorativa, rivalutata in base all’indice calcolato dall’Istat riferito al prodotto interno lordo nominale. L’aliquota contributiva di riferimento, per determinare i contributi accreditabili e rivalutabili, è pari al 33% della retribuzione percepita.

Di particolare significato è la previsione della previdenza integrativa su base volontaria. Chi vi aderisce verserà al fondo (aziendale o di categoria) il 2% della retribuzione e altrettanto farà il datore di lavoro. L’avvio dei fondi pensione è previsto per il 1999.

Con l’approvazione della legge, la crisi della politica pensionistica trova una provvisoria soluzione e il dibattito, talvolta aspro, tra le forze politiche e sindacali si attenua, anche se ciclicamente tende a riproporsi.

 

Politiche di riorganizzazione della riforma sanitaria

Alla fine degli anni Ottanta si consolida nel governo e nel parlamento la scelta di riorganizzare il sistema sanitario e modificarne le caratteristiche. In particolare il sistema entra in una nuova fase alla ricerca di un equilibrio fra diritti di cittadinanza, programmazione pubblica e competizione di mercato. In un arco di tempo che va dal 1992 al 1993 viene profondamente innovata l’organizzazione sanitaria italiana, modificando il precedente assetto che era stato definito nel 1978.

Il servizio sanitario nazionale italiano articola le proprie competenze fra:

· amministrazioni centrali dello Stato

· amministrazioni regionali

· amministrazioni locali

Fra le competenze statali rientrano: l’adozione del Piano Sanitario Nazionale, che indica gli obiettivi fondamentali di prevenzione, cura e riabilitazione, le linee generali di indirizzo, i livelli di assistenza da assicurare in condizione di uniformità sul territorio, in coerenza con le risorse finanziarie disponibili; il finanziamento del fondo sanitario nazionale e la sua ripartizione; l’individuazione di indicatori di qualità dei servizi e delle prestazioni e la fissazione degli indicatori di efficienza; l’ordinamento didattico del personale sanitario, infermieristico, tecnico e della riabilitazione; gli indirizzi in tema di normative comunitarie; i requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture private e pubbliche; i criteri per le tariffe delle prestazioni specialistiche, riabilitative e di diagnostica strumentale.

Il ruolo delle Regioni si caratterizza per l’esercizio delle seguenti funzioni: emanazione dei piani sanitari regionali; disciplina legislativa delle aziende sanitarie; nomina dei direttori generali; definizione dei principi in materia di organizzazione dei servizi; normative sulla gestione economica, finanziaria e patrimoniale dell’azienda sanitaria; disciplina del finanziamento delle aziende; verifica dello stato di attuazione dei diritti dei cittadini.

Il sistema sanitario a livello locale si basa sulla costituzione di "aziende sanitarie" e di "aziende ospedaliere" dotate di personalità giuridica pubblica, di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica. I più significativi ruoli istituzionali ed organizzativi delle aziende sanitarie pubbliche sono:

· il direttore generale, al quale sono riservati tutti i poteri di gestione e le funzioni di rappresentanza dell’azienda. Tale figura, che concentra su di sé le funzioni di organo amministrativo, viene nominata dalla Regione fra laureati in possesso di specifici e documentati requisiti

· il direttore amministrativo, il direttore sanitario ed, eventualmente, un coordinatore dei servizi sociali (se previsto nella legislazione regionale) tutti nominati dal direttore generale

· il collegio dei revisori, con funzione di controllo economico e finanziario

· il consiglio dei sanitari, presieduto dal direttore sanitario e composto in maggioranza da medici, con funzione di consulenza tecnico-sanitaria il cui parere obbligatorio, ma non vincolante, è prescritto quando si tratta di assumere decisioni riguardanti le attività tecnico-sanitarie sotto il profilo organizzativo e per la politica degli investimenti

· la conferenza dei sindaci, con il fine di assicurare i legami tra l’azienda e gli enti locali.

Il riordino sanitario operato nel 1992 - 1993 ripristina la centralità degli ospedali che il precedente ordinamento tendeva ad inquadrare nell’organizzazione sanitaria locale. Infatti vengono istituite le aziende ospedaliere, dotate di personalità giuridica pubblica, di specifici organi amministrativi (direttore generale e collegio dei revisori), dei due direttori (sanitario e amministrativo) e del consiglio dei sanitari. Il compito di costituire questi nuovi enti è affidato alle Regioni, con il concorso dei poteri centrali, che si limitano a verificare i requisiti. I presidi ospedalieri da prendere in considerazione al fine della loro costituzione in aziende sono:

· ospedali di rilievo nazionale e di alta specializzazione, in cui siano presenti almeno tre strutture di alta specialità

· policlinici universitari

· strutture destinate alla rete dei servizi di emergenza, dotati anche di elioscopio

· presidi ospedalieri in cui si realizza il percorso formativo del triennio clinico della facoltà di medicina e chirurgia

· presidi ospedalieri operanti in strutture universitarie.

L’attuale assetto del servizio sanitario nazionale è il risultato della graduale attuazione, da parte delle Regioni, dei principi contenuti nelle leggi statali. Nel quadro di questa riforma le più significative parole chiave sono: aziendalizzazione, ristrutturazione della rete ospedaliera, indicatori di qualità e di efficienza, vincolo delle risorse finanziarie. Il processo di aziendalizzazione delle strutture sanitarie, conclusa la fase di costituzione delle nuove aziende (228 aziende Unità sanitaria locale e 91 aziende ospedaliere al 31.12.1996) sta proseguendo con molte differenziazioni a livello territoriale.

Una caratteristica fondamentale di questa legislazione sanitaria che ha determinato un forte dibattito fra le forze politiche e le reti associative degli enti locali, è quella di aver tolto la titolarità ai Comuni sulle politiche per la salute, attribuendola alle Regioni. Infatti risulta chiaramente accentuato il loro potere amministrativo nei confronti delle aziende sanitarie, le quali perdono ogni legame strumentale con la rete degli enti locali, se non per il coordinamento che si cerca di operare attraverso i sindaci.

Si veda in proposito il grafico che mette in evidenza la diversità dei rapporti inter-istituzionali fra Regione, Unità sanitaria locale e Comuni nelle due fasi di implementazione del servizio sanitario nazionale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In particolare è rilevabile una attenuazione delle funzioni amministrative da parte dei Comuni e, viceversa, un’accentuazione del ruolo regionale che diventa l’ente amministrativo fondamentale per quanto riguarda il finanziamento, le politiche del personale e gli orientamenti amministrativi.

Nel quadro della revisione legislativa collegata con il programma dell’Ulivo, il governo Prodi, per dare continuità al processo riformatore avviato nel 1978 e parzialmente interrotto nel biennio 1992/1993, ha proposto un disegno di legge finalizzato a:

· rafforzare il ruolo dei Comuni nella partecipazione alla programmazione sanitaria e socio-sanitaria

· perseguire lo scopo di definire processi di integrazione dei servizi sanitari con quelli socio-assistenziali

· introdurre regole di gestione delle risorse umane più congruenti alle caratteristiche organizzative delle aziende sanitarie (maggiore flessibilità nella gestione delle professionalità, responsabilizzazione dei dirigenti, possibilità per le aziende di acquisire personale dirigenziale tramite contratti a tempo determinato)

Il ministro della Sanità ha, nel 1998, prodotto le linee per il piano sanitario nazionale 1998-2000. Si tratta dello strumento necessario a realizzare il passaggio dalle norme legislative alla loro attuazione, garantendo parità di diritti e di trattamento ai cittadini. Gli obiettivi individuati sono:

· promozione di comportamenti e stili di vita per la salute (alimentazione, fumo, alcool, attività fisica)

· lotta contro particolari patologie (malattie cardio e cerebro-vascolari, infettive, tumori, incidenti e malattie professionali, patologie di rilievo sociale)

· miglioramento del contesto ambientale (aria, acqua, alimenti, radiazioni, rifiuti)

· tutela dei soggetti deboli (immigrati, tossicodipendenti, malati mentali)

Il piano è stato intitolato "Un patto di solidarietà per la salute", cioè come un complesso di interventi e progetti tendenti a realizzare alcuni punti fermi: l’universalismo del servizio sanitario nazionale, la ricerca non solo dell’efficienza, ma soprattutto dell’efficacia.

In riferimento alla garanzia dei livelli essenziali di assistenza per tutti, l’offerta dei servizi viene sviluppata secondo tre aree: collettiva, distrettuale ed ospedaliera, tra loro coordinate. Il "Patto" riguarda il rapporto tra il servizio sanitario nazionale e i cittadini destinatari dei servizi, coinvolgendo gli operatori e tutti gli altri settori di intervento, ma anche le istituzioni, il volontariato, i produttori di beni e servizi e il mondo della comunicazione.

 

Riforma degli enti locali e welfare municipale

In Italia non tutta l’amministrazione pubblica viene svolta dagli organi dello Stato. Infatti accanto alle amministrazioni statali, sia centrali che periferiche, agisce l’amministrazione locale costituita principalmente dagli enti locali territoriali (Regioni, Province e Comuni).

Tale struttura amministrativa ha grande rilevanza per le politiche sociali, in quanto a partire dagli anni Settanta rilevanti funzioni concernenti la popolazione in situazione di bisogno (minori, handicap, anziani, malati psichici, tossicodipendenti, ecc.) sono state attribuite ai livelli operativi locali.

Nel 1990 è stata approvata la legge fondamentale sugli enti locali. Tale legge ha introdotto l’autonomia statutaria dei Comuni e delle Province, affidando a tali enti l’autorità di definire le norme relative all’esercizio delle funzioni e dei poteri. In tal modo gli enti locali territoriali sono dotati di un'elevata capacità di autorganizzazione interna. Comuni e Province, pur essendo enti rappresentativi elettivi, diventano soggetti di imprenditorialità sociale, nel senso che hanno il compito di interpretare i bisogni e la domanda di servizi, per organizzare le risposte.

In riferimento ai compiti organizzativi centrati sui servizi sociali, assumono grande rilievo i Comuni. Tuttavia questa rete istituzionale è estremamente frammentata: in Italia i Comuni sono circa 8.000 e hanno ampiezze molto diversificate. Tale situazione comporta la necessità di definire forme associative fra di essi. La riforma del 1990 individua gli strumenti per ottenere questi risultati:

· convenzioni intercomunali, consistenti in patti associativi fra gli enti locali per l’esercizio di funzioni concordate

· consorzi intercomunali, consistenti nella creazione di enti giuridici per la gestione di servizi

· accordi di programma, orientati a stabilire strategie concordate fra enti di diversa competenza attorno a programmi di sviluppo

· comunità montane, che aggregano i piccoli Comuni collocati in zone montuose per raggiungere una soglia dimensionale adatta a gestire funzioni sovracomunali in territori ad elevata dispersione.

Un principio importante introdotto da questa riforma è quello di conciliare la funzione rappresentativa (cioè il fatto che tali enti sono elettivi) con quella gestionale, consistente nell’erogare servizi per la soddisfazione dei bisogni collettivi. In tal modo il sistema di offerta dei servizi viene considerato oggetto di strutturazione e gestione da parte degli enti: organizzazione, tecnologia e condotte lavorative professionali diventano oggetto di progettazione.

Sotto il profilo gestionale tali operazioni sono possibili attraverso una pluralità di strumenti:

· costituzione di aziende speciali, che configurano processi di esternalizzazione di funzioni complesse e loro affidamento ad enti appositi dotati di autonomia gestionale

· istituzioni per l’esercizio dei servizi sociali, configurate come organizzazioni autonome sul piano finanziario, anche se direttamente controllate dagli enti locali

· società a partecipazione pubblica, attraverso le quali Comuni e Province possono gestire i servizi per mezzo di forme societarie a partecipazione azionaria pubblica

· concessione a terzi, quale strumento attraverso cui gli enti locali delegano a soggetti esterni la produzione di un servizio

Un altro importante principio, che successivamente è stato trasferito a tutto il sistema italiano della pubblica amministrazione, è quello del superamento del tradizionale rapporto fra organi politici e strutture amministrative. Infatti viene introdotta una moderna struttura di direzione, basata sulla distribuzione di chiara responsabilità lungo l’asse "poteri strategici/poteri esecutivi", i primi assegnati agli organi elettivi, i secondi a dirigenti professionali.

La distribuzione delle responsabilità avviene nel modo seguente:

· i consigli comunali (eletti dai cittadini) si configurano quali organi di indirizzo e controllo dell’operato degli esecutivi

· i sindaci si configurano quali organi di rappresentanza degli enti e contemporaneamente "responsabili dell’amministrazione comunale". Tali figure assumono una posizione di centralità e preminenza rispetto alla componente elettiva: i sindaci non solo rappresentano le comunità locali, ma esercitano funzione di direzione e di coordinamento dell’esecutivo comunale

· le giunte comunali sono composte dal sindaco che le presiedono e dagli assessori da esso nominati e revocati. In tal modo le giunte assumono un ruolo di organo ausiliario del sindaco con il compito di realizzare gli interventi previsti dal documento programmatico, contenente gli indirizzi generali, approvato dal consiglio. L’attuazione dei programmi consiliari è il compito preminente delle giunte, le quali hanno attribuzioni di carattere gestionale, finalizzate alla realizzazione degli interventi programmatici formulati dai consigli.

La legge di riforma delle autonomie locali prevede anche numerosi istituti di tutela della cittadinanza. Gli enti possono creare la figura del difensore civico, con il compito di tutelare i cittadini nei confronti degli abusi e dei disservizi della pubblica amministrazione e che può essere attivato sulla base di segnalazioni individuali o da parte delle associazioni del territorio. Molti Comuni si sono dotati dello strumento del referendum consultivo ed altri anche del referendum propositivo, con il quale i cittadini possono proporre l’adozione di determinate azioni amministrative. E' prevista anche l’azione popolare consistente nella possibilità di agire in giudizio da parte del sindaco in nome della cittadinanza o da parte di altri soggetti contro enti pubblici e privati che, all’interno del territorio comunale, gestiscono servizi e nel corso di tale attività violano i diritti o producono danni. Allo scopo di favorire la partecipazione sociale di cittadinanza, gli enti locali territoriali possono utilizzare vari strumenti, fra cui: le consulte, con la funzione di influire sulle scelte amministrative in relazione a problematiche sociali di particolare rilevanza, come l’handicap, i minori a rischio, l’emarginazione degli anziani; il forum dei cittadini, mediante il quale la cittadinanza può chiedere di essere convocata o può autoconvocarsi per discutere problemi specifici assieme alle rappresentanze istituzionali, le quali sono tenute ad intervenire e fornire le risposte.

Un ulteriore cambiamento significativo è avvenuto con l’approvazione nel 1993 della nuova legge sull’elezione dei sindaci:

varata al fine di evitare un referendum su questo tema, la legge stabiliva che per il futuro i sindaci sarebbero stati eletti direttamente dai cittadini. Questa misura avrebbe esercitato un effetto decisamente positivo sul rapporto fra diritto di voto e responsabilità politica a livello locale ()

L’importanza della nuova disciplina per le elezioni degli organi di governo locale consiste anche nel fatto che ha modificato la loro funzione nel sistema politico. Infatti attraverso l’adozione di un sistema maggioritario di lista, la legge attribuisce al sindaco una posizione di preminenza nel governo locale dei Comuni. Viene infatti introdotto nel sistema elettorale italiano il principio maggioritario, teso a garantire stabilità ai governi locali, sottraendoli ai vincoli di partito e dando maggiori poteri e responsabilità ai sindaci.

Con queste riforme inizia un processo che viene definito da vari attori delle politiche sociali con la formula di welfare municipale:

Con questo termine non si intende tanto l’ente locale in quanto apparato politico-amministrativo, bensì tutte le diverse componenti che, vivendo nella città-territorio possono partecipare, o già partecipano, alla realizzazione delle condizioni di benessere/stare-bene di chi vi abita, rendendo effettivamente fruibili i diritti di cui dispongono i residenti ()

 

Queste politiche di welfare che si stanno sperimentando meritano di essere documentate poiché sviluppano all’interno del sistema delle autonomie locali azioni finalizzate alla costruzione comunitaria dei servizi sociali. Tale operazione avviene realizzando patti associativi fra enti pubblici caratterizzati da competenze diverse, in rapporto all’articolato mondo del non profit che, in Italia è rappresentato da soggetti molto diversi fra loro e tuttavia tendenzialmente orientati a realizzare esperienze di progettazione sociale, solidarietà, processi di aiuto atti a promuovere il bene comune.

Il 1994 ha costituito un ulteriore punto di svolta per le amministrazioni locali, essendo entrato definitivamente in vigore in quell’anno un nuovo sistema di imposizione fiscale, che prevede l’attribuzione ai Comuni dell’intero gettito delle imposte comunali sugli immobili (ICI). Questa tassazione costituisce il primo passo per quel federalismo fiscale necessario ad attribuire ai livelli amministrativi locali la responsabilità di produrre beni e servizi identificando anche le compatibilità dei mezzi finanziari necessari a realizzarli.

Le riforme amministrative

Nel corso degli anni Novanta in Italia si è avviato in modo coerente e concatenato un processo di riordino di tutto il sistema della pubblica amministrazione.Un'importante iniziativa del già citato governo Amato è stata la riforma del 1993, chiamata impropriamente di "privatizzazione" del pubblico impiego e che più correttamente dovrebbe essere definita di "contrattualizzazione" di tale rapporto. Punti qualificanti di tale riforma sono i seguenti:

· estensione al settore dell’impiego pubblico della disciplina privatistica: cioè i contratti dei pubblici dipendenti ora si basano sul diritto privato anziché su quello amministrativo

· separazione fra direzione politica e gestione amministrativa e conseguente affidamento della direzione amministrativa alla dirigenza

· unificazione della dirigenza pubblica con l’accorpamento dei tre livelli dirigenziali preesistenti in due sole qualifiche

· attribuzione di maggiori poteri, anche di carattere finanziario ai dirigenti e riduzione del loro numero

· affidamento delle controversie di pubblico impiego ai giudici del lavoro, con eliminazione della competenza esclusiva della giurisdizione amministrativa

· controllo della produttività mediante appositi nuclei di valutazione formati da dirigenti generali e anche da esperti esterni all’amministrazione

Le linee portanti di questa riforma consistono nel rovesciare la tendenza presente nella storia istituzionale italiana per cui le riforme amministrative si concretizzano prioritariamente in provvedimenti a favore del personale pubblico:

la prospettiva dalla quale si è mossa l’iniziativa governativa del 1993-94 è stata esattamente l’opposto: prima la domanda di servizi (le esigenze del cittadino), poi l’articolazione dei servizi in risposta a quella domanda, infine - per ultimo - il personale ()

La stessa riforma del 1993 prevede l’istituzione degli uffici per le relazioni con il pubblico. Si tratta di unità amministrative previste in ogni struttura della pubblica amministrazione, con il compito di gestire le iniziative di comunicazione esterna, curare i rapporti con il cittadino o con le organizzazioni di rappresentanza, formulare proposte sul miglioramento dell'organizzazione e dei rapporti con l’utenza. L’esperienza insegna che tali uffici tendono a diventare luoghi di segnalazione dei reclami, sportelli informativi o uffici per la cura dell’immagine dell’amministrazione. In alcuni casi di esperienze più valide, invece, diventano uno strumento di interfaccia e di collaborazione tra amministrazione e cittadini, considerati più come una risorsa che come un peso.

Un altro importante aspetto che va segnalato in tali processi di riforma riguarda l’attenzione dedicata all’efficacia delle prestazioni erogate. Rientrano in questa categoria i controlli di efficacia e, in generale, quegli insiemi di verifiche che, sostituendosi al vecchio regime dei controlli formali di tipo giuridico, hanno l’obiettivo di aumentare il rendimento delle attività amministrative.

Accanto a questa tendenza centrata sulla ricerca dell’efficienza e dell’efficacia nell’uso delle risorse è da rilevare la presenza di un altro orientamento non conflittuale con il primo, finalizzato a migliorare la qualità dei servizi e ad accrescere il potere di cittadinanza.

In modo assai più deciso che non in passato, la trasparenza è diventata un valore guida dell’ordinamento e un fine importante nell’organizzazione amministrativa. Tale principio è stato regolato all’interno di una legge del 1991 i cui punti chiave sono i seguenti:

· diritto di accesso da parte dei cittadini agli atti della pubblica amministrazione

· obbligo di indicare l’unità organizzativa o il funzionario responsabile dei procedimenti amministrativi

· obbligo di indicare i tempi di conclusione e le motivazioni degli atti

· obbligo di comunicazione dell’inizio del procedimento e conseguente possibilità di intervento da parte dell’interessato o dei titolari di interessi diffusi

Nel quadro di questo orientamento finalizzato a migliorare i rapporti fra cittadini ed amministrazioni pubbliche, assume rilievo la cosiddetta politica delle "carte dei servizi pubblici". Tale strumenti, ispirati ad iniziative di altri paesi europei, fra cui la Gran Bretagna, sono introdotti nel nostro Paese nel 1994 durante il governo Ciampi e si inseriscono nel progetto di modernizzazione e razionalizzazione del funzionamento amministrativo.

Nella regolazione di questi aspetti vengono innanzi tutto indicati i principi generali cui deve uniformarsi l’azione gestionale delle organizzazioni che erogano servizi pubblici. I principi individuati sono: uguaglianza, imparzialità, continuità, diritto di scelta, partecipazione, efficienza ed efficacia.

Occorre sottolineare che a tali principi sono tenuti ad uniformarsi non solo le pubbliche amministrazioni, ma anche i soggetti privati che erogano servizi in regime di esternalizzazione (per mezzo di convenzioni o concessioni).

Un aspetto centrale di questa normativa è certamente il riconoscimento del diritto dell’utente al rimborso da parte dei soggetti erogatori di servizi pubblici ogni volta che "il servizio reso è inferiore per qualità e tempestività agli standard pubblicati". Ciò implica che ogni soggetto che eroga servizi pubblici sia obbligato a definire la tipologia e le caratteristiche dei prodotti, con particolare riferimento a:

· i fattori da cui dipende la qualità del servizio

· gli indicatori di qualità

· gli standard di qualità e quantità per ciascuno degli indicatori individuati

Le carte dei servizi possono essere definite come un contratto o un patto preventivo che le organizzazioni fanno con i propri utenti, circa le prestazioni e le modalità di erogazione.

Finora sono stati pubblicati gli schemi di riferimento delle carte riguardante: i servizi sanitari, i servizi scolastici, il settore elettrico, il settore del gas, la previdenza, i servizi postali.

I processi istituzionali di riforma delle pubbliche amministrazioni hanno avuto un'ulteriore accelerazione attraverso un complesso gruppo di leggi del 1997 e 1998 che prendono il nome dall’attuale ministro per la Funzione Pubblica del governo Prodi: si tratta delle cosiddette leggi Bassanini.

La prima di queste leggi si articola attorno a tre obiettivi:

· trasferire funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni e agli enti locali: si tratta della più complessa azione di decentramento amministrativo che l’Italia repubblicana abbia mai compiuto

· riordinare e sottoporre a revisione le strutture delle amministrazioni centrali, degli enti pubblici e delle istituzioni scolastiche

· ridurre in modo esteso la emanazione di leggi statali (delegificazione) e semplificare una serie di procedimenti amministrativi che rallentano l’assunzione delle decisioni.

In questo quadro lo Stato centrale assolve ruoli di regolazione, promozione, coordinamento e programmazione, mentre poteri, compiti, uffici e risorse sono affidati a Regioni ed enti locali, ma anche alla società civile e all’autonomia dei privati. Questa legge applica per la prima volta il principio cardine dei sistemi federali, ossia il principio di sussidiarietà, consistente in un procedimento totalmente nuovo rispetto al tradizionale trasferimento di funzioni dai livelli centrali ai livelli locali: invece di individuare in modo analitico le attribuzioni da trasferire, vengono specificate solo le funzioni di competenza esclusiva dello Stato, mentre l’esercizio di tutte le altre funzioni sono di competenza esclusiva delle Regioni che debbono, con proprie leggi, riarticolarle nel proprio territorio:

la scelta di una forma di Stato federale è uno degli elementi caratterizzanti del progetto di riforma (...) Il modello federale proposto può considerarsi grosso modo a metà strada tra la variante cooperative e quella competitiva. Ma, in armonia con la tradizione e la realtà italiana, pone fortemente l’accento sul ruolo delle autonomie locali e in particolare dei Comuni. L’autonomia municipale ha infatti, in Italia, solide radici nella storia, nella cultura, nella realtà istituzionale italiana fin dal Medio Evo (...) L’Italia è più il Paese delle cento, delle mille città che il Paese delle venti regioni. Naturalmente nessun sistema federale può bypassare la dimensione istituzionale regionale. Nel progetto italiano di riforma, il problema viene risolto attribuendo alle Regioni principalmente poteri legislativi, di programmazione, di coordinamento e di sostegno e supporto ai governi locali ()

Più in particolare, la legge prevede: semplificazioni per aiutare le imprese e il mercato del lavoro; la riorganizzazione della presidenza del Consiglio e dei ministeri; il completamento della contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti avviata nel 1993; l’attribuzione dell'autonomia alle istituzioni scolastiche, estendendo la personalità giuridica a tutte le tipologie scolastiche.

La seconda legge Bassanini introduce un ampio numero di innovazioni normative finalizzate alla semplificazione delle norme amministrative per ridurre o eliminare i certificati richiesti, per ampliare i casi in cui basta l’autocertificazione, per evitare oneri o ritardi nell’adozione degli atti amministrativi. L’obiettivo è quello di mettere le amministrazioni pubbliche in condizione di migliorare l’efficacia e la rapidità del loro lavoro e di ridurre il carico burocratico sui cittadini e sulle imprese. Più in particolare, le disposizioni in materia di stato civile e di certificazione anagrafica consentono, fra l’altro di: dichiarare la nascita negli ospedali; favorire l’uso della telematica per il rilascio delle certificazioni; dare tendenzialmente validità ai certificati. La stessa legge contiene ulteriori norme in materia di autonomie locali, fra cui: istituzione facoltativa del Direttore Generale (con funzioni di gestione economica ed organizzativa degli enti) per i Comuni sopra i 15.000 abitanti e le Province; ridefinizione del ruolo dei segretari comunali e provinciali che potranno essere scelti dai sindaci; riduzione dei controlli amministrativi sugli atti degli enti locali; innovazione nella disciplina dei servizi pubblici, favorendo la costituzione di società miste per la gestione; introduzione di nuove norme in materia di contrattazione collettiva per il pubblico impiego; emanazione di nuove regole in materia di equilibrio finanziario e contabilità degli enti locali; semplificazione della disciplina relativa ai lavori pubblici e alla alienazione degli immobili.

Nel mese di marzo del 1998 il Consiglio dei ministri ha approvato la terza legge Bassanini, che definisce in modo analitico la ripartizione delle competenze e le regole per il decentramento amministrativo e conferisce ulteriori funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni e agli enti locali.

Si tratta di una riforma di estrema ampiezza e complessità, e rappresenta certamente il maggior sforzo di decentramento possibile all’interno dell’attuale quadro costituzionale italiano. Questo passaggio di funzioni dal centro alla periferia avviene secondo il principio per il quale l’esercizio dei compiti in sede locale è la regola, mentre è residuale l’intervento dello Stato. Questa riforma è costituita da un provvedimento di 168 articoli, che accorpano per grandi temi le materie oggetto del decentramento: sviluppo economico e attività produttive (fra cui: artigianato, industria, energia, turismo); territorio e urbanistica (fra cui: pianificazione territoriali, edilizia residenziale e pubblica, parchi, acque, suolo, opere pubbliche, viabilità e trasporti, protezione civile); servizi alla persona e alla comunità.

Quest’ultimo gruppo di materie è particolarmente cruciale per comprendere lo sviluppo delle politiche sociali e si articola in normative riguardanti il settore sanitario e i servizi sociali.

Per quanto concerne il settore sanitario, vengono individuate le funzioni di tassativa competenza statale determinate sia in ragione del tipo di atto o potere, sia introducendo altre specificazioni in relazione a specifici settori di attività. Sono conservati allo Stato i seguenti compiti:

· Piano sanitario nazionale, piani di settore, riparto delle risorse alle Regioni

· definizione dei modelli per l’accreditamento delle strutture sanitarie pubbliche e private

· svolgimento di ispezioni nei confronti di organismi che esercitano le funzioni trasferite

· linee guida di natura igienico-sanitaria relative alle strutture, impianti, laboratori, apparecchi

· regole sulle sostanze o prodotti la cui produzione e circolazione sono sottoposte ad autorizzazione

· criteri per l’esercizio delle attività sanitarie

In base ai principi precedentemente indicati, sono conferiti alle Regioni tutte le funzioni ed i compiti in tema di salute, con esclusione di quelli espressamente mantenuti dallo Stato.

In caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere locale, i sindaci, quali rappresentanti delle comunità locali, hanno il potere di adottare norme immediatamente applicative. Le funzioni di vigilanza dello Stato riguardano gli enti pubblici e privati che operano su scala nazionale o sovraregionale. Tra gli enti soggetti a vigilanza, una posizione particolare rivestono gli ordini e i collegi professionali. In questo caso il mantenimento a livello centrale si giustifica per l’esigenza di garantire un'effettiva uniformità nella disciplina delle professioni sanitarie e per assicurare la sussistenza dei requisiti professionali indispensabili.

Il settore dei servizi sociali è un’area nella quale le Regioni e gli enti locali dispongono di competenze significative. Il problema principale di questo settore è la sua frammentazione e l’assenza di quadri normativi e di riferimento organici. La riforma stabilisce che per servizi sociali si intendono:

tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche, destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia ()

· Le funzioni di competenza dello stato in tale materia sono le seguenti:determinazione dei principi e degli obiettivi della politica sociale

· criteri generali per la programmazione della rete degli interventi di integrazione sociale da attuare a livello locale

· determinazione degli standard dei servizi sociali essenziali al mantenimento di adeguati livelli di condizione di vita

· determinazione degli standard organizzativi dei soggetti pubblici e privati che operano nell’ambito sociale e che concorrono alla realizzazione della rete dei servizi sociali

· assistenza tecnica e compiti di raccordo in materia di informazione e circolazione dei dati ai fini della valutazione e monitoraggio della spesa per le politiche sociali

· determinazione dei criteri per il riparto delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali

· rapporti con gli organismi internazionali e dell’Unione europea operanti nei settori delle politiche sociali

· fissazione dei requisiti per la determinazione dei profili professionali degli operatori sociali e disposizioni sui requisiti per l’accesso e la durata dei corsi di formazione professionale

· interventi di prima assistenza in favore dei profughi

· attribuzioni in materia di riconoscimento dello status di rifugiato

· interventi in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata

· revisione delle pensioni, assegni e indennità spettanti agli invalidi civili e verifica dei requisiti sanitari che hanno determinato benefici economici di invalidità civile

In rapporto alla ripartizione delle competenze, alle Regioni spettano tutte le funzioni e compiti amministrativi nella materia dei servizi sociali, salvo quelli espressamente mantenuti allo Stato. Conseguentemente le Regioni adottano leggi di puntuale individuazione delle funzioni trasferite o delegate ai Comuni e agli enti locali, con particolare riferimento a:

· i minori, inclusi i minori a rischio di attività criminose

· i giovani

· gli anziani

· la famiglia

· i portatori di handicap

· i tossicodipendenti e gli alcooldipendenti

· gli invalidi civili

· cooperazione sociale

· istituzioni di pubblica assistenza e beneficenza (IPAB)

· volontariato

Agli enti locali spetta un ruolo di realizzazione degli interventi e gestione delle funzioni.

Il cambiamento indotto da queste riforme è certamente faticoso. Infatti le problematiche regolate sono estremamente complesse e le normative Bassanini costituiscono un'innovazione di rilevante entità, che richiederà azioni articolate fra vari soggetti: amministratori pubblici, dirigenti pubblici, funzionari, operatori sanitari ed operatori sociali. Un problema strutturale particolare dell’Italia è quello dei piccoli Comuni che si trovano in situazioni oggettive diverse sotto il profilo demografico e strutturale. Tuttavia per favorire i processi di cambiamento, oggi la cittadinanza può agire attraverso una varietà di strumenti per agire sul sistema amministrativo: a)azioni per la valutazione di efficienza ed efficacia; b) la possibilità di verifiche e di controlli; c) il potere della denuncia; d) lo sviluppo di operazioni di confronto fra situazioni ed enti diversificati.

Per completare l’informazione sulle riforme amministrative di questi anni è necessario concludere con la recentissima normativa sul pubblico impiego del 1998. Il nuovo intervento normativo può essere considerato una nuova disciplina del rapporto di lavoro pubblico i cui principali aspetti sono:

· regolazione più analitica dell’organizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, con particolare riferimento agli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità ed alla individuazione degli uffici responsabili dei procedimenti amministrativi

· migliore definizione della distinzione fra "indirizzi politici-amministrativi", assegnati agli organi di governo, rispetto alle funzioni dirigenziali

· ridefinizione della dirigenza pubblica con l’istituzione del ruolo unico, attenuando la distinzione fra le qualifiche

· possibilità di applicare alle pubbliche amministrazioni forme contrattuali flessibili, quali il contratto a termine, di formazione e il cosiddetto lavoro interinale

· applicazione, simile a quella vigente nell’ambito privatistico, di una disciplina in tema di mansioni, svolgimento di mansioni superiori, mobilità, trasferimento fra pubbliche amministrazioni

· trasferimento al giudice ordinario (giudice del lavoro) delle controversie già appartenenti al giudice amministrativo

La normativa qui illustrata per punti sintetici, pur non essendo direttamente connessa alle politiche sociali, è rilevante in quanto va a configurare nuove possibilità nei rapporti inter-organizzativi fra enti pubblici e sistemi del privato-sociale.

Regolamentazione del non profit

Anche in Italia a partire dalla metà degli anni Ottanta è cresciuta l’attenzione nei confronti di un terzo attore che si colloca nello "spazio pubblico" tra Stato e mercato, ma che ha caratteristiche che non permettono di ricondurlo all’uno o all’altro dei due poli, il cosiddetto terzo settore. Ad esso sono rivolte consistenti aspettative per la riforma dello Stato sociale, anche per trovare una mediazione tra esigenze di efficienza ed efficacia da un lato, e ragioni di equità e giustizia dall’altra. L’articolazione della presenza di queste organizzazioni è particolarmente complessa e non sempre riducibile a categorie direttamente trattabili mediante regole normative. Tuttavia è possibile individuare alcuni requisiti che più precisamente caratterizzano tali sistemi ():

· possedere una natura giuridica privata

· non avere uno scopo di lucro. Ciò non significa non produre profitti, ma avere il vincolo della non distribuzione degli utili a favore di soci, membri o dipendenti: i profitti, se ci sono, debbono essere reinvestiti

· perseguire fini di utilità sociale

· essere dotato di uno statuto o di atto costitutivo che ne regola il funzionamento

· essere autonomo sotto il profilo gestionale e autogestita dal punto di vista organizzativo

· raccogliere parte dei finanziamenti attraverso fonti volontarie

· utilizzare lavoro volontario impiegabile in funzioni sia operative che direttive

In Italia, nel 1991, sono state approvate le leggi sul volontariato e sulle cooperative sociali.

La legge quadro sul volontariato fissa alcuni principi in base ai quali e nei cui limiti le Regioni possono operare. In questa legislazione assume particolare rilevanza il significato del volontariato che va ricercato, in primo luogo, nella libera disponibilità dei soggetti ad operare gratuitamente nell’interesse pubblico. Si tratta dunque di un’attività spontanea, che la Repubblica riconosce, salvaguardandone l’autonomia e favorendone l’espressione.

Questa riforma dunque non regola il tempo che le persone rendono disponibile ai bisogni collettivi, ma interviene esclusivamente sulle organizzazioni di volontariato" che intendono stabilire una connessione operativa con le politiche pubbliche. I punti chiave da segnalare sono i seguenti:

· definizione di organizzazione di volontariato: attività che richiede necessariamente un’organizzazione di persone e di mezzi, costituita prevalentemente dalle prestazioni personali volontarie e gratuite degli aderenti

· forma giuridica: tali organizzazioni possono assumere la forma giuridica che ritengono più adeguata al perseguimento dei loro fini

· finalità e funzioni: assumono rilevanza primaria i fini di solidarietà e l’assenza di fini di lucro, anche indiretto

· struttura organizzativa: si uniforma a modelli finalizzati a valorizzare la democraticità delle scelte associative

· rapporti con il sistema pubblico: viene prevista l’istituzione e la tenuta di registri regionali cui si accede mediante domanda

· mezzi finanziari: l’organizzazione può accettare lasciti testamentari e donazioni, stabilire rapporti giuridici, svolgere attività commerciali o produttive interconnesse alle attività di solidarietà, gestire rapporti amministrativi tramite convenzioni con le pubbliche amministrazioni

· diritti delle organizzazioni: le organizzazioni di volontariato hanno diritto all’informazione, all’accesso ai documenti, alla partecipazione consultiva ed alla programmazione degli interventi

· diritti dei volontari: partecipare a corsi di formazione, qualificazione ed aggiornamento professionale, usufruire di forme di flessibilità di orario di lavoro o delle turnazioni previste da contratti o accordi collettivi

L’aspetto più indicativo della situazione del volontariato in Italia è il fatto che tale termine ha cominciato a diffondersi solo a partire dal 1980. Dalla sua diffusione è stato sempre più oggetto di attenzione in ogni ambito della politica sociale, per trovare nuove modalità di collaborazione. Anche se c’è la possibilità di vedere in questo l’intenzione di privatizzare lo stato sociale, è anche vero che la partnership governo - terzo settore potrebbe rappresentare uno strumento, assieme ad altri, per ridisegnare il sistema del welfare e per aumentare le opportunità di cittadinanza sociale. Nella situazione attuale, il volontariato è diventato un’attività importante per molti italiani, soprattutto delle classi medie, in molte iniziative, considerate di elevato valore economico e sociale: in Italia sarebbe possibile fare a meno del volontariato solo a prezzo di una sostanziale caduta di qualità in molte e importanti aree sociali.

Nel settore non profit una posizione di rilievo è occupata dalle cooperative sociali, che hanno trovato spazio in una riforma del 1991.

Attraverso tale legge viene riconosciuta una nuova tipologia di impresa, definibile come impresa sociale, il cui scopo è il perseguimento dell’interesse generale delle comunità, sia pure nel rispetto dei criteri di razionalità economica e di efficiente impiego di tutte le risorse disponibili:

Con la legge 381 è stato così introdotto nell’ordinamento italiano un soggetto sui generis, caratterizzato da una natura al contempo pubblicistica e privatistica: pubblicistica riguardo agli scopi; privatistica per quanto concerne la forma organizzativa. Il fatto appare di grande importanza anche se si considera, in parallelo, l’evoluzione ordinamentale che ha caratterizzato, negli ultimi decenni, le aziende speciali, un tempo non considerate imprese ed ora riconosciute come tali a pieno titolo. Siamo infatti passati da una fase in cui l’orientamento a fini pubblici delle imprese pareva potesse essere garantito esclusivamente dalla proprietà pubblica del capitale sociale (quasi che l’impresa non potesse per propria natura perseguire interessi generali), ad una nuova fase in cui l’ordinamento ha riconosciuto l’esistenza di vere e proprie imprese sociali, regolate da un regime specifico nell’ambito del diritto amministrativo (aziende speciali) o del diritto privato (cooperative sociali) ()

Sono individuati due tipologie organizzative:

· cooperative di "tipo A", che si occupano della gestione di servizi socio-sanitari ed educativi. Tali imprese sociali possono operare in vari campi dei bisogni sociali e integrare nella propria struttura operativa professionalità specialistiche come educatori professionali, psicologi, medici

· cooperative di "tipo B", che si configurano come imprese produttive finalizzate all’inserimento lavorativo di persone in stato di svantaggio sociale (invalidi fisici, psichici e sensoriali, ex-degenti di istituti psichiatrici, soggetti in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti, alcoolisti, minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione)

Le cooperative sociali, anche attraverso la legittimazione che hanno ottenuto dalla legge, si pongono come interlocutore privilegiato delle amministrazioni pubbliche, non solo per gli scopi sociali che perseguono e per le capacità progettuali e la qualità dei servizi che riescono ad organizzare, ma anche per le garanzie di equità, gestione democratica e trasparenza che esse forniscono.

Nella vita sociale le azioni di volontariato spesso si collegano in modo forte con il sistema della cooperazione sociale; tuttavia i due ambienti organizzativi appaiono distinti: la formula della cooperativa sociale, e quindi la gestione imprenditoriale del servizio, diventa necessaria quando: le prestazioni devono essere offerte in maniera continuativa; il grado di professionalità richiesto agli operatori non può essere garantito da volontari impegnati a tempo parziale; esiste un mercato del bene/servizio prodotto; la prestazione è ad alto contenuto materiale ().

Le attività del terzo settore si sono finora sviluppate nei limitati spazi non saturati dalla produzione per il mercato o dall’intervento dello Stato. Questi due ambienti sociali risultano sempre meno adeguati a fornire risposte ai problemi dell'occupazione e alla soddisfazione dei consumi collettivi di natura non mercantile e utilitaristica. Uno degli obiettivi che il terzo settore può perseguire è quello di creare una nuova ed innovativa occupazione riferita alla risposta ai bisogni sociali emergenti:

il terzo settore può fornire risposte non solo al problema dell’occupazione, ma anche ai diversi aspetti della questione sociale, rappresentando un argine contro l’esclusione e la anomia favorendo la partecipazione e l’integrazione sociale. Si tratta necessariamente di un mondo dai confini incerti, con molteplici forme organizzative (associazionismo, volontariato, cooperative sociali) e l’intervento delle istituzioni deve contribuire a chiarirne l’ambito di azione, le forme e i campi di intervento ()

In questa prospettiva di sviluppo dell’occupazione nel 1997 il ministro del Lavoro del governo Prodi ha promosso una legge sulle piccole cooperative. Tale nuovo tipo di società unisce fra loro aspetti caratteristici della società di persone (basso numero di soci, bassi costi di costituzione e modalità di amministrazione molto snelle), con quelle di società di capitale (responsabilità limitata) e con quello delle società cooperative (scopo mutualistico). Più in particolare, la piccola società cooperativa deve essere composta esclusivamente da persone fisiche in numero non inferiore a 3 e non superiore ad 8 soci. L’obiettivo di questa legge è di favorire una piccola imprenditorialità, capace di collocarsi in alcune nicchie di mercato non sovraccaricate da altri soggetti imprenditoriali e creare utilità sociali e contemporaneamente redditi da lavoro.

Fra le tipologie operative è possibile individuare:

· piccole società cooperative di servizi, che impiegano la capacità lavorativa dei soci per fornire a terzi attività come: il trasporto, facchinaggio, pulizie, informazioni, ristorazione, vigilanza, ecc.

· piccole società cooperative femminili, tese a favorire l’applicazione di particolari modalità di occupazione come il part-time o l’impiego a termine

· piccole società cooperative fra extra-comunitari, attraverso le quali i cittadini regolarmente autorizzati possono vedere garantito il loro diritto al rinnovo del permesso di soggiorno fino al permanere della qualifica di socio

· piccole società cooperative sociali, impegnate nella prestazione di servizi sociali: per esse valgono le stesse linee di ragionamento precedentemente illustrate.

A partire dal 1995, su iniziativa del ministro delle Finanze, si è avviato un dibattito teso alla definizione di un intervento legislativo per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS), fino ad arrivare all’emanazione di un'apposita legislazione nel 1997.Il termine ONLUS definisce un’organizzazione che svolge attività non lucrativa con fini solidaristici, la quale vive con le regole proprie dell’ente non commerciale

Questa riforma è finalizzata a favorire lo sviluppo di settori produttivi nel campo della cultura, dello sport e della solidarietà sociale e di creare nuove opportunità di lavoro, oltre che migliorare gli ambiti sociali interessati. Più precisamente si tratta di una legislazione di tipo fiscale sulla disciplina tributaria di questi enti. Per ottenere la qualifica di ONLUS è necessaria l’iscrizione ad una speciale anagrafe istituita e gestita dal Ministero delle Finanze, sulla base di alcuni requisiti: il reddito prodotto deve essere destinato a fini istituzionali; gli scopi istituzionali devono essere socialmente utili; i redditi non devono provenire da un’attività commerciale svolta in misura prevalente. Possono essere qualificate come ONLUS gli enti che nello statuto prevedono lo svolgimento delle seguenti attività:

· assistenza sociale e socio-sanitaria

· assistenza sanitaria

· beneficenza

· istruzione

· formazione

· sport dilettantistico

· tutela, promozione e valorizzazione dei beni di interesse storico-artistico

· tutela e valorizzazione della natura e dell’ambiente

· promozione della cultura e dell’arte

· tutela dei diritti civili

· ricerca scientifica di particolare interesse sociale

A beneficio delle ONLUS sono previste esenzioni e sconti su tutte le imposte, sia dirette che indirette; inoltre, i contribuenti che faranno ad esse erogazioni liberali (fino ad un limite di legge), potranno detrarle dalla tassazione nella misura del 19%.