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Senato della Repubblica, Disegno di Legge 1187

Modifiche dell’articolo 117 della Costituzione

(All'esame dell'Assemblea del Senato)

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Oggetto.

Leggi regionali - Competenza - Costituzione della Repubblica.

 

Iniziativa e relazione.

Presentato in data 26 Febbraio 2002; annunciato nella seduta n.130 del 26 Febbraio 2002

Governativa - Berlusconi II

Onorevoli Senatori. – Prima di entrare nel merito delle modifiche costituzionali proposte con il presente disegno di legge costituzionale, occorre soffermarsi su un problema di metodo, connesso con gli avvenimenti più significativi della XIII Legislatura.

Quest’ultima, infatti, è stata caratterizzata da tentativi molteplici nel corso dei quali si è cercato, con risultati diversi, di incidere sul tessuto costituzionale dell’ordinamento. Riflettere, quindi, su quanto è avvenuto significa cercare di individuare il percorso più giusto per realizzare quegli obiettivi di riforma e di modernizzazione della nostra Carta fondamentale, che costituiscono, ancora oggi, il nodo non risolto di una lunga fase di transizione.

Occorre in primo luogo affrontare quella che, per usare le parole del Presidente del Consiglio nell’esposizione programmatica alle Camere, costituisce «la prima questione»: la riforma federalista dello Stato, la devoluzione di poteri effettivi di governo alle regioni.

È necessario ribadire, sempre richiamando le parole del Presidente del Consiglio, che «la battaglia federalista ha avuto il merito di porre il grande problema di decentrare poteri e responsabilità effettivi in un contesto di equilibrio territoriale tra nord e sud e di unità nazionale». Il nostro federalismo, infatti, si fonda sui princìpi di autonomia e di sussidiarietà.

«In materia di sanità, di istruzione e di sicurezza civile – con la necessaria gradualità ma in tempi certi e coniugando efficienza e solidarietà – intendiamo dunque imprimere una svolta federalista alla macchina dello Stato, ridisegnando di conseguenza intere sezioni architettoniche dell’edificio pubblico».

È da ricordare come, fin dall’origine, la nostra Carta fondamentale avesse un carattere «aperto», tale da consentire all’impianto dei valori e dei princìpi fondamentali di guidare un’evoluzione che va nella direzione di avvicinare sempre di più le istituzioni alla realtà delle identità e delle articolazioni territoriali. Questa era anche la volontà e l’auspicio di Luigi Einaudi, la figura più eminente del pensiero federalista italiano dopo Carlo Cattaneo.

Il disegno di legge costituzionale si muove lungo una linea che è stata perseguita e sviluppata in un periodo tormentato, ma che pure e nonostante le difficoltà è riuscita a produrre qualche frutto. Se non fosse stato così non avremmo, oggi, nè la riforma dei governi regionali (legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1), nè l’introduzione dei principi del giusto processo nelle norme della giurisdizione (legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2). Due riforme importanti, che sono state il risultato del clima che abbiamo appena evocato, ma che soprattutto sono state la conseguenza di una corretta applicazione dell’articolo 138 della Costituzione. Questo resta, nell’attuale fase, l’unico strumento utile e praticabile per procedere lungo la via di una possibile riforma costituzionale.

Come noto, il nostro ordinamento è strutturato in un sistema di fonti che circoscrive l’ambito di efficacia normativa. Vincoli e limiti derivano dalle «riserve» di vario tipo, che ne hanno accompagnato l’evoluzione. Riserve a volte esplicite, quando direttamente previste dalla normativa di rango superiore, altre volte implicite: risultanti cioè dalla coerenza sistemica dell’ordinamento in quanto tale. L’articolo 138 della Costituzione non è estraneo a questa logica di carattere più complessivo. I suoi limiti sono strettamente correlati alla sua funzione, che è quella di adeguare le disposizioni costituzionali alle trasformazioni della società italiana. Questa è stata, almeno fino ad oggi, la curvatura che ha segnato l’uso della norma «manutentiva», che i padri della Carta costituzionale hanno delineato.

Queste brevi annotazioni ci consentono di cogliere alcuni aspetti del più recente dibattito costituzionale sull’argomento. Si è molto discusso sul cosiddetto carattere incrementale del processo di riforma costituzionale, che rappresenta la strategia a cui si è dovuto far ricorso, dopo il fallimento degli approcci di carattere globale. È preferibile invece usare il termine «gradualismo» del processo di riforma. La differenza non è solo lessicale: nel primo caso, si resta infatti confinati in un orizzonte esclusivamente giuridico, nel secondo ci si apre verso un mondo più complesso, la cui valutazione è presupposto necessario per soluzioni in grado di resistere nel tempo.

Ma ciò che fa veramente la differenza nel proiettare queste due impostazioni sul delicato terreno del federalismo è il rifiuto di un approccio sostanzialmente giacobino. Nel primo schema, infatti, è il legislatore nazionale che, seguendo le proprie convenienze, prende l’iniziativa di avviare il processo riformatore. Nel secondo, questo è soprattutto conseguenza di una pressione che proviene dalla società, che il legislatore nazionale deve interpretare e tradurre in norma. Lo farà, decidendo le proprie strategie parlamentari, ma con un vincolo di contenuto, che è la conseguenza della maturazione intervenuta nel profondo della coscienza politica del paese.

Il gradualismo riformatore si è espresso in questi ultimi anni in occasioni diverse ed esso non ha mai avuto una prospettiva esclusivamente giuridica. Si prenda ad esempio la citata legge costituzionale n.1 del 1999.

Si sostiene che queste nuove norme siano state la conseguenza necessitata dei mutamenti introdotti dalle leggi elettorali: l’elezione diretta del sindaco avrebbe comportato la necessità di modificare la legge elettorale regionale; da questo complesso di modifiche sarebbe, quindi, derivata l’esigenza di una riforma costituzionale, qual è appunto quella appena richiamata.

Il ragionamento, pur corretto, trascura tuttavia un aspetto importante: le modifiche originarie, quelle cioè relative alle leggi elettorali, sono state, a loro volta, la conseguenza di fenomeni più profondi.

È stata la necessità del federalismo e della devoluzione a richiedere una norma che responsabilizzasse gli amministratori locali di fronte ai propri elettori.

È stato questo processo a tracciare uno spartiacque tra la spinta che, come nel passato, tendeva ad omologare verso lo Stato centrale la forma di governo regionale e quella che si manifestava nell’esigenza di innovazione politica ed istituzionale.

Ed è stata quest’ultima alla fine a prevalere, come appare evidente, se si confronta la normativa elettorale locale con quella nazionale.

Lo scarto non solo è evidente, ma dimostra che il processo riformatore diventa incisivo e stabile solo quando tende a coniugarsi con gli interessi reali del paese. È allora che il disegno della modernizzazione cessa di essere un mero esercizio intellettualistico – ingegneristico, per produrre effetti reali e conseguenze permanenti sugli assetti istituzionali del paese.

Un ulteriore aspetto da considerare è quello del decentramento amministrativo realizzato a partire dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, che ha trasferito funzioni amministrative alle regioni ed agli enti locali. Con quel processo, si è osservato, si è andati oltre l’articolo 117 della Costituzione all’epoca vigente, determinando una frattura che per essere sanata ha richiesto una modifica di rango superiore. Tale impegno sarebbe stato rispettato con le recenti modifiche del titolo V della parte seconda della Costituzione, approvate al termine della XIII legislatura. Una simile tesi è tutt’altro che convincente. Senza voler minimamente entrare nella disamina di un processo estremamente complesso, come quello al quale si è fatto cenno, non si può dimenticare come l’accelerazione imposta a qual processo di riforma costituzionale non ha reso un buon servizio alla qualità normativa dell’intera legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

Ciò posto, il problema della copertura costituzionale della legge n. 59 del 1997 era effettivo. La legge n. 59 del 1997 è stata realizzata con il concorso attivo delle regioni e degli enti locali. Essa ha quindi un indubbio, anche se non esclusivo, contenuto pattizio, che costituisce un nucleo che va salvaguardato. Il suo limite è un altro: quello di aver attribuito ai poteri locali una serie di competenze e di funzioni, senza preoccuparsi di verificare preventivamente se le stesse potessero essere esercitate.

Il fatto è che nel trasferire queste funzioni non si è abbandonata del tutto una logica accentratrice, poichè è stato il legislatore nazionale a decidere quali funzioni trasferire ed in che modo tratteggiare il relativo disegno. Non sorprende, quindi, che in questo processo si sia trascurato proprio uno degli elementi centrali: l’effettiva possibilità da parte dei poteri locali di rispondere alle nuove attese.

Ancora una volta si è tentato di seguire una via già sperimentata in passato, nonostante il suo fallimento. Non si dimentichi che con il decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977 furono provvisoriamente assegnate alle regioni competenze e funzioni che debordavano rispetto alle loro effettive capacità amministrative. Si aspettò quindi la loro implosione, per procedere dopo ad un nuovo accentramento legislativo ed amministrativo. Anche allora le cose sarebbero andate diversamente, se si fosse seguito il metodo del gradualismo. Naturalmente anche in quegli anni si svolse una qualche trattativa, ma il fatto non deve fuorviare. Essa avvenne tra soggetti dotati di una diversa forza contrattuale. Si risolse in un patto tra uno Stato centrale, da una parte, e poteri fragili dall’altra: più strutture burocratiche, che non veri centri, come oggi sono diventati, di rappresentanza politica delle regioni. Poteri, poi, che non avevano maturato una propria filosofia, che non vedevano nella devoluzione di poteri l’affermazione del principio di sovranità, che a sua volta resta tale solo se ha la forza dell’effettività. Se è in grado, innanzi tutto, di individuare autonomamente le proprie priorità e su queste sagomare l’esercizio delle proprie funzioni e delle proprie competenze.

La scelta complessiva operata con il disegno di legge costituzionale si incentra sulle esigenze primarie indicate dalle regioni e sulla attribuzione della potestà legislativa esclusiva in alcune materie essenziali. Si tratta in primo luogo delle materie della sicurezza, della sanità e della scuola, per le quali è riconosciuta la attivazione, da parte di ciascuna regione, della propria competenza legislativa esclusiva.

La devoluzione alle Regioni di queste materie configura il nucleo essenziale di quello Stato (davvero) federale, che si intende costruire nel tempo, con gradualismo e secondo un progetto lineare, che si articolerà in una serie di fasi successive, a partire dalla modifica della composizione dell’organo di giustizia costituzionale e dalla riforma del sistema parlamentare bicamerale.

Sono dunque coinvolte le competenze più direttamente collegate alla natura dell’ente regionale ed all’esigenza di un più stretto raccordo tra l’ente che esercita il potere ed il cittadino.

Per quanto riguarda la sicurezza dei cittadini è necessario che l’azione di contrasto sul territorio veda un ruolo più diretto ed incisivo dei poteri locali ed in primo luogo delle regioni. L’obiettivo è di rendere più efficace l’azione di prevenzione e repressione dei cosiddetti «piccoli crimini» che, specie per i meno abbienti, sono il pericolo maggiore e rappresentano in realtà dei «grandi crimini». Tale obiettivo può essere perseguito non solo utilizzando meglio la polizia locale, ma coordinando questi sforzi con quelli quotidianamente realizzati dagli altri corpi dello Stato, che vanno raccordati più strettamente con il territorio. L’azione di contrasto, infatti, per risultare efficace non può non ispirarsi ad una strategia unitaria e ad una maggiore conoscenza del teatro di operazione.

I poteri locali ed in primo luogo quelli regionali devono, pertanto, nel proprio ambito territoriale, poter partecipare a pieno titolo al relativo coordinamento, contribuendo a definire le specifiche forme di intervento. Il fenomeno criminale non è mai un fatto esclusivamente tecnico, le sue determinanti sono anche storico-sociali. Non sono, quindi, uniformi sul territorio nazionale e, di conseguenza, l’azione di contrasto non può essere decisa da un centro che, per forza di cose, non è in grado di misurarsi sempre e comunque con le singole specificità. Basterebbero queste brevi considerazioni, che attengono ad un minimo di fondata riflessione sociologica, per comprendere la forza di una devoluzione che è strumento non certo alternativo ma sussidiario all’azione di carattere nazionale.

Le modifiche proposte al testo costituzionale riflettono questa filosofia: alla regione, innanzitutto, spetta la competenza legislativa esclusiva relativamente alla polizia locale. Questi specifici sforzi organizzativi devono poi essere coordinati in un quadro più ampio in cui azione repressiva ed azione preventiva devono bilanciarsi e fondersi reciprocamente. Tutto ciò può verificarsi solo se tra gli apparati centrali e quelli locali nascono delle sinergie, se il dialogo e l’intesa si sostituiscono a fenomeni di concorrenza ed ai tentativi di primazia.

In materia di sanità, fuori dalla definizione dei diritti fondamentali attinenti alla prima parte della Carta costituzionale, che è e deve essere comunque salvaguardata, è riconosciuta la competenza legislativa esclusiva di ciascuna regione, che sarà libera di disciplinare e organizzare le strutture della cui efficacia risponderà direttamente davanti ai propri cittadini. Il modello di sanità non può essere deciso dal centro, nè valere per tutte le regioni. Si pensi solo alla diversità degli andamenti demografici, che caratterizzano le diverse realtà locali e che legittimano soluzioni e modelli di organizzazione sanitaria non omologhi.

Ad esempio, le zone con una prevalenza di terziario si caratterizzano in modo ben diverso da quelle a forte vocazione industriale. Non è solo il tipo di produzione, con le connesse malattie professionali, ad influenzare l’organizzazione sanitaria; sono i «tempi» diversi di ciascuna zona, sono le caratteristiche più generali del territorio.

In materia di istruzione e formazione, la legislazione statale dovrà definire esclusivamente le norme generali quali: l’ordine degli studi, gli standard di insegnamento, le condizioni per il conseguimento e la parificazione dei titoli di studio. Le regioni dovranno, invece, curare l’organizzazione scolastica, strutturare l’offerta dei programmi educativi, garantire la gestione degli istituti scolastici. L’obiettivo della riforma è quello di realizzare il massimo di libertà di insegnamento e, in ultima analisi, di accelerare il processo di modernizzazione del paese di cui l’istruzione e la formazione sono pilastri fondamentali. In un’epoca in cui l’innovazione tecnica e scientifica rappresenta il principale motore della crescita, disporre di un serbatoio di intelligenze significa guardare al futuro con minori apprensioni. È questa la considerazione di carattere generale che spinge a realizzare il massimo sforzo affinchè il sistema formativo produca i suoi effetti.

Pare difficile sostenere che sia meglio perseguire una scelta uniforme su tutto il territorio nazionale. È sufficiente infatti considerare i tempi di trasmissione degli impulsi provenienti dalla società verso i centri decisionali. Prima che questi raggiungano i luoghi deputati, superando ostacoli burocratici e resistenze, e che si addivenga a conseguenti decisioni, la realtà sociale sarà, con ogni probabilità, nuovamente cambiata e reclamerà nuove priorità. Ecco perchè tutti i tentativi di riforma compiuti in questi anni, anche quando si è cercato di copiare malamente quanto avveniva all’estero, si sono dimostrati fallimentari. Le soluzioni approntate, dopo un faticosissimo processo decisionale, erano già vecchie quando, finalmente, giungevano ad un passo dall’attuazione. Questi limiti sistemici si possono superare utilizzando la grande risorsa della sussidiarietà verticale, spostando il baricentro decisionale, avvicinandolo il più possibile alla realtà con cui interagire.

Per quanto riguarda più specificamente l’articolo del disegno di legge costituzionale, non si può non ricordare come da più parti siano state avanzate alcune riserve sul testo della legge costituzionale n. 3 del 2001, sulla scorta delle quali tale legge è stata considerata: inadeguata perchè non corrispondente alle esigenze reali delle autonomie; inutilmente complicata, nell’intreccio di competenze e funzioni, con il rischio di fenomeni di deresponsabilizzazione istituzionale e politica; lesiva, per alcuni aspetti, del principio di sovranità popolare.

Tuttavia, pur prendendo atto dei suddetti rilievi riferiti alla legge costituzionale n. 3 del 2001, non si può che procedere oltre, secondo il cammino già delineato alla vigilia del referendum del 7 ottobre 2001, tenendo conto delle modifiche introdotte da quella legge costituzionale.

L’articolo di cui si compone il progetto costituisce dunque il nucleo dell’avvio di una fase federalista del nostro ordinamento, in grado di valorizzare le nostre istituzioni attraverso il potenziamento, in primo luogo, delle istituzioni regionali. La rilevanza del ruolo delle autonomie, evidenziata già dall’articolo 5 della Costituzione, trova nell’articolo 117 sempre maggiore conferma e articolazione specifica.

Con l’attribuzione della competenza esclusiva e con la soluzione adottata si tende, fondamentalmente, a parificare la funzione legislativa regionale alla funzione legislativa statale, con l’effetto che esse risultano sottoposte ad un analogo regime giuridico, secondo cui entrambe trovano fondamento, criteri di indirizzo e limiti esclusivamente nella Costituzione e nelle leggi costituzionali. La legge dello Stato e quella della regione partecipano così della stessa natura, essendo espressione di volontà generale ciascuna nel proprio ambito. La legge regionale viene così sottratta, per alcune materie, alla condizione di atto di integrazione (se non di attuazione) della legge statale, cui nella passata esperienza è stata spesso relegata.

La attivazione da parte delle regioni della propria competenza esclusiva per alcune materie essenziali espressamente indicate costituisce pertanto lo snodo fondamentale del progetto, una sorta di rivoluzione copernicana che riconosce potestà legislativa esclusiva alle regioni che autonomamente – e non per determinazione imposta – eserciteranno il potere loro attribuito dalla Costituzione.
Lo schema normativo è imperniato sulla attivazione da parte della regione della propria competenza legislativa esclusiva nelle seguenti materie:

– assistenza e organizzazione sanitaria;
– organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione;
– definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione;
– polizia locale.

Quanto alla prima materia per cui potrà essere attivata la competenza legislativa esclusiva delle regioni (assistenza e organizzazione sanitaria) è da sottolineare che essa è diretta a ricomprendere in tale competenza tutte le dimensioni della tutela sanitaria, ivi compresa l’assistenza ospedaliera. La formulazione prescelta, grazie al richiamo ai princìpi costituzionali e dunque anche alle disposizioni contenute nella prima parte della Costituzione, non mette in dubbio l’intervento legislativo dello Stato per la fissazione dei livelli minimi ed essenziali delle prestazioni e di tutela del cittadino. Lo Stato potrà altresì intervenire sui grandi temi che costituiscono diretta derivazione del principio di tutela della salute di cui all’articolo 32 della Costituzione.

La peculiarità ed il rilievo della materia sanitaria nell’ambito delle competenze legislative esclusive della regione corrisponde all’opinione diffusa secondo cui essa «costituisce qualcosa di completamente diverso rispetto all’amministrazione di altri settori, e il non prenderne atto nella Costituzione potrebbe avere una ricaduta deleteria: le eccezioni al modello di struttura autonomista che si devono introdurre per tenere conto delle particolarità del Servizio sanitario nazionale finirebbero per essere dei cavalli di Troia che si prestano a interferenze in altri settori, proprio perchè sarebbero espresse in formule generali come tali suscettibili di essere estese all’infinito» (Mor).

Per quanto riguarda la materia dell’istruzione, le regioni potranno attivare la loro potestà esclusiva per gli aspetti organizzativi e gestionali come pure per la programmazione di specifico interesse regionale. Pertanto, una volta attribuita alle regioni la competenza esclusiva in materia di programmazione di loro specifico interesse, spetterà allo Stato assicurare l’omogeneità complessiva degli studi, in maniera da contemperare i «saperi» comuni a tutto il territorio con i «saperi» e le tradizioni locali.

Come già sottolineato, in tale contesto residuerà comunque allo Stato, in applicazione di quanto già previsto nella prima parte della Costituzione e dell’articolo 117, secondo comma, lettera n), in materia di norme generali sull’istruzione, la definizione dei tratti fondamentali del sistema, quali gli ordini di studio, gli standard di insegnamento, le condizioni per il conseguimento e la parificazione dei titoli di studio.

Infine, per quanto concerne la polizia locale, le regioni potranno disciplinare in via esclusiva ed in modo più puntuale, efficace e corrispondente alle esigenze concrete sul territorio, gli interventi di prevenzione e repressione dei cosiddetti «piccoli crimini». Come già ricordato, l’amministrazione regionale, più vicina ai cittadini e quindi pronta a coglierne le esigenze ed i bisogni più immediati in relazione ai disagi determinati dalla microcriminalità, saranno in grado di organizzare in maniera più efficace le attività di prevenzione, di presidio e di intervento sul territorio.

Si tratta di un complesso di materie per le quali si può parlare di avvio di una vera fase federalista del nostro sistema, una fase caratterizzata da flessibilità nel funzionamento e dal principio di responsabilizzazione dei diversi livelli di governo.

La flessibilità, infatti, consiste nella possibilità della differenziazione.

Troppo spesso, invece, viene obiettato che l’attribuzione di potestà esclusive alle regioni rischia di determinare disuguaglianze e fratture nel nostro sistema. In realtà, anche (e, per certi versi, soprattutto) a seguito della riforma del 2001, il nostro sistema è contraddistinto da una fitta rete di funzioni e competenze che ne assicurano e consolidano l’unitarietà.

Al contrario, l’argomento utilizzato in favore del principio di uguaglianza – che nessuno, evidentemente, ipotizza di mettere in discussione – confonde «uguaglianza» con «uniformità». In altri termini, l’uguaglianza formale viene anteposta all’uguaglianza sostanziale. Quest’ultima, invece, non può che essere ispirata dal principio di adeguatezza: rispetto alle necessità ed alle esigenze che vengono dal territorio, secondo le sue specifiche realtà e condizioni storico-sociali.

Il meccanismo predisposto, dunque, si distingue nettamente dalle disposizioni già vigenti circa le condizioni speciali di autonomia, realizzabili in base all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione. Infatti, il procedimento complesso introdotto da quella disposizione costituzionale realizzerebbe un regionalismo differenziato «calato dall’alto». Il Parlamento nazionale decide sulle forme speciali di autonomia, in via definitiva ed in ultima istanza, con legge da approvare a maggioranza assoluta. È un’ipotesi di valorizzazione delle autonomie, che segue peraltro una logica opposta (dall’alto verso il basso) rispetto al disegno di legge costituzionale che, caratterizzato da una direzione inversa (dal basso verso l’alto), interessa materie per le quali le ragioni delle autonomie, come già ricordato, sono più decisamente avvertite e, dunque, debbono trovare legittimazione diretta nella Costituzione.

Disegno di di legge.

Art. 1.
(Modifiche dell’articolo 117 della Costituzione)

1. Dopo il quarto comma dell’articolo 117 della Costituzione è inserito il seguente:

«Le Regioni attivano la competenza legislativa esclusiva per le seguenti materie:

a) assistenza e organizzazione sanitaria;
b) organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione;
c) definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione;
d) polizia locale».