Oggetto.
Leggi regionali - Competenza -
Costituzione della Repubblica.
Iniziativa
e relazione.
Presentato in data 26 Febbraio 2002;
annunciato nella seduta n.130 del 26 Febbraio 2002
Governativa - Berlusconi II
Onorevoli Senatori. – Prima di entrare
nel merito delle modifiche costituzionali proposte con il
presente disegno di legge costituzionale, occorre soffermarsi su
un problema di metodo, connesso con gli avvenimenti più
significativi della XIII Legislatura.
Quest’ultima, infatti, è stata
caratterizzata da tentativi molteplici nel corso dei quali si è
cercato, con risultati diversi, di incidere sul tessuto
costituzionale dell’ordinamento. Riflettere, quindi, su quanto
è avvenuto significa cercare di individuare il percorso più
giusto per realizzare quegli obiettivi di riforma e di
modernizzazione della nostra Carta fondamentale, che
costituiscono, ancora oggi, il nodo non risolto di una lunga
fase di transizione.
Occorre in primo luogo affrontare quella che, per usare le
parole del Presidente del Consiglio nell’esposizione
programmatica alle Camere, costituisce «la prima questione»:
la riforma federalista dello Stato, la devoluzione di poteri
effettivi di governo alle regioni.
È necessario ribadire, sempre richiamando le parole del
Presidente del Consiglio, che «la battaglia federalista ha
avuto il merito di porre il grande problema di decentrare poteri
e responsabilità effettivi in un contesto di equilibrio
territoriale tra nord e sud e di unità nazionale». Il nostro
federalismo, infatti, si fonda sui princìpi di autonomia e di
sussidiarietà.
«In materia di sanità, di istruzione e di sicurezza civile –
con la necessaria gradualità ma in tempi certi e coniugando
efficienza e solidarietà – intendiamo dunque imprimere una
svolta federalista alla macchina dello Stato, ridisegnando di
conseguenza intere sezioni architettoniche dell’edificio
pubblico».
È da ricordare come, fin dall’origine, la nostra Carta
fondamentale avesse un carattere «aperto», tale da consentire
all’impianto dei valori e dei princìpi fondamentali di
guidare un’evoluzione che va nella direzione di avvicinare
sempre di più le istituzioni alla realtà delle identità e
delle articolazioni territoriali. Questa era anche la volontà e
l’auspicio di Luigi Einaudi, la figura più eminente del
pensiero federalista italiano dopo Carlo Cattaneo.
Il disegno di legge costituzionale si muove lungo una linea che
è stata perseguita e sviluppata in un periodo tormentato, ma
che pure e nonostante le difficoltà è riuscita a produrre
qualche frutto. Se non fosse stato così non avremmo, oggi, nè
la riforma dei governi regionali (legge costituzionale 22
novembre 1999, n. 1), nè l’introduzione dei principi del
giusto processo nelle norme della giurisdizione (legge
costituzionale 23 novembre 1999, n. 2). Due riforme importanti,
che sono state il risultato del clima che abbiamo appena
evocato, ma che soprattutto sono state la conseguenza di una
corretta applicazione dell’articolo 138 della Costituzione.
Questo resta, nell’attuale fase, l’unico strumento utile e
praticabile per procedere lungo la via di una possibile riforma
costituzionale.
Come noto, il nostro ordinamento è strutturato in un sistema di
fonti che circoscrive l’ambito di efficacia normativa. Vincoli
e limiti derivano dalle «riserve» di vario tipo, che ne hanno
accompagnato l’evoluzione. Riserve a volte esplicite, quando
direttamente previste dalla normativa di rango superiore, altre
volte implicite: risultanti cioè dalla coerenza sistemica
dell’ordinamento in quanto tale. L’articolo 138 della
Costituzione non è estraneo a questa logica di carattere più
complessivo. I suoi limiti sono strettamente correlati alla sua
funzione, che è quella di adeguare le disposizioni
costituzionali alle trasformazioni della società italiana.
Questa è stata, almeno fino ad oggi, la curvatura che ha
segnato l’uso della norma «manutentiva», che i padri della
Carta costituzionale hanno delineato.
Queste brevi annotazioni ci consentono di cogliere alcuni
aspetti del più recente dibattito costituzionale
sull’argomento. Si è molto discusso sul cosiddetto carattere
incrementale del processo di riforma costituzionale, che
rappresenta la strategia a cui si è dovuto far ricorso, dopo il
fallimento degli approcci di carattere globale. È preferibile
invece usare il termine «gradualismo» del processo di riforma.
La differenza non è solo lessicale: nel primo caso, si resta
infatti confinati in un orizzonte esclusivamente giuridico, nel
secondo ci si apre verso un mondo più complesso, la cui
valutazione è presupposto necessario per soluzioni in grado di
resistere nel tempo.
Ma ciò che fa veramente la differenza nel proiettare queste due
impostazioni sul delicato terreno del federalismo è il rifiuto
di un approccio sostanzialmente giacobino. Nel primo schema,
infatti, è il legislatore nazionale che, seguendo le proprie
convenienze, prende l’iniziativa di avviare il processo
riformatore. Nel secondo, questo è soprattutto conseguenza di
una pressione che proviene dalla società, che il legislatore
nazionale deve interpretare e tradurre in norma. Lo farà,
decidendo le proprie strategie parlamentari, ma con un vincolo
di contenuto, che è la conseguenza della maturazione
intervenuta nel profondo della coscienza politica del paese.
Il gradualismo riformatore si è espresso in questi ultimi anni
in occasioni diverse ed esso non ha mai avuto una prospettiva
esclusivamente giuridica. Si prenda ad esempio la citata legge
costituzionale n.1 del 1999.
Si sostiene che queste nuove norme siano state la conseguenza
necessitata dei mutamenti introdotti dalle leggi elettorali:
l’elezione diretta del sindaco avrebbe comportato la necessità
di modificare la legge elettorale regionale; da questo complesso
di modifiche sarebbe, quindi, derivata l’esigenza di una
riforma costituzionale, qual è appunto quella appena
richiamata.
Il ragionamento, pur corretto, trascura tuttavia un aspetto
importante: le modifiche originarie, quelle cioè relative alle
leggi elettorali, sono state, a loro volta, la conseguenza di
fenomeni più profondi.
È stata la necessità del federalismo e della devoluzione a
richiedere una norma che responsabilizzasse gli amministratori
locali di fronte ai propri elettori.
È stato questo processo a tracciare uno spartiacque tra la
spinta che, come nel passato, tendeva ad omologare verso lo
Stato centrale la forma di governo regionale e quella che si
manifestava nell’esigenza di innovazione politica ed
istituzionale.
Ed è stata quest’ultima alla fine a prevalere, come appare
evidente, se si confronta la normativa elettorale locale con
quella nazionale.
Lo scarto non solo è evidente, ma dimostra che il processo
riformatore diventa incisivo e stabile solo quando tende a
coniugarsi con gli interessi reali del paese. È allora che il
disegno della modernizzazione cessa di essere un mero esercizio
intellettualistico – ingegneristico, per produrre effetti
reali e conseguenze permanenti sugli assetti istituzionali del
paese.
Un ulteriore aspetto da considerare è quello del decentramento
amministrativo realizzato a partire dalla legge 15 marzo 1997,
n. 59, che ha trasferito funzioni amministrative alle regioni ed
agli enti locali. Con quel processo, si è osservato, si è
andati oltre l’articolo 117 della Costituzione all’epoca
vigente, determinando una frattura che per essere sanata ha
richiesto una modifica di rango superiore. Tale impegno sarebbe
stato rispettato con le recenti modifiche del titolo V della
parte seconda della Costituzione, approvate al termine della
XIII legislatura. Una simile tesi è tutt’altro che
convincente. Senza voler minimamente entrare nella disamina di
un processo estremamente complesso, come quello al quale si è
fatto cenno, non si può dimenticare come l’accelerazione
imposta a qual processo di riforma costituzionale non ha reso un
buon servizio alla qualità normativa dell’intera legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
Ciò posto, il problema della copertura costituzionale della
legge n. 59 del 1997 era effettivo. La legge n. 59 del 1997 è
stata realizzata con il concorso attivo delle regioni e degli
enti locali. Essa ha quindi un indubbio, anche se non esclusivo,
contenuto pattizio, che costituisce un nucleo che va
salvaguardato. Il suo limite è un altro: quello di aver
attribuito ai poteri locali una serie di competenze e di
funzioni, senza preoccuparsi di verificare preventivamente se le
stesse potessero essere esercitate.
Il fatto è che nel trasferire queste funzioni non si è
abbandonata del tutto una logica accentratrice, poichè è stato
il legislatore nazionale a decidere quali funzioni trasferire ed
in che modo tratteggiare il relativo disegno. Non sorprende,
quindi, che in questo processo si sia trascurato proprio uno
degli elementi centrali: l’effettiva possibilità da parte dei
poteri locali di rispondere alle nuove attese.
Ancora una volta si è tentato di seguire una via già
sperimentata in passato, nonostante il suo fallimento. Non si
dimentichi che con il decreto del Presidente della Repubblica n.
616 del 1977 furono provvisoriamente assegnate alle regioni
competenze e funzioni che debordavano rispetto alle loro
effettive capacità amministrative. Si aspettò quindi la loro
implosione, per procedere dopo ad un nuovo accentramento
legislativo ed amministrativo. Anche allora le cose sarebbero
andate diversamente, se si fosse seguito il metodo del
gradualismo. Naturalmente anche in quegli anni si svolse una
qualche trattativa, ma il fatto non deve fuorviare. Essa avvenne
tra soggetti dotati di una diversa forza contrattuale. Si
risolse in un patto tra uno Stato centrale, da una parte, e
poteri fragili dall’altra: più strutture burocratiche, che
non veri centri, come oggi sono diventati, di rappresentanza
politica delle regioni. Poteri, poi, che non avevano maturato
una propria filosofia, che non vedevano nella devoluzione di
poteri l’affermazione del principio di sovranità, che a sua
volta resta tale solo se ha la forza dell’effettività. Se è
in grado, innanzi tutto, di individuare autonomamente le proprie
priorità e su queste sagomare l’esercizio delle proprie
funzioni e delle proprie competenze.
La scelta complessiva operata con il disegno di legge
costituzionale si incentra sulle esigenze primarie indicate
dalle regioni e sulla attribuzione della potestà legislativa
esclusiva in alcune materie essenziali. Si tratta in primo luogo
delle materie della sicurezza, della sanità e della scuola, per
le quali è riconosciuta la attivazione, da parte di ciascuna
regione, della propria competenza legislativa esclusiva.
La devoluzione alle Regioni di queste materie configura il
nucleo essenziale di quello Stato (davvero) federale, che si
intende costruire nel tempo, con gradualismo e secondo un
progetto lineare, che si articolerà in una serie di fasi
successive, a partire dalla modifica della composizione
dell’organo di giustizia costituzionale e dalla riforma del
sistema parlamentare bicamerale.
Sono dunque coinvolte le competenze più direttamente collegate
alla natura dell’ente regionale ed all’esigenza di un più
stretto raccordo tra l’ente che esercita il potere ed il
cittadino.
Per quanto riguarda la sicurezza dei cittadini è necessario che
l’azione di contrasto sul territorio veda un ruolo più
diretto ed incisivo dei poteri locali ed in primo luogo delle
regioni. L’obiettivo è di rendere più efficace l’azione di
prevenzione e repressione dei cosiddetti «piccoli crimini»
che, specie per i meno abbienti, sono il pericolo maggiore e
rappresentano in realtà dei «grandi crimini». Tale obiettivo
può essere perseguito non solo utilizzando meglio la polizia
locale, ma coordinando questi sforzi con quelli quotidianamente
realizzati dagli altri corpi dello Stato, che vanno raccordati
più strettamente con il territorio. L’azione di contrasto,
infatti, per risultare efficace non può non ispirarsi ad una
strategia unitaria e ad una maggiore conoscenza del teatro di
operazione.
I poteri locali ed in primo luogo quelli regionali devono,
pertanto, nel proprio ambito territoriale, poter partecipare a
pieno titolo al relativo coordinamento, contribuendo a definire
le specifiche forme di intervento. Il fenomeno criminale non è
mai un fatto esclusivamente tecnico, le sue determinanti sono
anche storico-sociali. Non sono, quindi, uniformi sul territorio
nazionale e, di conseguenza, l’azione di contrasto non può
essere decisa da un centro che, per forza di cose, non è in
grado di misurarsi sempre e comunque con le singole specificità.
Basterebbero queste brevi considerazioni, che attengono ad un
minimo di fondata riflessione sociologica, per comprendere la
forza di una devoluzione che è strumento non certo alternativo
ma sussidiario all’azione di carattere nazionale.
Le modifiche proposte al testo costituzionale riflettono questa
filosofia: alla regione, innanzitutto, spetta la competenza
legislativa esclusiva relativamente alla polizia locale. Questi
specifici sforzi organizzativi devono poi essere coordinati in
un quadro più ampio in cui azione repressiva ed azione
preventiva devono bilanciarsi e fondersi reciprocamente. Tutto
ciò può verificarsi solo se tra gli apparati centrali e quelli
locali nascono delle sinergie, se il dialogo e l’intesa si
sostituiscono a fenomeni di concorrenza ed ai tentativi di
primazia.
In materia di sanità, fuori dalla definizione dei diritti
fondamentali attinenti alla prima parte della Carta
costituzionale, che è e deve essere comunque salvaguardata, è
riconosciuta la competenza legislativa esclusiva di ciascuna
regione, che sarà libera di disciplinare e organizzare le
strutture della cui efficacia risponderà direttamente davanti
ai propri cittadini. Il modello di sanità non può essere
deciso dal centro, nè valere per tutte le regioni. Si pensi
solo alla diversità degli andamenti demografici, che
caratterizzano le diverse realtà locali e che legittimano
soluzioni e modelli di organizzazione sanitaria non omologhi.
Ad esempio, le zone con una prevalenza di terziario si
caratterizzano in modo ben diverso da quelle a forte vocazione
industriale. Non è solo il tipo di produzione, con le connesse
malattie professionali, ad influenzare l’organizzazione
sanitaria; sono i «tempi» diversi di ciascuna zona, sono le
caratteristiche più generali del territorio.
In materia di istruzione e formazione, la legislazione statale
dovrà definire esclusivamente le norme generali quali:
l’ordine degli studi, gli standard di insegnamento, le
condizioni per il conseguimento e la parificazione dei titoli di
studio. Le regioni dovranno, invece, curare l’organizzazione
scolastica, strutturare l’offerta dei programmi educativi,
garantire la gestione degli istituti scolastici. L’obiettivo
della riforma è quello di realizzare il massimo di libertà di
insegnamento e, in ultima analisi, di accelerare il processo di
modernizzazione del paese di cui l’istruzione e la formazione
sono pilastri fondamentali. In un’epoca in cui l’innovazione
tecnica e scientifica rappresenta il principale motore della
crescita, disporre di un serbatoio di intelligenze significa
guardare al futuro con minori apprensioni. È questa la
considerazione di carattere generale che spinge a realizzare il
massimo sforzo affinchè il sistema formativo produca i suoi
effetti.
Pare difficile sostenere che sia meglio perseguire una scelta
uniforme su tutto il territorio nazionale. È sufficiente
infatti considerare i tempi di trasmissione degli impulsi
provenienti dalla società verso i centri decisionali. Prima che
questi raggiungano i luoghi deputati, superando ostacoli
burocratici e resistenze, e che si addivenga a conseguenti
decisioni, la realtà sociale sarà, con ogni probabilità,
nuovamente cambiata e reclamerà nuove priorità. Ecco perchè
tutti i tentativi di riforma compiuti in questi anni, anche
quando si è cercato di copiare malamente quanto avveniva
all’estero, si sono dimostrati fallimentari. Le soluzioni
approntate, dopo un faticosissimo processo decisionale, erano già
vecchie quando, finalmente, giungevano ad un passo
dall’attuazione. Questi limiti sistemici si possono superare
utilizzando la grande risorsa della sussidiarietà verticale,
spostando il baricentro decisionale, avvicinandolo il più
possibile alla realtà con cui interagire.
Per quanto riguarda più specificamente l’articolo del disegno
di legge costituzionale, non si può non ricordare come da più
parti siano state avanzate alcune riserve sul testo della legge
costituzionale n. 3 del 2001, sulla scorta delle quali tale
legge è stata considerata: inadeguata perchè non
corrispondente alle esigenze reali delle autonomie; inutilmente
complicata, nell’intreccio di competenze e funzioni, con il
rischio di fenomeni di deresponsabilizzazione istituzionale e
politica; lesiva, per alcuni aspetti, del principio di sovranità
popolare.
Tuttavia, pur prendendo atto dei suddetti rilievi riferiti alla
legge costituzionale n. 3 del 2001, non si può che procedere
oltre, secondo il cammino già delineato alla vigilia del
referendum del 7 ottobre 2001, tenendo conto delle modifiche
introdotte da quella legge costituzionale.
L’articolo di cui si compone il progetto costituisce dunque il
nucleo dell’avvio di una fase federalista del nostro
ordinamento, in grado di valorizzare le nostre istituzioni
attraverso il potenziamento, in primo luogo, delle istituzioni
regionali. La rilevanza del ruolo delle autonomie, evidenziata
già dall’articolo 5 della Costituzione, trova nell’articolo
117 sempre maggiore conferma e articolazione specifica.
Con l’attribuzione della competenza esclusiva e con la
soluzione adottata si tende, fondamentalmente, a parificare la
funzione legislativa regionale alla funzione legislativa
statale, con l’effetto che esse risultano sottoposte ad un
analogo regime giuridico, secondo cui entrambe trovano
fondamento, criteri di indirizzo e limiti esclusivamente nella
Costituzione e nelle leggi costituzionali. La legge dello Stato
e quella della regione partecipano così della stessa natura,
essendo espressione di volontà generale ciascuna nel proprio
ambito. La legge regionale viene così sottratta, per alcune
materie, alla condizione di atto di integrazione (se non di
attuazione) della legge statale, cui nella passata esperienza è
stata spesso relegata.
La attivazione da parte delle regioni della propria competenza
esclusiva per alcune materie essenziali espressamente indicate
costituisce pertanto lo snodo fondamentale del progetto, una
sorta di rivoluzione copernicana che riconosce potestà
legislativa esclusiva alle regioni che autonomamente – e non
per determinazione imposta – eserciteranno il potere loro
attribuito dalla Costituzione.
Lo schema normativo è imperniato sulla attivazione da parte
della regione della propria competenza legislativa esclusiva
nelle seguenti materie:
– assistenza e organizzazione
sanitaria;
– organizzazione scolastica, gestione degli istituti
scolastici e di formazione;
– definizione della parte dei programmi scolastici e formativi
di interesse specifico della Regione;
– polizia locale.
Quanto alla prima materia per cui
potrà essere attivata la competenza legislativa esclusiva delle
regioni (assistenza e organizzazione sanitaria) è da
sottolineare che essa è diretta a ricomprendere in tale
competenza tutte le dimensioni della tutela sanitaria, ivi
compresa l’assistenza ospedaliera. La formulazione prescelta,
grazie al richiamo ai princìpi costituzionali e dunque anche
alle disposizioni contenute nella prima parte della
Costituzione, non mette in dubbio l’intervento legislativo
dello Stato per la fissazione dei livelli minimi ed essenziali
delle prestazioni e di tutela del cittadino. Lo Stato potrà
altresì intervenire sui grandi temi che costituiscono diretta
derivazione del principio di tutela della salute di cui
all’articolo 32 della Costituzione.
La peculiarità ed il rilievo
della materia sanitaria nell’ambito delle competenze
legislative esclusive della regione corrisponde all’opinione
diffusa secondo cui essa «costituisce qualcosa di completamente
diverso rispetto all’amministrazione di altri settori, e il
non prenderne atto nella Costituzione potrebbe avere una
ricaduta deleteria: le eccezioni al modello di struttura
autonomista che si devono introdurre per tenere conto delle
particolarità del Servizio sanitario nazionale finirebbero per
essere dei cavalli di Troia che si prestano a interferenze in
altri settori, proprio perchè sarebbero espresse in formule
generali come tali suscettibili di essere estese all’infinito»
(Mor).
Per quanto riguarda la materia dell’istruzione, le regioni
potranno attivare la loro potestà esclusiva per gli aspetti
organizzativi e gestionali come pure per la programmazione di
specifico interesse regionale. Pertanto, una volta attribuita
alle regioni la competenza esclusiva in materia di
programmazione di loro specifico interesse, spetterà allo Stato
assicurare l’omogeneità complessiva degli studi, in maniera
da contemperare i «saperi» comuni a tutto il territorio con i
«saperi» e le tradizioni locali.
Come già sottolineato, in tale contesto residuerà comunque
allo Stato, in applicazione di quanto già previsto nella prima
parte della Costituzione e dell’articolo 117, secondo comma,
lettera n), in materia di norme generali sull’istruzione, la
definizione dei tratti fondamentali del sistema, quali gli
ordini di studio, gli standard di insegnamento, le condizioni
per il conseguimento e la parificazione dei titoli di studio.
Infine, per quanto concerne la polizia locale, le regioni
potranno disciplinare in via esclusiva ed in modo più puntuale,
efficace e corrispondente alle esigenze concrete sul territorio,
gli interventi di prevenzione e repressione dei cosiddetti «piccoli
crimini». Come già ricordato, l’amministrazione regionale,
più vicina ai cittadini e quindi pronta a coglierne le esigenze
ed i bisogni più immediati in relazione ai disagi determinati
dalla microcriminalità, saranno in grado di organizzare in
maniera più efficace le attività di prevenzione, di presidio e
di intervento sul territorio.
Si tratta di un complesso di materie per le quali si può
parlare di avvio di una vera fase federalista del nostro
sistema, una fase caratterizzata da flessibilità nel
funzionamento e dal principio di responsabilizzazione dei
diversi livelli di governo.
La flessibilità, infatti, consiste nella possibilità della
differenziazione.
Troppo spesso, invece, viene obiettato che l’attribuzione di
potestà esclusive alle regioni rischia di determinare
disuguaglianze e fratture nel nostro sistema. In realtà, anche
(e, per certi versi, soprattutto) a seguito della riforma del
2001, il nostro sistema è contraddistinto da una fitta rete di
funzioni e competenze che ne assicurano e consolidano
l’unitarietà.
Al contrario, l’argomento utilizzato in favore del principio
di uguaglianza – che nessuno, evidentemente, ipotizza di
mettere in discussione – confonde «uguaglianza» con «uniformità».
In altri termini, l’uguaglianza formale viene anteposta
all’uguaglianza sostanziale. Quest’ultima, invece, non può
che essere ispirata dal principio di adeguatezza: rispetto alle
necessità ed alle esigenze che vengono dal territorio, secondo
le sue specifiche realtà e condizioni storico-sociali.
Il meccanismo predisposto, dunque, si distingue nettamente dalle
disposizioni già vigenti circa le condizioni speciali di
autonomia, realizzabili in base all’articolo 116, terzo comma,
della Costituzione. Infatti, il procedimento complesso
introdotto da quella disposizione costituzionale realizzerebbe
un regionalismo differenziato «calato dall’alto». Il
Parlamento nazionale decide sulle forme speciali di autonomia,
in via definitiva ed in ultima istanza, con legge da approvare a
maggioranza assoluta. È un’ipotesi di valorizzazione delle
autonomie, che segue peraltro una logica opposta (dall’alto
verso il basso) rispetto al disegno di legge costituzionale che,
caratterizzato da una direzione inversa (dal basso verso
l’alto), interessa materie per le quali le ragioni delle
autonomie, come già ricordato, sono più decisamente avvertite
e, dunque, debbono trovare legittimazione diretta nella
Costituzione.
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