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Pietro Ficarra – Dirigente del Comune di Limbiate
Il contrasto della povertà nei Piani di Zona
e l'esperienza del Reddito Minimo di Inserimento, 2002
L’istituto del Reddito Minimo di Inserimento, come è ormai noto agli operatori sociali, è stato introdotto in Italia in forma sperimentale con il decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237, che dava attuazione alla legge 27 dicembre 1997, n. 449, la Finanziaria di quell'anno. L’istituto veniva definito all’art. 1 come "misura di contrasto della povertà e dell'esclusione sociale attraverso il sostegno delle condizioni economiche e sociali delle persone esposte al rischio della marginalità sociale ed impossibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali al mantenimento proprio e dei figli". Lo stesso articolo aggiungeva che il reddito minimo di inserimento "è costituito da interventi volti a perseguire l'integrazione sociale e l'autonomia economica dei soggetti e delle famiglie destinatari, attraverso programmi personalizzati e trasferimenti monetari integrativi del reddito".
Il decreto legislativo disciplinava durata e obiettivi della sperimentazione, che sarebbe stata effettuata dai comuni (ne avrebbero avuto anche la titolarità), e inoltre le modalità di finanziamento, i requisiti e le modalità di accesso dei cittadini, gli obblighi dei destinatari degli assegni, le modalità di reintegrazione sociale, i controlli e le verifiche, la valutazione dell’esperienza. Il tutto in funzione dell'estensione della misura universalistica su scala nazionale. I comuni sul cui territorio sarebbe stato testato per gli anni 1999 e 2000 il nuovo istituto sono stati successivamente individuati con Decreto del Ministro per la Solidarietà sociale in un ristretto numero di 39, sparsi dal nord a sud della penisola, ma con grande prevalenza per le aree geografiche centro-meridionali. Come si sa tale numero è stato ulteriormente accresciuto con la proroga della sperimentazione per il biennio 2001-2002, secondo quanto previsto dalla Legge Finanziaria per il 2001.
Nei comuni che hanno effettuato in questi anni la sperimentazione l’istituto del Reddito Minimo di Inserimento ha dato esiti differenti, determinati in gran parte dalle assai diverse condizioni di partenza delle strutture organizzative municipali che la effettuavano e della rete dei servizi esistenti sul loro territorio. Nei comuni dove più solide erano le prime e più fitte, articolate e integrate erano le seconde la sperimentazione ha senz’altro dato esiti positivi sotto molteplici aspetti, mentre nei comuni già carenti di risorse organizzative e di servizi di rete la sperimentazione ha avuto non pochi aspetti problematici, in alcuni casi frutto di una applicazione discutibile delle regole della sperimentazione, ed esiti dal giudizio più incerto.
Il giudizio positivo sull'efficacia della sperimentazione e dello strumento, che qui si potrà leggere tra le righe non essendo lo scopo di questa esposizione, nasce soprattutto dalla pratica diretta, oltre che dallo scambio di esperienze fra operatori di alcuni comuni interessati, da echi di stampa circa gli esiti delle prime fasi della esperienza, dagli interventi, sparsi qui e là in seminari e convegni, di esperti e di taluni protagonisti di questa prova.
Primi giudizi sulla sperimentazione
Sugli esiti e sui giudizi si discute da più parti e alla fine del 2002 emergeranno certamente opinioni differenziate sul da farsi. Va detto subito che in verità non si è data a tutt’oggi la dovuta diffusione, nella sede istituzionale prevista, cioè il Parlamento, o attraverso i media, all'integrale Rapporto di valutazione degli istituti di ricerca, associati per l'occasione, che erano stati incaricati di verificare l'efficacia dell'istituto monitorando l’andamento della sperimentazione fino al 31.12.2000. Dico una cosa condivisa da molti, studiosi, operatori coinvolti o interessati, amministratori, parti sociali, se auspico anch'io la pubblicizzazione del Rapporto al più presto, così da permettere di farci fin d'ora un'idea più compiuta in materia. Si sono avute tuttavia di recente importanti valutazioni di ordine generale, espresse da protagonisti importanti. Sono stati infatti pubblicati su una delle maggiori riviste specializzate alcuni "stralci" del Rapporto annuale sulle politiche contro la povertà e l'esclusione sociale - Anno 2001", che riportano i risultati dell'indagine di verifica sulla prima sperimentazione del Reddito Minimo di inserimento nei 39 comuni originari.
Il Rapporto annuale, redatto dalla precedente Commissione di indagine ministeriale sull'esclusione sociale, presieduta da Chiara Saraceno, offre una rapida, ma anche efficace e stimolante, sintesi dei "principali risultati della valutazione in merito sia ai problemi organizzativi e gestionali, sia al modo in cui essa [sperimentazione] ha inciso sulle condizioni di vita e le strategie dei beneficiari" e auspica anch'esso la pubblicizzazione integrale del Rapporto di valutazione. La Commissione ha ritenuto comunque che sulla "potenziale efficacia" del Reddito Minimo di Inserimento la sperimentazione scaturita dal D. lgs. 237 abbia espresso nel complesso "segnali positivi". Anche nell’ambito di un seminario organizzato a febbraio da Ancitel Lombardia sul Reddito Minimo di Inserimento, ricercatori dell’IRS, l’istituto di ricerca milanese che ha contribuito al Rapporto di valutazione, hanno offerto le loro riflessioni, necessariamente sintetiche ma anch’esse vaste e articolate e ricche di spunti, e nella sostanza in linea con quelle della Commissione ministeriale.
Questi importanti giudizi, ancorché accompagnati dalla puntuale evidenza delle criticità, si aggiungono quindi autorevolmente a quelli che sono scaturiti in questi anni dalle singole esperienze, dalle quali nonostante la loro particolarità e specificità è stato per altro possibile trarre ragionamenti e considerazioni di ampia e generale portata. Si possono del resto esprimere tali considerazioni prescindendo in qualche modo da precise valutazioni quantitative e da analisi approfondite degli esiti della sperimentazione, per le quali occorrerebbe un più ampio decorso del tempo. In effetti anche prima dell'avvio, sulla base delle esperienze di analoghi strumenti adottati in molti paesi europei, poteva già essere espresso un giudizio di maggiore efficacia dell’istituto rispetto ai tradizionali strumenti di contrasto della povertà a disposizione nel nostro Paese. Ciò era particolarmente vero rispetto a tutte quelle misure di carattere assistenziale in uso presso i comuni italiani, in particolare rispetto a quegli istituti che, diversamente regolati da comune a comune, prevedevano l'erogazione di contributi in denaro rispetto a determinati situazioni di carenza di reddito delle famiglie, fosse essa momentanea o cronica.
Diffusione del Reddito Minimo di Inserimento
Sulla base del giudizio di sostanziale positività dello strumento sin qui sperimentato, adottati ovviamente i dovuti accorgimenti per affrontarne le criticità, si potrebbero senz’altro già utilizzare le pratiche concrete come "parametro" o "modello" per un'ampia diffusione nel nostro Paese dell’istituto come misura di contrasto della povertà. L’adozione, al di fuori della ristretta cerchia dei comuni che lo stanno sperimentando, del Reddito Minimo di Inserimento appare oggi del resto non solo possibile ma anche auspicabile. Si ha dappertutto nel nostro Paese la necessità che una misura universalistica, magari diversamente denominata, che di esso abbia le caratteristiche principali, ossia l’erogazione economica associata al ruolo attivo del beneficiario nell’ambito di un percorso di reintegrazione sociale, venga adottata anche al di là dalla sua possibile estensione a tutto il territorio nazionale per disposto normativo e della riconduzione ad essa degli "altri interventi di sostegno del reddito", così come previsto dal decreto legislativo 237/1998 e ribadito dalla Legge quadro 328/2000. L’attenzione che su di esso pone quest'ultima, e soprattutto il Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2001-2003, è infatti di per sé motivo di grande interesse verso l’introduzione dell’istituto in coloro che sono chiamati, a più livelli, a dare concreta attuazione al sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali. E l'interesse non può che divenire necessità di adozione diffusa laddove si intende programmare seriamente, all’interno dei Piani di zona, le attività necessarie per dare effettività ai "livelli essenziali" indicati dalla Legge quadro e dal Piano Nazionale, così da rendere realmente esigibili i diritti sociali.
Gli stralci del Rapporto pubblicati contengono oltre agli esiti dell'indagine di verifica anche diversi riferimenti alla necessità di pensare la misura del Reddito Minimo di Inserimento per ambiti territoriali idonei a garantirne l'efficacia, rimettendo quindi agli strumenti programmatori previsti dalla Legge Quadro 328 le iniziative necessarie a dare corpo ai livelli essenziali previsti dalla legge riguardo le misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito. In un sistema di interventi e servizi sociali che si comincia a definire in modo nuovo man mano che la Legge quadro trova attuazione, uno strumento come il Reddito Minimo di Inserimento offre in effetti l’opportunità ai comuni, singoli o associati negli ambiti territoriali, di mettere in campo misure di contrasto della povertà sicuramente più efficaci (e più eque) di quelle attualmente utilizzate, almeno per il fatto che accanto all’erogazione dei tradizionali "contributi" o assegni vengono attuati interventi finalizzati anche a promuovere la capacità individuale e il ruolo attivo dei beneficiari per la loro reintegrazione sociale. La sua introduzione non è tuttavia semplice e pone ai soggetti deputati all’attività di programmazione negli ambiti territoriali questioni molteplici e complesse che vanno adeguatamente affrontate se non si vuole vanificare il raggiungimento degli obiettivi. La diretta esperienza della sperimentazione torna allora di grande utilità per gli operatori, potendo offrire utili riflessioni operative a chi intende procedere sulla strada dell’adozione dello strumento.
Le relazioni che devono necessariamente intercorrere fra i Piani di zona e l’istituto del Reddito Minimo di Inserimento per la sua effettiva adozione come misura generale di contrasto della povertà sono proprio l’argomento di queste pagine e sono fatte oggetto di considerazioni che possono tornare utili per i decisori politici e gestionali. L'esperienza della sperimentazione, almeno per quello che mi riguarda, ha avuto di per sé grande significato anche a prescindere dagli esiti e dalla pubblicazione di rapporti ufficiali, talmente è stata ricca di spunti di riflessione e di stimoli all'approfondimento, e andrebbe condivisa fin d'ora, almeno mentre si predispongono o si cominciano ad attuare i Piani di Zona. Ritengo quindi di poter offrire qualche annotazione di cui tenere conto nell'adozione di una misura di contrasto della povertà simile al Reddito Minimo di Inserimento, non prima tuttavia di aver inquadrato, almeno a grandi linee, le relazioni che intercorrono fra l’istituto, la Legge quadro e il Piano Nazionale. Su queste relazioni e sulle loro implicazioni operative non ci si è soffermati a sufficienza da parte di coloro che hanno ragionato sulla Legge Quadro e anche da parte di coloro che sono preposti alla sua attuazione nelle regioni e nei comuni.
Contrasto della povertà e legge 328
L’istituto del Reddito Minimo di Inserimento si trova ad essere inserito oggi in un ordinamento significativamente diverso da quello del 1998. Il D. lgs. n. 237 che ne disciplinava all'epoca la sperimentazione, introduceva infatti a questo scopo l'istituto nel complesso degli interventi sociali, non ancora impostati a sistema, e la sua generalizzazione all'intero territorio nazionale era una prospettiva strettamente legata alla verifica dei risultati. Un successivo provvedimento avrebbe definito le modalità, i termini e le risorse per l'estensione dell'istituto del reddito minimo di inserimento come misura generale di contrasto della povertà. La sopravvenuta Legge Quadro, pur ribadendo all'art. 23 le condizioni della sua estensione, subordinandola sempre ai risultati della sperimentazione, definisce tuttavia l'istituto quale misura di contrasto della povertà e di sostegno al reddito "nell'ambito di quelle indicate all'articolo 22", cioè fra gli interventi che costituiscono "il livelli essenziali delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi", e che già oggi hanno quindi valore per tutto il territorio nazionale. A modificare ulteriormente il contesto normativo in cui può già trovare ampia diffusione l'istituto del Reddito Minimo di Inserimento ci ha poi pensato, come vedremo subito, il Piano Nazionale degli Interventi Sociali per il triennio 2001-2003, uno degli strumenti attuativi della Legge 328/2000, attraverso il quale, nello specifico, lo Stato esercita i suoi poteri di indirizzo e coordinamento e di regolazione delle politiche sociali. In esso è contenuto l'esplicito invito ad adottare un simile strumento anche prima della sua estensione e l'istituto è ricondotto agli obiettivi strategici di contrasto dell'esclusione sociale più volte indicati negli ultimi anni in sede europea. L'importanza di queste indicazioni è evidente, anche se non saranno sufficienti queste previsioni di legge e i richiami alle decisioni europee a dare diffusione da soli a questa misura, che per altro richiede ingenti risorse finanziarie e organizzative per essere applicata. E' tuttavia di grande rilievo il fatto che la sua adozione può (o deve?) oggi rientrare a pieno titolo nelle azioni concrete di politica sociale che i Piani di Zona definiscono a livello locale.
Sull'obbligatorietà dell'azione di contrasto della povertà non possono esserci dubbi. Come si può facilmente immaginare, fra i 39 comuni che hanno effettuato la sperimentazione nel biennio 1999-2000 e in quelli che si sono aggiunti successivamente il panorama delle misure assistenziali all'inizio della sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento era quanto mai ampio e diversificato, con alcuni enti che per altro non prevedevano alcun intervento di sostegno di natura economica. Questa differenziazione permane tuttora dal momento che molte delle misure di intervento economico preesistenti alla sperimentazione sono state mantenute, seppure con caratteristiche di una tantum e per situazioni particolari, anche in presenza dell'erogazione mensile dell'assegno previsto dalla normativa sul RMI. La grande varietà degli strumenti di aiuto dei nuclei familiari in difficoltà nel campione di comuni rifletteva ovviamente quella che esiste a livello di Paese, sia in questo campo che negli altri settori di intervento sociale. Anche allo scopo di tendere all'uniformità di trattamento dei cittadini, eliminando o riducendo al minimo le forti disuguaglianze, il legislatore ha emanato dopo tanti anni di attesa la Legge quadro, che ha introdotto principi di grande novità e posto obiettivi di estrema importanza, in primo luogo la "realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali", la promozione di "interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza" e la prevenzione, eliminazione o riduzione delle "condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia".
Per i principi della Legge Quadro che possono strettamente riguardare queste pagine, va in primo luogo sottolineato che essa definisce come universale diritto soggettivo la possibilità di beneficiare di prestazioni economiche, e di questo diritto Stato, Regioni e Comuni devono farsi garanti, assicurando i "livelli essenziali delle prestazioni", così da rendere esigibili i diritti sociali che la legge bene inquadra e definisce. I livelli essenziali da assicurare a tutti i cittadini comprendono, tra l’altro, "misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento", e quindi gli interventi economici messi fin ora in campo dai comuni come misura facoltativa cessano di essere discrezionali ed entrano a pieno titolo fra gli interventi che possiamo definire "obbligatori". I livelli essenziali vengono definiti dallo Stato, che nel Piano Nazionale degli interventi e dei servizi sociali indica le caratteristiche e i requisiti delle prestazioni sociali fondamentali, ed è sulla base di queste indicazioni e di quelle provenienti dalla Regione, che i Piani di zona, che sono lo strumento programmatorio attraverso i quali, per ambiti territoriali, i comuni agiscono, definiscono le prestazioni e i servizi sociali da erogare, le loro modalità organizzative, le forme di utilizzazione delle risorse disponibili, le priorità di intervento, gli obiettivi strategici e gli strumenti per la loro realizzazione.
Altro principio di rilievo di cui tenere conto è quello della priorità di accesso ai servizi e alle prestazioni. La Legge Quadro individua i soggetti che ne beneficiano, fra i quali sono espressamente indicati quelli "in condizione di povertà o con limitato reddito" e quelli con "difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro". Tali soggetti, soprattutto se assommano le due caratteristiche individuate dalla legge, sono nella sostanza del tutto simili a quelli destinatari della sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento. Spesso sono anche simili a quelli che in gran parte dei comuni italiani sono destinatari della miriade di interventi economici messi in campo.
Contrasto della povertà e Piano Nazionale degli interventi e dei servizi sociali
La Legge Quadro offre già quindi sufficienti indicazioni, ancorché di principio e non operative visto il suo carattere specifico, perché i comuni, titolari delle funzioni amministrative possano adottare in ogni ambito territoriale strumenti di intervento simili al Reddito Minimo di Inserimento, dal momento che contrasto della povertà e reinserimento nella vita sociale attiva sono ineludibili, ancorché difficili da perseguire, finalità del sistema integrato dei servizi. Queste indicazioni hanno trovato tuttavia ulteriore forza nel sopravvenuto Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2001-2003, che è intervenuto con inviti precisi in tale direzione, ponendo fra gli altri obiettivi anche quello di potenziare gli "interventi volti a contrastare la povertà" e a "restituire alle persone le capacità di condurre una vita con dignità"(obiettivo 3). Il Piano ha fatto per altro giusto riferimento alla necessità dell’Italia di "ottemperare alla raccomandazione europea del 1992 relativa all'impegno di ogni Paese a fornire a tutti i cittadini la garanzia di un livello minimo di risorse e prestazioni sufficiente a vivere conformemente alla dignità umana", ricordando che la lotta alla povertà e all'esclusione sociale è uno degli obiettivi strategici "ripetutamente indicati dal Consiglio Europeo, in particolare da quello dei 17 dicembre 1999 e quello del marzo 2000 a Lisbona, e ancora nell'accordo sull'agenda sociale europea approvata a Nizza nel novembre 2000". L’impegno che ciascun paese dell’Unione si è assunto è quello di predisporre un piano nazionale di contrasto alla povertà e di inclusione sociale che, secondo le indicazioni europee, deve muoversi lungo almeno quattro direttrici di sviluppo: 1) la promozione della partecipazione al lavoro e dell'accesso, da parte di tutti, alle risorse, ai diritti, ai beni e ai servizi; 2) la prevenzione dei rischi di esclusione; 3) l'azione a favore dei più vulnerabili; 4) la mobilitazione dell'insieme degli attori.
Nel Piano Nazionale viene messo naturalmente in evidenza il fatto che gli interventi di contrasto alla povertà riguardano innanzitutto "le politiche attive del lavoro e di sviluppo locale e le politiche formative" e, per certi versi, "anche le politiche di conciliazione tra partecipazione al mercato dei lavoro e responsabilità di cura familiare, nella misura in cui molta povertà è dovuta all'esclusivo impegno domestico delle madri, specie nel caso di famiglie con un solo genitore e nelle famiglie numerose". Il Piano non manca di conseguenza di sottolineare quanto sia importante che le politiche e le iniziative di sviluppo locale si pongano "obiettivi di contrasto e prevenzione della povertà individuando sia i soggetti potenzialmente più vulnerabili, sia gli strumenti più adatti a sostenerne le potenzialità". Vale del resto quanto ogni attore delle politiche sociali già sa, cioè che non si possono fare politiche sociali in senso stretto senza fare adeguate politiche della casa, del lavoro, della formazione, etc., perché molteplici sono i motivi per i quali si può cadere in povertà e altrettante devono essere le risorse e le occasioni per uscirne.
Proprio per offrire uno strumento capace di attivare molteplici risorse per uscire dalla povertà il Piano Nazionale conferma l’intenzione di estendere nel prossimo futuro il Reddito Minimo di Inserimento a tutto il territorio nazionale. In attesa tuttavia di questa estensione si invitano i governi locali a modificare già nel breve periodo "i propri sistemi di assistenza economica nella prospettiva di intervento prevista dal RMI: uniformità e chiarezza dei criteri di accertamento dei reddito, riferimento al bisogno e non alla appartenenza categoriale, orientamento alla valorizzazione delle capacità e potenzialità dei soggetti, sviluppo di forme di accompagnamento sociale in collaborazione con i diversi soggetti pubblici, non lucrativi e privati presenti sul territorio, inserimento di queste attività nei piani di sviluppo locale".
Sull’effettività dell'estensione dell’istituto permangono ovviamente incertezze legate all'avvicendamento governativo del 2001, ma sulla opportunità di considerare lo strumento come necessario da parte di chi deve definire le politiche locali, al di là degli inviti del Piano, non si dovrebbero nutrire molti dubbi. Sulla sua estensione e sul suo utilizzo come fondamentale ammortizzatore sociale peserà ovviamente in misura importante anche la disponibilità dello Stato a sostenerne l'onere finanziario, anche se il costo stimato dagli istituti verificatori, fra i 4.200 e i 6.000 miliardi di vecchie lire secondo i criteri di accesso, rappresenta un onere non insostenibile. A convincere molti decisori locali ad adottare misure simili al Reddito Minimo di Inserimento dovrebbe bastare tuttavia la considerazione che anche ricorrendo alle sole risorse oggi messe in campo dai comuni per gli interventi di natura economica e finalizzate solo ad alleviare le difficoltà del momento, in molte aree del Paese appare possibile dotarsi di questo strumento per contrastare la povertà e intervenire a favore di chi "non ha le risorse personali o le opportunità necessarie per essere economicamente autonomo".
Naturalmente sarebbe un bene se, finita la fase di sperimentazione, lo strumento del Reddito Minimo di Inserimento trovasse organica collocazione a livello nazionale nel sistema integrato dei servizi. Avere certezze normative e finanziarie gioverebbe non poco a lavorare dappertutto fin d'ora per contrastare seriamente la povertà. Allo stesso modo è auspicabile che le regioni ci mettano del proprio nel considerare opportunamente tale istituto nell'ambito delle fondamentali funzioni che sono loro affidate, sia per l'attuazione della Legge Quadro che in quelle che più ampiamente riguardano le politiche sociali. Di politiche coordinate non si può però fare a meno neanche a livello di ambito territoriale, là dove assume forma concreta il problema di assicurare i livelli essenziali previsti dalla legge e dal Piano Nazionale. Nei Piani di Zona qualunque strumento di contrasto della povertà individuato deve essere accompagnato da "politiche di sostegno e incentivazione alla formazione e alla riqualificazione, di facilitazione all'accesso all'abitazione per le famiglie a basso reddito, di facilitazione all'utilizzo dei servizi sociali, formativi e sanitari da parte di chi si trova in condizioni di particolare vulnerabilità" e quindi è opportuno che i governi locali definiscano le loro attività anche in questi campi, stabilendo gli obiettivi di medio e lungo termine rispetto alla situazione di partenza, in coerenza con l’adozione di un qualche istituto simile del Reddito Minimo di Inserimento.
Gli obiettivi che il Piano Nazionale si propone a livello di paese sono resi in maniera esplicita e coerente con la Legge quadro e con gli orientamenti dei Consiglio europeo: promuovere l'inserimento nei piani di zona delle azioni a contrasto della povertà; estendere e uniformare progressivamente le forme di sostegno al reddito di chi si trova in povertà; creare le condizioni organizzative e professionali necessarie per la messa a regime del Reddito Minimo di Inserimento; sviluppare forme di accompagnamento e di integrazione sociale personalizzate, mirate - ove possibile - al raggiungimento della autonomia economica; ridurre l'evasione scolastica.
Contrasto della povertà e Piani di Zona
Il richiamo ai Piani di Zona è forte e va ben al di là delle indicazioni di massima, dal momento che viene precisato cosa i piani dovranno necessariamente prevedere, ossia forme di collaborazione tra scuole e servizi sociali per prevenire l'evasione scolastica e sostenere la frequenza, servizi di accompagnamento sociale, razionalizzazione delle forme di sostegno al reddito esistenti, sperimentazione, "sotto la regia delle regioni", di "pacchetti di risorse" per le famiglie e gli individui in condizione di povertà (integrazione dei reddito, accesso gratuito ai trasporti, aiuti per il pagamento delle utenze e per l'acquisto di alcuni beni di consumo, ecc.); avvio di sperimentazioni di "contratti di inserimento" con i beneficiari di aiuti economici, rilevazione delle condizioni di povertà a livello locale. Interventi molteplici come si vede, e in diverse direzioni, che tuttavia, ritengo, devono trovare un modo per essere coordinati e tenuti insieme attraverso strumenti di programmazione e misure di attuazione concreta che garantiscano uniformità nell’ambito territoriale interessato. Lo strumento del Reddito Minimo di Inserimento è senz’altro l'istituto che maggiormente ha sperimentato insieme il contratto di inserimento, il sostegno al reddito e i servizi di accompagnamento, e può quindi prendersi ad esempio fin da subito come misura generale di contrasto della povertà, ovviamente con gli aggiustamenti che si possono ritenere necessari per meglio favorire il raggiungimento degli obiettivi specifici indicati in ogni piano di zona. La suggerita "razionalizzazione" dell'esistente ha a disposizione esperienze e modelli concreti.
Naturalmente per molti degli interventi indicati come necessari dal Piano Nazionale si tratterà di inserire nella programmazione dei Piani di Zona le prime fasi del loro avvio, magari in forma sperimentale, non potendosi immaginare che essi vadano a regime e possano trovare attuazione su tutto il territorio nazionale entro il 2003. L’adozione (e l'attuazione) dei Piani di Zona è cosa assai complessa, che oggi si trova nel Paese a diversi stadi di realizzazione, secondo le Regioni e in funzione degli strumenti di attuazione della Legge 328/2000 messi in campo finora. La loro adozione, per la quale il Piano Nazionale per altro scandisce per grandi fasi un processo che deve concludersi con la approvazione da parte dei soggetti che ne hanno la competenza, passa necessariamente attraverso una seria analisi dei bisogni del territorio e la ponderata determinazione delle "opportunità" da garantire ai cittadini, e ne dovrà discendere un articolato sistema di interventi e servizi da realizzare, valorizzando le risorse già esistenti e stimolando la crescita di quelle disponibili sul territorio. E’ quanto mai opportuno per altro che fin dall’inizio l’andamento dei processi e gli esiti siano monitorati e valutati, così da permettere una attenta lettura dell’efficacia e degli effetti delle azioni che si porranno in essere. L’adozione (e l’attuazione) dei Piani di Zona, fare complesso e articolato, richiede anche precise individuazioni delle modalità e delle responsabilità di gestione, dei soggetti responsabili del governo del sistema e della loro rappresentatività.
Questi cenni sui Piani di Zona, sui quali si è già spesa abbondante letteratura alla quale ovviamente si rimanda per ogni eventuale approfondimento, servono a introdurre il discorso sulle azioni necessarie per l’adozione al loro interno di uno strumento come il Reddito Minimo di Inserimento. La letteratura, e la pratica, laddove lo strumento del Piano di Zona (o simile) è documento programmatorio conosciuto e utilizzato, hanno già reso noti da tempo agli operatori percorsi, meccanismi e procedure per l'adozione di uno strumento di buona qualità. Il lettore mi perdonerà quindi le ovvietà avendo cura solamente di soffermarsi sugli aspetti specifici che riguardano lo strumento da adottare a contrasto della povertà. Molti suggerimenti e riflessioni sono comuni a quelli che si trovano nei citati "stralci". Lì scaturiscono da un'analisi che nonostante la sinteticità appare condivisibile, soprattutto dagli operatori che sul Reddito Minimo hanno lavorato in questi anni e che nei problemi e nelle opportunità evidenziate dalla Commissione ministeriale senz'altro possono riconoscersi. Essi tuttavia possono essere ancora arricchiti dalla diretta esperienza che nasce dall'aver operato in un servizio sociale comunale e le comuni riflessioni tornare quindi di utilità ai responsabili della programmazione dei nuovi ambiti territoriali.
Adozione del Reddito Minimo di inserimento come misura di contrasto della povertà
Non è superfluo forse che primo suggerimento sia quello di definire in maniera esplicita nel Piano di Zona le finalità e i principi ispiratori degli interventi di contrasto della povertà e dello strumento scelto a tale scopo. Certo senza enfasi, soprattutto perché si tratta in molti casi di dare attuazione a iniziative e misure nuove la cui efficacia occorre sperimentare, ma non sarà solo retorica se esse saranno sostenute con convinzione. Non possono mancare senz'altro come fondamento la lotta all’esclusione e l’integrazione sociale delle persone, l’opera di reinserimento tramite accompagnamento e l’assunzione di responsabilità dei destinatari degli aiuti economici, ma è opportuno che si tenga conto anche delle specifiche realtà locali, con l’indicazione di obiettivi ben individuati, di reale interesse seppure di portata generale, e meglio ancora se definiti chiaramente per il medio e il lungo periodo.
La determinazione degli obiettivi e dei percorsi necessari per il loro raggiungimento che ne segue deve necessariamente essere sviluppata sulla base di una attenta analisi dei bisogni e delle risorse esistenti nel territorio nel campo specifico della povertà e degli interventi assistenziali di natura economica. E' indispensabile utilizzare al meglio fin dall’inizio gli elementi di conoscenza in possesso dei singoli comuni, dell’ASL e degli altri organismi che intervengono nella definizione dei Piani di Zona. E' quindi molto importante che già nella stesura del primo documento venga ben definita l’istituzione, per l’ambito territoriale, del sistema informativo previsto dalla Legge Quadro, che in collegamento con quelli dei comuni e degli altri enti deve permettere di avere conoscenza, fra l'altro, del fenomeno locale della povertà e dei suoi molteplici aspetti e motivazioni. Non basta ovviamente avere consapevolezza solo di taluni fattori per attivare efficaci politiche di contrasto della povertà e quindi attraverso il sistema informativo si devono ottenere ampie informazioni sulle dimensioni degli interventi specifici messi già in campo dai comuni e da altri soggetti e sulla loro efficacia, sulle caratteristiche dei bisogni sociali e sull'intero sistema integrato degli interventi e dei servizi esistente, sulla disponibilità delle risorse finanziarie, e così via.
La conoscenza dei fenomeni nell'ambito territoriale appare quindi la prima necessità, ma essa è attualmente tutt'altro che approfondita e lo stato di partenza dei sistemi informativi di solito non è buono, se non per qualche eccezione. E’ cosa nota del resto che della povertà si ha spesso maggiore conoscenza nella sua dimensione nazionale che in quella locale. Se infatti a livello nazionale esistono dati aggregati in grado di soddisfare esigenze conoscitive in termini generali, lo stesso non può dirsi a livello comunale, mancando quasi sempre dati certi, sia quantitativi che qualitativi, proprio per la diffusa carenza in ambiti territoriali ristretti di sistemi informativi appropriati e di strumenti di analisi dei fenomeni. D’altronde, se non è possibile, a ogni livello, porsi obiettivi e determinare percorsi di possibile efficacia in mancanza di adeguate conoscenze, ciò è soprattutto vero per quanto riguarda i bisogni diversificati della popolazione povera, con la conseguenza di rendere difficili le possibili concrete risposte alle domande da essa provenienti. Non a caso fra le rilevanze più significative emerse subito in avvio della sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento c'è stata quella di ripensare (o pensare) gli strumenti per la rilevazione dei livelli di povertà a livello locale. Lo stesso Dipartimento degli Affari Sociali ha ben presto evidenziato la necessità di questi nuovi strumenti per "costruire una mappa aggiornata e dettagliata della povertà in Italia". Lo sforzo delle amministrazioni locali per sopperire alle croniche carenze dovrà essere rilevante. Quanto l'insufficienza dei dati e degli strumenti di analisi della povertà possa indurre in errore, e quindi pesare sull'attività di programmazione, sulla stima delle risorse finanziarie necessarie, sull'organizzazione che bisogna predisporre per approntare uno strumento come il Reddito Minimo di Inserimento, lo dimostra l'esempio delle due cittadine lombarde di Limbiate e Cologno Monzese inserite nella sperimentazione: si è rivelata veramente enorme, oltre l’80%, la differenza che è corsa fra la stima dei nuclei familiari potenziali fruitori dell'aiuto economico effettuata dall'Istat e il dato effettivo dei beneficiari a tre anni dall’inizio.
Accesso alla misura: residenza e calcolo dei redditi
Per l’avvio del ragionamento sui Piani di Zona è opportuno che l’attenzione venga posta sull’accesso alle prestazioni, a partire dalle condizioni economiche dei soggetti, dal momento che i criteri di accesso, soprattutto quelli economici, sono stati fonte di notevoli difficoltà per gli operatori della sperimentazione e di difformità nell'applicazione della misura. E’ quindi consigliabile che nei Piani vengano definite la soglia di povertà per l’intero ambito territoriale, cioè il limite economico che da diritto all’erogazione monetaria e agli interventi di integrazione, e le appropriate modalità per il suo calcolo. Tale definizione è di estrema importanza giacché ne discendono conseguenze decisive sia in termini di esigibilità dei diritti sia per il funzionamento e l’efficacia dello strumento che si intende utilizzare. La permanenza sotto la soglia di povertà determina un diritto soggettivo in capo al soggetto "povero" (il nucleo familiare quale beneficiario piuttosto che il singolo richiedente) che lo rende destinatario di erogazione di somme di denaro (assegni, contributi, etc.) e di misure di accompagnamento aggiuntive che ne favoriscono il suo reinserimento sociale. Andrebbe stabilito subito in modo chiaro a quale livello, regionale, comunale o di ambito, compete la fissazione delle regole generali che definiscono l'istituto, anche se le modalità di calcolo, di accertamento e di controllo vanno senz'altro regolamentate nei dettagli a livello di ambito territoriale.
Indipendentemente dalle modalità di gestione del sistema integrato, certamente assai diverse da regione a regione e probabilmente anche da ambito ad ambito all’interno degli stessi confini regionali, regole e principi riferiti al Reddito Minimo di Inserimento devono trovare nel Piano di Zona puntuale previsione, non solo in termini di indicazioni generali ma anche, per certi aspetti, operative riguardo alle azioni concrete da mettere in campo per evitare difformità di applicazione all’interno dell’ambito territoriale. I soggetti che saranno preposti alla loro attivazione e gestione avranno la necessità di confrontarsi con indicazioni puntuali quanto a norme, percorsi e obiettivi, sia per garantire l’applicabilità e l’efficacia delle misure adottate sia per permettere una seria valutazione dei risultati.
Il reddito è elemento determinante sia per l’accesso all’aiuto economico sia per la sua stessa quantificazione, essendo opportuno che l'erogazione monetaria avvenga in misura inversamente commisurata alla situazione economica del nucleo familiare piuttosto che in misura fissa. Sarebbe bene che trovassero una composizione l’esigenza di uniformità della soglia e dei criteri di accesso a livello di Paese e quella di considerazione delle specificità locali e del diverso costo della vita e sarebbe bene che anche le regioni contribuissero ovunque a definire in modo chiaro le caratteristiche di un reddito di "ultima istanza". Tutto questo organicamente inquadrato nei nuovi ruoli che lungo la strada del "federalismo" si sono venuti definendo per Stato, Regioni e Autonomie Locali. Finché questo non avviene, magari attraverso l'introduzione di parametri di differenziazione dopo aver stabilito un minimo nazionale, è assolutamente necessario che almeno i Piani di Zona si preoccupino, data per scontata l’uniformità di applicazione per l’intero ambito territoriale, di definire con attenzione non solo la soglia di "reddito" ma anche la sua composizione.
E' utile tenere conto delle specifiche condizioni di povertà del territorio, sicuramente assai differenti lungo la Penisola e a volte anche all'interno di singole regioni, ma occorre considerare gli obiettivi che si vogliono raggiungere e le risorse disponibili, aspetti su cui più avanti torneremo, senza esagerazioni che possono portare ad ampliare o restringere in misura eccessiva l’universo dei potenziali aventi diritto. La soglia di povertà deve essere stabilita in ogni caso in modo da non vanificare l’uso stesso dello strumento. Per soglie troppo basse si contengono i costi ma diminuisce l’efficacia dell’intervento di contrasto della povertà sotto il profilo delle capacità dei soggetti beneficiari di affrontare le difficoltà di sopravvivenza quotidiana. Soglie alte possono essere insopportabili sotto il profilo dei costi e scoraggiare il ruolo attivo dei beneficiari ad assumere impegni con senso di responsabilità.
La misura messa in campo non può non avere come carattere di fondo l'equità. Da più parti la soglia di reddito individuata per la sperimentazione del RMI è stata criticata come troppo bassa sotto diversi aspetti, ed è stata oggetto di riflessioni anche la scala di equivalenza sviluppata a partire da questa soglia e la composizione del reddito. Le opinioni che ho avuto modo di riscontrare in proposito sono quanto mai varie e quindi lascerei queste righe alla ulteriore riflessione dei responsabili dei Piani di Zona.
Ritengo comunque che si debba tenere conto necessariamente di alcuni punti fermi, il primo dei quali, di principio, va considerato nella prospettiva di estensione dell'istituto del Reddito Minimo di Inserimento e di riconduzione ad esso degli " altri interventi di sostegno del reddito, quali gli assegni e pensioni sociali", come recita sia il D. lgs. 237/1998 che la Legge Quadro. Non dovrebbe almeno esserci riduzione del valore di questi ultimi, a parità di condizioni personali e familiari, ad un'eventuale soglia di reddito stabilita al ribasso. Considerato che alla soglia corrisponde anche l'assegno base erogato, vale ovviamente anche il principio opposto delle pensioni minime, che a tale soglia non dovrebbero essere inferiori. Queste considerazioni vanno viste alla luce del dato attuale, cioè del fatto che mentre al momento dell'avvio della sperimentazione valore della soglia (e dell'aiuto economico) per l'accesso al Reddito Minimo di Inserimento per una persona sola e importo dell'assegno sociale erano di ammontare mensile pressoché simile, le varie finanziarie, compresa quella che avviava la sperimentazione, hanno innalzato l'importo dell'assegno a un valore che è oggi superiore di circa il 40% a quella soglia.
Di un'altra questione si dovrà tenere conto, cioè che mentre l'assegno è oggi destinato alle singole persone ultrasessantacinquenni, il reddito minimo di inserimento erogato viene calcolato secondo una scala di equivalenza e viene destinato in larga parte, secondo le risultanze della sperimentazione, a nuclei familiari con figli. Un ulteriore punto fermo, su cui ritornerà più avanti l'attenzione, deve essere quello della disponibilità finanziaria reale per il pagamento degli assegni, soprattutto se la misura deve essere sostenuta esclusivamente o in gran parte da risorse locali, solitamente assai rigide e coincidenti con la "spesa impegnabile", e ciò per evitare di costruire strumenti su fondamenta velleitarie e porre obiettivi irraggiungibili.
Importante quanto la determinazione della soglia di accesso è la puntuale definizione delle modalità di calcolo. Anche in questo caso principalmente per motivi equità e per non restringere o allargare in maniera inopportuna l'universo degli aventi diritto. Una prima, attenta, riflessione deve riguardare il concetto di "reddito", inteso questo nel senso ampio di situazione economica del nucleo familiare del richiedente, e soprattutto deve considerare la sua composizione. Cosa fare rientrare nel suo calcolo è fattore decisivo sotto molteplici aspetti. La sperimentazione ha mostrato che al di là delle norme che la regolavano, e "forzando" la legge, quasi tutti i comuni hanno introdotto elementi di calcolo non previsti allo scopo di rendere più facilmente applicabili le regole di accesso.
Tenuto conto che sono sempre possibili soluzioni diverse in assenza di previsioni normative cogenti, si pone in primo luogo l’alternativa fra due scelte di fondo per valutare la situazione economica del nucleo familiare, una che considera i soli flussi monetari in un determinato periodo e l’altra che tiene conto della complessiva situazione economica, comprensiva di elementi patrimoniali più o meno largamente intesi. Percorrere una opzione anziché l’altra, oltre che presupporre meditate considerazioni in via preventiva comporta profonde differenze applicative. La prima si differenzierebbe troppo in verità dal sistema di calcolo dell’ISEE che, seppure con modalità non sempre coerenti rispetto al modello proposto dalla legge 109/1998, è stato applicato in questi ultimi anni a diverse nuove misure assistenziali e viene sempre più diffusamente adottato per l'accesso alle prestazioni sociali agevolate. Anche al fine di non creare difformità di applicazione, ma anche per evidenti ragioni di maggiore equità, diviene quindi più facilmente applicabile la soluzione che privilegia la valutazione degli elementi patrimoniali accanto a quelli dei flussi monetari, avendo cura di stabilire congrue modalità di calcolo delle entrate da patrimonio.
Considerare anche i patrimoni è del resto la soluzione scelta per la sperimentazione del RMI, ma da essa si debbono trarre utili insegnamenti per evitare anche alcune rigidità. Talune norme del D. lgs. 327 prevedevano infatti l'esclusione dall'aiuto economico per coloro che avessero posseduto beni immobili tout court, con la conseguenza di escludere i possessori di beni assolutamente improduttivi e magari onerosi. Lo stesso per i possessori di conti bancari, arrivando al paradosso di non poter liquidare l'aiuto eventualmente concesso tramite accredito in banca. Il suggerimento è in questo caso di non considerare come impedimento all'accesso beni immobili di assai modesto valore commerciale, che non costituiscono per il nucleo familiare risorse effettive e attuali, e neppure potenziali dal momento che non è sulla loro vendita che si può costruire il reinserimento sociale dei soggetti in difficoltà. Lo stesso può dirsi per l'esistenza di un conto bancario inferiore a una certa soglia, sopra la quale solamente si può ritenere che il nucleo familiare debba dar fondo alle proprie risorse prima di accedere a misure assistenziali pubbliche. Per patrimoni in qualche modo significativi potrebbero in ogni caso essere applicate le regole ISEE e per la casa di abitazione, intesa in senso stretto, ritengo personalmente che debba essere esclusa dal computo dei beni che producono redditi.
Anche riguardo alle componenti del calcolo occorre usare ponderazione. Molti comuni hanno ad esempio ampliato il campo delle detrazioni, che secondo le regole stabilite riguardavano solo l'abbattimento del 25% per i redditi da lavoro dipendente, aggiungendo soprattutto il costo del canone di locazione o del mutuo, o altre spese fisse che incidono pesantemente sul reddito reale. Non è facile definire con precisione gli elementi di calcolo per giungere a una valutazione congrua ed equa della situazione economica, occorrendo trovare un equilibrio fra semplicità delle operazioni e complessità delle situazioni senza ricorrere a una casistica inesauribile. Se pare opportuno considerare l'onere per la casa, anche per non discriminare rispetto a chi essendo proprietario vive una condizione differente, occorre anche rifuggire da abbattimenti e riduzioni strane, tentazioni sempre facili, che non trovano giustificazioni nella logica dello strumento di contrasto della povertà, come ad esempio l'abbattimento di una quota dei redditi da pensione che taluni comuni hanno sperimentato. Ragionando sugli elementi e sulle modalità di calcolo occorre tenere conto che molti accorgimenti possono avere incidenza sulla soglia di accesso, e quindi sul numero dei soggetti potenziali fruitori della misura di contrasto e sull'entità della spesa da affrontare, che possono essere diversi, ad esempio, se si consente o meno l'abbattimento del costo del canone di locazione. Soprattutto però occorrerà tenere conto che aggravi o detrazioni del calcolo fanno sempre riferimento a dinamiche mutevoli, come potrebbe per esempio essere per le spese sanitarie ove il livello di assistenza in questo campo diventasse in futuro meno ampio. Il riferimento più importante per l'introduzione di utili accorgimenti, trattandosi di Piani di Zona, non può non essere dato in ogni caso che da quella che è la specifica realtà socioeconomica del territorio.
Particolare cautela va usata nella precisazione di quali entrate di natura "assistenziale" devono contribuire a definire la situazione economica del nucleo familiare. La normativa che disciplinava la sperimentazione disponeva che nel calcolo del reddito si tenesse conto "di qualsiasi emolumento a qualunque titolo percepito e da chiunque erogato", ma una tale dizione ha da subito posto una serie di problemi applicativi non indifferenti, accentuati man mano che il Governo introduceva nell'ordinamento nuovi istituti assistenziali come l'assegno di maternità per le donne meno tutelate, quello per le famiglie numerose, i contributi per i libri scolastici e quelli per gli affitti onerosi. Anche in questo caso non tutti i comuni che hanno effettuato la sperimentazione hanno tenuto lo stesso comportamento, ma in futuro sia a livello nazionale che di ambito territoriale, per evitare sperequazioni, occorrerà avere regole certe. A livello locale serve tenere conto che oltre agli emolumenti governativi il panorama degli interventi assistenziali si è arricchito negli ultimi anni di numerosi strumenti, spesso sperimentali, messi in campo da regioni, provincie e comuni, bonus, vouchers e contributi vari e a vario titolo. Ognuno di essi è basato su differenti presupposti e finalità, che necessitano di essere tenuti in debito conto al momento di stabilire cosa includere nel calcolo del reddito per definire la situazione economica di un nucleo familiare. Non ci si potrà esimere da trovare modalità di calcolo che definiscano senza equivoci uniformi situazioni di capacità reale di spesa per i bisogni essenziali, anch'essi individuati in modo inequivoco, considerati gli emolumenti percepiti al netto delle spese particolari utilizzate in detrazione dal reddito.
Sempre riguardo al calcolo del reddito la sperimentazione ha mostrato la necessità di utilizzare dati che permettano una valutazione "attuale" della situazione economica. Per quanto riguarda i flussi monetari non è scontato, e forse neanche saggio, l’utilizzo dei redditi ai fini IRPEF, lordi o netti che siano, se riferiti a un periodo di tempo troppo lontano dalla situazione che il nucleo familiare vive al momento di accedere all’aiuto economico. Si potrebbero utilizzare in alternativa strumenti diversi che "fotografano" in modo più attento le difficoltà del nucleo, ma questo naturalmente richiede una attenzione particolare all'affinamento degli strumenti di analisi della condizione economica.
Le attenzioni sull'accesso non devono riguardare solamente la soglia del reddito e le modalità di calcolo. Anche altri requisiti hanno impegnato notevolmente le Amministrazioni che hanno effettuato la sperimentazione, inducendole spesso a trovare soluzioni appropriate (e diverse) ai problemi che si sono presentati. Il requisito della residenza, correlato nella sperimentazione a una diversa durata minima secondo che il richiedente fosse cittadino italiano o proveniente da paesi extracomunitari, ne è l'esempio. Se da un lato infatti la legge voleva evitare che ci potesse essere la (improbabile) corsa alle iscrizioni anagrafiche per fruire dell'assegno mensile, dall'altro la richiesta di una residenza di lunga durata ha penalizzato notevolmente i cittadini extracomunitari, spesso in Italia da poco tempo e certamente più "mobili" degli italiani alla ricerca del lavoro quotidiano. I comuni hanno dovuto spesso rinunciare a intervenire in situazioni difficili con lo strumento del Reddito Minimo di Inserimento dal momento che le restrizioni all'accesso discendevano da una norma di legge.
L'oneroso vincolo della residenza di lunga durata si è riflesso anche sui soggetti senza fissa dimora, i quali appaiono esclusi dalla possibilità di accedere ai servizi, anche se è vero che la Legge Quadro e poi altri provvedimenti attuativi ne hanno fatto finalmente una "categoria" destinataria di significativi interventi, che però non sono ancora sufficienti, trattandosi in concreto quasi sempre di azioni in fase di avvio. E' utile quindi che nei Piani di Zona si consideri l'opportunità di sostituire il requisito della residenza con quella del domicilio, così da non escludere dalle azioni di contrasto della povertà soggetti a favore dei quali non sarebbe possibile intervenire a causa del loro status anagrafico. Si eviterebbe in questo modo di sacrificare il principio di universalità, messo in discussione da un certo numero di persone per le quali, in ragione delle loro condizioni particolari di cittadini e seppure in maniera residuale, non avrebbero valore i principi della Legge Quadro.
Accesso alla misura: i controlli
Così come è avvenuto nella sperimentazione, anche nell’adozione di uno strumento come il Reddito Minimo di Inserimento attraverso il Piano di Zona, dovrà porsi la questione degli strumenti di controllo del reddito e delle altre condizioni di accesso. Troppo differenziata, onerosa e incerta è stata l'azione dei comuni in questo campo per non dover far tesoro fin dall’inizio delle loro difficoltà e dei tentativi di soluzione. Va detto subito che in materia di controlli gli operatori non possono essere lasciati soli da chi riveste un ruolo decisorio o di organo istituzionale. Se, infatti, quelli sullo stato anagrafico hanno avuto sufficiente applicazione, i controlli sui redditi sono stati deficitari, laddove per altro c’è stata almeno l'intenzione di attivarli, soprattutto per la difficoltà di stipulare accordi fra Enti Locali e soggetti deputati alle azioni di riscontro, in primo luogo quelli dell’Amministrazione finanziaria. Tali accordi non possono essere fondati su lunghi ed estenuanti colloqui, magari telefonici, fra livelli operativi, ma devono essere coordinati e condotti almeno a livello di governo dell’ambito territoriale, e meglio ancora dovrebbero già trovare conclusione a livello governativo o regionale. Del resto le verifiche e i riscontri non sono un’attività opzionale per la pubblica amministrazione, dal momento che esistono norme rigorose e direttive puntuali, ancorché disattese in molte occasioni dagli uffici periferici dello Stato, che ne fanno un obbligo, senza dover scomodare il principio di collaborazione fra amministrazioni pubbliche. Decisivi appaiono in ogni caso tempi rapidi e sistematicità dei controlli, altrimenti il rischio è la loro assoluta inutilità.
La possibilità di un ampio ricorso all’autocertificazione ha senz’altro favorito una evoluzione positiva dei rapporti dei cittadini con gli uffici pubblici e lo stesso svolgimento delle attività amministrative connesse al Reddito Minimo di Inserimento ne ha avuto un considerevole beneficio in termini di speditezza nell’esame delle domande e nella assegnazione degli aiuti economici. Tuttavia è cosa nota che l’onere del controllo su dichiarazioni e autocertificazioni rappresenta, se svolto seriamente e non lasciato alla casualità, un notevole appesantimento per l'attività dei comuni, e ciò è avvenuto anche per quelli che hanno effettuato la sperimentazione, richiedendo per altro adeguate professionalità e attività di formazione specifica che in molti casi, specie per gli enti di minori dimensioni, erano del tutto assenti. Nei comuni più piccoli la sperimentazione ha messo in evidenza anche difficoltà "strutturali", con amministrazioni "in balia di comportamenti opportunistici" e non sempre in grado di far fronte a "pressioni". Anche di questi aspetti occorre tenere conto nei Piani di Zona quando si ragiona delle risorse umane necessarie e della struttura organizzativa più idonea per dare concreta realizzazione ad azioni e interventi efficaci.
Le difficoltà nei controlli possono rappresentare un sintomatico fattore di criticità del funzionamento della struttura organizzativa, anche perché le operazioni di riscontro devono essere effettuate per verificare il permanere delle condizioni che danno diritto ad accedere all’istituto. Non è infatti possibile considerare l’intervento monetario e quello di accompagnamento né come intervento a tempo determinato né come concessione pressoché definitiva, potendo essere la condizione di povertà del tutto provvisoria ma anche prolungata nel tempo. Fino a che perdurano le condizioni occorre garantire un reddito di ultima istanza e azioni di reinserimento, e quindi è necessario che gli operatori siano attrezzati anche rispetto a ripetuti controlli nella prospettiva di una prolungata continuità degli interventi a favore di uno stesso nucleo familiare.
Taluni comuni che hanno effettuato la sperimentazione hanno utilizzato forme di controllo invasive, anche oltre il limite del consentito, mettendo così in evidenza la necessità di conciliare efficacia dei controlli e liceità degli stessi. In qualche caso per fare emergere situazioni non dichiarate è stato invece usato il programma di reintegrazione concordato con i beneficiari, che prevedendo un fare impegnativo per diverse ore nella giornata o per un certo periodo di tempo ha reso incompatibile l'intervento con la continuità di un lavoro sommerso. Sono soprattutto i redditi non dichiarati o non accertabili infatti a porre maggiori problemi di uniformità di trattamento di soggetti sostanzialmente in condizioni differenti. L'atteggiamento da tenere da parte delle amministrazioni non può essere improntato a neutralità per molteplici motivi, ma è un rischio che tuttavia si corre nelle piccole realtà. Possono giovare alla verifica della situazione reale dei nuclei familiari anche le visite domiciliari degli assistenti sociali o i sopralluoghi della Polizia Municipale, strumenti utilizzati con frequenza un po' ovunque per osservare il tenore di vita, ma con l'accortezza di utilizzarli con prudenza riguardo al possesso di beni che si possono ritenere di "lusso", che devono essere la spia per effettuare controlli più attenti piuttosto che fattori di esclusione/inclusione rispetto al beneficio dell'aiuto economico.
Il livello di intervento e le forme di collaborazione fra comuni
Prima di definire i profili organizzativi della nuova misura è necessario che nei Piani di Zona venga stabilito il modello gestionale, modello che deve essere conseguente, o comunque compatibile, con le scelte effettuate per gli altri interventi e servizi. Per la gestione dei Piani di Zona sia la Legge Quadro che il Piano Nazionale, coerentemente con la loro natura, non stabiliscono né propongono alcuna forma istituzionale particolare. Varie sono quindi le esperienze in corso nel Paese e tanto più lo saranno nell'immediato futuro, determinate anche dal ruolo che i comuni e le regioni vogliono giocare nell'ambito delle loro competenze. Anche per una misura complessa di contrasto della povertà si può passare da modelli di governo centralizzato e fortemente strutturato per l'intero ambito territoriale a modelli che prevedono solo una sorta di coordinamento di interventi e di azioni la cui titolarità rimane assegnata a molti soggetti.
Il problema di dar vita alla migliore organizzazione possibile per una misura come il Reddito Minimo di Inserimento si porrà in ogni ambito territoriale, posto che questo venga sempre individuato secondo criteri di omogeneità territoriale e dimensioni idonee a una buona gestione. E' quanto meno difficile che si abbia una buona organizzazione se il livello decisionale iniziale (e quello successivo) di governo sono frammentati e soprattutto se la frammentazione dipende da uno strumento di programmazione debole, tale per le carenze dei provvedimenti attuativi della Legge 328 o, peggio, per le diffidenze delle amministrazioni a trasferire a livello di ambito territoriale parte delle proprie competenze e del proprio potere decisionale. Occorre quindi che il contesto in cui i Piani di Zona si muovono sia chiaro e completo negli strumenti, cosa che solamente il ruolo attivo e propulsore delle regioni può determinare. Occorre soprattutto grande apertura mentale in molti amministratori e dirigenti locali, perché si comprenda che senza guardare oltre i confini del territorio comunale non è possibile offrire ai propri cittadini più alti livelli nella qualità dei servizi.
Attualmente appare molto importante il ruolo delle regioni nel completare (o adottare) quell'insieme di provvedimenti attuativi previsti dalla Legge Quadro che permettano a chi deve effettuare le scelte organizzative di avere chiarezza negli indirizzi di fondo, anche se la decisione dei modelli gestionali è in ogni caso affidata ad accordi di programma fra i comuni. Non meno importante è tuttavia il contenuto dei Piani riguardo agli obiettivi di fondo di una misura generale di contrasto della povertà, così come si viene a formare attraverso il contributo di tutti i soggetti che partecipano alla sua definizione. Contesto e contenuti influenzano la scelta del modello organizzativo, con i suoi punti di forza e di debolezza, ma la scelta va ben ponderata perché rispetto agli esiti che si attendono dall'applicazione di una misura complessa la vera differenza la fa proprio il modello gestionale.
La possibilità di conseguire buoni livelli organizzativi, efficienza nella gestione amministrativa e reale fattibilità dei programmi di reinserimento è senz'altro maggiore nel caso di un unico soggetto titolare e gestore della misura di contrasto della povertà, sia esso consorzio fra comuni, azienda consortile, comune di medio-grande dimensione o altro, soprattutto se il soggetto governa anche gli altri interventi e servizi sociali dell'ambito territoriale. Si pongono infatti questioni di economie organizzative di scala, di garanzia dei livelli essenziali e di coordinamento delle politiche sociali che quanto meno portano a preferire una gestione "forte" della misura. L'esperienza della sperimentazione del RMI ha messo del resto in evidenza fin dall'inizio che le maggiori criticità riguardavano gli aspetti organizzativi nei centri medio-piccoli, soprattutto nel Meridione, laddove l'apporto di professionalità adeguate per numero e qualità e quello delle risorse di rete è solitamente inferiore alle altre realtà. Le difficoltà correlate alle ridotte dimensioni potrebbero poi essere ancora più evidenti nel caso di mancata estensione del Reddito Minimo di Inserimento da parte del Governo, dovendo le piccole amministrazioni fare i conti probabilmente con costi insostenibili in proprio.
Nel caso di ambiti territoriali cui afferiscono molti comuni di ridotte dimensioni potrebbe costituire una debolezza lasciare, ad esempio, nella disponibilità di ognuno di loro le funzioni regolative dell'accesso. Ancora peggio sarebbe se, per stare sugli esempi possibili, concordate regole e procedure a livello di ambito territoriale, intendendo in questo modo sufficientemente soddisfatta l'esigenza di uniformità, ogni comune dovesse organizzarsi per dare in proprio concreta attuazione alla misura, dalla pubblicizzazione al sistema informativo, dalla metodologia operativa alle azioni di reinserimento.
Vi sono economie organizzative di scala che evidentemente non possono essere trascurate neanche in un Paese in cui si continua ad assegnare o trasferire ai comuni funzioni trattando la metropoli come il piccolo borgo di montagna. Per poterle conseguire i comuni hanno diversi strumenti, alcuni recentemente introdotti nell'Ordinamento e più o meno collaudati, tutti comunque sperimentati e fatti oggetto di ampi approfondimenti anche nel caso di quelli più innovativi degli ultimi anni. Qualunque sia lo strumento organizzativo che si vuole utilizzare è tuttavia opportuno che sia unico il soggetto cui compete la definizione delle regole per applicare la misura nell'intero ambito territoriale, unico il soggetto che definisce gli obiettivi, le modalità e i tempi per il loro raggiungimento, unico il soggetto che gestisce la struttura operativa necessaria a dare concreta attuazione alla misura. E' decisamente opportuno per altro che lo strumento organizzativo, basandosi sul principio ormai diffuso (anche se spesso poco rispettato) di separazione, sia incentrato su due livelli, uno di indirizzo politico-amministrativo e di controllo e l'altro gestionale.
Le politiche sociali che devono necessariamente accompagnare la lotta alla povertà devono essere indicate nel Piano di Zona e stabilite a livello di governo dell'ambito. A livello di indirizzo politico devono essere individuati i soggetti destinatari della misura e i principali bisogni cui uno strumento come il Reddito Minimo di Inserimento deve rispondere per essere maggiormente efficace, posto che la povertà ha molte cause ma certamente alcune di esse incidono maggiormente. Sempre a livello di indirizzo politico vanno approvate le regole della misura, la sua durata minima, eventuali forme particolari di intervento, le risorse da rendere disponibili, l'eventuale accesso per graduatoria nel caso di risorse insufficienti, le modalità di garanzia dei diritti, e così via, avendo cura in sostanza di definire i contenuti che hanno effetto diretto sull'esigibilità dell'intervento e sulle modalità di attuazione, lasciando al soggetto di direzione della gestione il compito di organizzarsi al meglio per raggiungere i risultati prestabiliti.
L'organizzazione della misura
Il Piano Nazionale degli interventi sociali sollecita i soggetti decisori a "creare le condizioni organizzative e professionali necessarie per la messa a regime del Reddito Minimo di Inserimento" e in questa direzione il Piano di Zona deve offrire ogni utile indicazione per l’organizzazione della misura di contrasto della povertà, ovviamente tenuto conto della sua funzione programmatoria e senza giungere a definire i dettagli gestionali.
I Piani di Zona devono comunque definire con realismo i programmi di medio termine. Non è possibile inventare molto riguardo al Reddito Minimo di Inserimento e le condizioni di partenza saranno quelle che nei primi tempi determineranno inevitabilmente il quadro organizzativo. Considerata la diversificata realtà nazionale nei prossimi anni si avranno ancora nel Paese esperienze molto diverse nella lotta alla povertà, e soprattutto differenti livelli di assistenza, pur con la giusta tensione verso la necessità di garantire un intervento ritenuto essenziale.
Una delle prime questioni da risolvere riguarda l’opportunità o meno di creare uno specifico "ufficio RMI", con propri sportelli e personale, cui i cittadini possono rivolgersi avendone la necessità. Le risposte possono essere diverse ed è bene che esse facciano in ogni caso riferimento alla specificità dei vari ambiti territoriali.
Data la necessità di organizzare un servizio articolato che opera quotidianamente in rapporto con l'utenza, per definirne la struttura occorre tenere conto non solo delle interne esigenze di efficienza, ma anche di quelle dei cittadini, prima fra tutte la comodità di accesso agli uffici, strettamente correlata a orari di apertura e facilità negli spostamenti. Laddove l’ambito territoriale coincide con un solo comune o con comuni così vicini da mostrare una continuità urbana, può anche aversi un unico sportello, appositamente creato e magari avente sede presso la struttura organizzativa cui la misura fa capo, mentre dove per necessità l’ambito è stato costituito fra comuni lontani o comunque con difficoltà nella mobilità, è opportuno prevedere una pluralità di sportelli, appoggiati presso i municipi o altre agenzie, che magari possano utilizzare in tutto o in parte il personale che già vi opera per altre funzioni.
Riguardo alle esigenze dell'utenza è bene che il Piano di Zona dia ulteriori indicazioni oltre che quelle relative all'accesso. Altri fattori di qualità possono fare la differenza fra un nuovo servizio bene organizzato e uno percepito come approssimativo e magari vissuto dal personale che vi opera come un carico fastidioso. Buona accoglienza dell'utente, tempestività nell'esame della domanda, nei colloqui, nell'erogazione delle somme, concertazione con l'utente dei piani individuali di reinserimento, buona conduzione dei progetti di accompagnamento, sono tutti condizioni che incidono sull'efficacia della misura di contrasto e che vengono positivamente avvertite dai cittadini nel loro approccio con un ufficio pubblico che deve "assisterli".
Un altro dei punti di partenza da considerare nel Piano è quello delle risorse umane esistenti su cui si può contare a livello di ambito. Considerato che non è possibile organizzare una misura come il Reddito Minimo di Inserimento a costo zero riguardo al personale, come ampiamente dimostrato dalla sperimentazione in corso, la consapevolezza delle risorse professionali esistenti è importante. Essa non servirà solamente a definire quelle mancanti per una struttura organizzativa a regime, ma anche e soprattutto a disegnare il tipo di avvio che la misura può avere. All'inizio occorrerà basarsi innanzitutto sugli operatori in servizio, se non altro perché non si possono nel breve periodo sconvolgere i bilanci pluriennali dei comuni e i programmi che definiscono il fabbisogno di personale, soprattutto in una fase in cui anche la relativa spesa deve essere fortemente contenuta a seguito degli indirizzi governativi in materia (con buona pace per decentramento e federalismo). Né si intravedono per il momento a livello regionale intenzioni che vanno nella direzione di sostenere finanziariamente la messa a regime del Reddito Minimo di Inserimento. Non sarebbe per altro neanche possibile disporre in poco tempo di un numero adeguato di professionalità che garantiscano la corretta applicazione delle regole e una buona attivazione delle azioni di reinserimento.
La differenza delle condizioni di partenza può essere riscontrata anche fra le singole realtà di un ambito territoriale, e ciò può dare luogo a notevoli difficoltà nell'organizzazione della misura, che saranno tanto maggiori quanto più numerose saranno le realtà deboli. Diversi possono essere i motivi della debolezza - comuni di ridotte dimensioni o dissestati, organici dei servizi sociali carenti e professionalmente inadeguati, terzo settore e altre agenzie sociali strutturalmente inconsistenti, etc. - ma deciso deve essere il proposito dello strumento di programmazione nel sostenere le realtà più fragili. Anche se in un primo tempo i comuni meglio attrezzati daranno il loro fondamentale apporto nell'organizzazione della misura, a lungo andare non sarà possibile sopportare rilevanti differenze fra realtà diverse all'interno dell'ambito senza pesanti conseguenze sull'efficacia complessiva dell'intervento. Vanno quindi adottati gli opportuni accorgimenti per ovviare alle carenze e alle lacune nelle dotazioni di risorse umane, strumentali e finanziarie e nella rete di sostegno, assicurando in ogni caso reale parità di trattamento ai cittadini delle realtà più sfavorite.
Può contribuire ad attenuare le differenze, secondo le situazioni, una organizzazione che preveda il decentramento delle funzioni sul territorio, tenuto in debito conto che anche in questo caso la scelta di una soluzione organizzativa forte offre tuttavia maggiori opportunità di mettere in campo una misura efficace. E' bene quindi che gli operatori del Reddito Minimo di Inserimento che opereranno presso i vari comuni o altre sedi decentrate abbiano come riferimento funzionale l’organo di governo della gestione per l’intero ambito. Il Piano di Zona darà indicazioni su come disciplinare i rapporti funzionali, e anche quelli di lavoro, contribuendo a definire questioni importanti che, se irrisolte, in un sistema integrato, possono minare alla base le possibilità della rete istituzionale di essere efficiente. Non devono verificarsi differenze marcate nei livelli di efficienza ed efficacia fra gli "sportelli" dei diversi comuni, né fra gli operatori di un unico ufficio centralizzato, né possono aversi a regime, e possibilmente neanche in avvio, "zone" di territorio o di popolazione per le quali le azioni di reinserimento siano trascurate o poco significative.
Il funzionamento di una misura come il Reddito Minimo di Inserimento, se assicurato tramite i servizi sociali comunali esistenti, comporta quasi certamente per questi un profondo adeguamento delle metodologie operative solitamente utilizzate per gli interventi assistenziali tradizionali. Nella quasi totalità dei comuni l'erogazione di contributi aventi lo scopo di contrastare situazioni di disagio economico, correlati o meno a funzioni di minimo vitale, non è attualmente accompagnata da progetti di inserimento e formali impegni di un "fare" da parte del beneficiario. Come ha mostrato la sperimentazione, per la messa a regime del Reddito Minimo di Inserimento si ha la necessità non solo di potenziare gli organici a causa dei grossi carichi di lavoro aggiuntivi, ma anche di adattare o aggiornare regolamenti e indicazioni operative. I Piani di Zona non mancheranno quindi di suggerire ai servizi esistenti le necessarie innovazioni di natura procedimentale o, nel caso dell'istituzione di un servizio apposito, di dare indicazioni di massima in tal senso. Lo stesso non dovrebbero mancare di fare per quanto riguarda il sistema informativo e le principali caratteristiche che il processo di informatizzazione del servizio deve avere.
La gestione amministrativa
I Piani di Zona potrebbero lasciare ogni definizione degli aspetti gestionali al livello di management, oppure, come mi sento di suggerire, indicare tempi e metodi, obiettivi e risultati da perseguire, se non altro per due ragioni molto importanti. La prima è data dal fatto che, in assenza di indicazioni e trattandosi di una nuova misura, possono aversi attuazioni concrete assai differenti da quelle che il livello di governo della programmazione aveva immaginato, e la seconda, non meno importante, dalla concreta impossibilità di svolgere l'attività di verifica e di valutazione sotto il profilo dell'efficienza e dell'efficacia. La sfera gestionale senza indirizzi precisi si troverebbe inoltre in difficoltà di fronte ai probabili differenti approcci che riguardo alla misura si potrebbero avere nelle diverse realtà.
I Piani non si appesantiranno di dettagli ma non devono trascurare aspetti importanti. A cominciare dalle regole. A seconda della forma scelta per il governo del sistema integrato a livello di ambito territoriale e delle sue competenze, si potrà andare dall'approvazione in un unico momento da parte dell'organo di indirizzo politico di un Regolamento della misura alla necessità di molteplici approvazioni, magari in tempi differenti, da parte di ogni singolo comune, armonizzate o meno con modifiche ai regolamenti, spesso esistenti, che disciplinano attualmente l'erogazione di sussidi. E' bene che il Piano tenga conto della situazione esistente e di quella che si verrà a creare con l'adozione di una misura assistenziale universalistica, suggerendo, o imponendo a seconda delle circostanze, gli indispensabili adeguamenti al nuovo regime di intervento. Sarà particolarmente importante, fra l'altro, ragionare sul mantenimento o meno, a fianco del Reddito Minimo di Inserimento, di misure di intervento una tantum, aventi la funzione di permettere il superamento di situazioni di difficoltà del tutto momentanee.
Al di là del forte contenuto di intervento sociale che ogni accesso alla misura richiede, esso mette in moto un vero e proprio procedimento amministrativo che, come tale, soggiace alle regole generali stabilite nell'ordinamento ed ha necessità di essere svolto secondo le modalità, i tempi e le specificità per esso definiti. Occorre quindi definire a livello di indirizzo, con indicazioni di massima contenute nello strumento di programmazione, le modalità per l'opportuna individuazione del responsabile dell'attivazione dell'intera misura e dei responsabili dei singoli procedimenti di accesso, nonché dei responsabili dei provvedimenti finali di concessione degli assegni e ammissione all'attività di reinserimento, dell'organo cui fare ricorso in caso di provvedimento di diniego, etc… Ritengo che sia anche opportuno stabilire nello strumento di programmazione il livello di stipulazione degli accordi riguardo ai percorsi di reinserimento. L'esperienza della sperimentazione suggerisce che esso sia individuato in modo esclusivo sotto il profilo tecnico, nella professionalità che maggiormente possiede le caratteristiche necessarie alla specificità della lettura del bisogno e alla stesura di un progetto personale e familiare, cioè in capo all'assistente sociale.
Sul piano della gestione amministrativa non sarà indifferente la scelta della modalità tecnica di individuazione delle risorse disponibili e della loro messa a disposizione degli operatori, il procedimento che sarà individuato per la spesa e la sua titolarità, tutte questioni che saranno aperte a soluzioni differenti secondo le caratteristiche e le specificità dell'ambito territoriale e dei modelli gestionali individuati. Può poi sembrare una questione di dettaglio ma anche le modalità dei pagamenti, dei tempi del loro inizio, della loro possibile sospensione e revoca, hanno riflessi sulla complessa organizzazione, e ad esserne coinvolti non sono solamente i servizi sociali, ma gli uffici di una più complessa struttura amministrativa, sulla quale è bene che i Piani spendano qualche parola. Senz'altro di maggiore importanza sono gli aspetti che attengono ai documenti annuali e pluriennali di programmazione finanziaria a livello di ambito, che riguardano certo l'insieme degli interventi e dei servizi, ma interessano in modo assai particolare il Reddito Minimo di Inserimento, almeno per l'entità della spesa che la misura comporta, e su cui i Piani devono essere puntuali.
L'avvio della gestione di una misura di contrasto della povertà come il Reddito Minimo di Inserimento è tutt'altro che semplice per molteplici aspetti. Uno fra i tanti è relativo alla necessaria conoscenza che è opportuno si abbia da parte dei cittadini interessati. La Carta dei servizi sarà utilizzata al meglio nelle forme e per gli scopi previsti dalla legge Quadro. Essa dovrà esplicitare le forme e i contenuti che assumono i livelli essenziali individuati per contrastare la povertà, e servirà anche come strumento di conoscenza delle regole e delle procedure. La sperimentazione ha mostrato la necessità di rendere massima questa conoscenza proprio perché il particolare tipo di utenza interessato è spesso anche quello con maggiori difficoltà di accesso all'informazione istituzionale. Pur contando sullo spirito di iniziativa degli operatori vanno dati gli opportuni suggerimenti anche per quanto riguarda la diffusione dell'informazione e la promozione della misura, che oltre a passare attraverso i molti veicoli di comunicazione oggi a disposizione, devono poter contare su quelle agenzie, enti e soggetti con cui la parte povera della popolazione entra in contatto.
Certo questo tramite non è sufficiente, ma non se ne può prescindere proprio perché spesso sono le realtà che aiutano o accolgono le persone in difficoltà a informare e consentire l'accesso alla misura di aiuto. Non è un caso del resto se il D.lgs.237/98 che ha avviato la sperimentazione prevede che all'inoltro della domanda il servizio sociale comunale possa provvedere d'ufficio, "anche su iniziativa di enti e organizzazioni di volontariato e del privato sociale". La norma viene in questo caso incontro a una esigenza reale, superando la necessità formale dell'istanza del soggetto interessato, e pure se ha presentato qualche criticità, mette in evidenza il ruolo attivo che possono avere gli organismi intermedi. Questo ruolo va quindi riconosciuto e utilizzato anche per la promozione dello strumento di contrasto della povertà.
Le professionalità necessarie
L'organizzazione e la gestione della misura comportano il ricorso a specifiche professionalità di tipo diverso adatte ai ruoli tecnici, amministrativi, di governo della gestione e ai rapporti di rete, tutte necessarie e ugualmente importanti. Esse sono probabilmente in parte già disponibili se si intendono utilizzare uffici e servizi esistenti, ma anche da individuare e assumere, sia che si istituiscano nuovi uffici sia che si debba solamente ampliare gli organici esistenti. In ogni caso, e questo la sperimentazione lo ha messo chiaramente in luce, si tratta di poter contare su professionalità destinate a dare concreta attuazione ad una misura nuova e quindi professionalità da formare adeguatamente.
Vista l'importanza decisiva del fattore umano in ogni organizzazione, nei Piani di Zona non può mancare l'attenzione verso le risorse professionali necessarie ad avviare prima e a mettere a regime poi uno strumento di contrasto della povertà, allo svolgimento della loro specifica attività e alla loro funzione. Gli operatori del Reddito Minimo di Inserimento possono anche occuparsi di altro, e ciò può essere necessario nei comuni di più ridotte dimensioni, dove il numero esiguo di richieste di accesso alla misura e quello altrettanto esiguo delle persone in servizio obbliga quest'ultimo a presidiare molteplici funzioni in campo sociale, ma anche in questo caso è bene che si abbia a disposizione personale adeguatamente preparato.
Le professionalità di governo della gestione vanno reperite o formate preferibilmente fra quanti possono contare su una adeguata esperienza di direzione di servizi sociali, meglio se non settoriali ma di ampia articolazione. L'esperienza nella messa a punto di servizi e interventi di natura assistenziale può essere preziosa, così come la conoscenza del territorio e altre attitudini, ma quello che più conterà, anche al di là della provenienza dal sociale, sarà la capacità di coniugare abilità e competenza manageriale con una chiara visione d'insieme delle politiche sociali. Superfluo dire che si tratta di figure professionali determinanti per conseguire i risultati che i Piani si prefiggono in sede di programmazione, la cui mancanza ai vertici dell'organizzazione mina alla base ogni possibilità di successo.
Le professionalità tecniche ruotano intorno al ruolo centrale dell'assistente sociale, che proprio nel Reddito Minimo di Inserimento trova forse modo di esprimere pienamente le peculiari caratteristiche che ne distinguono importanza e funzioni da quelle di altri operatori sociali. Capacità di lettura dei bisogni della persona e del nucleo familiare, capacità progettuale nel definire un percorso di possibile reinserimento sociale, capacità di tenere rapporti con la rete di sostegno per facilitare il percorso individuato, etc., appaiono requisiti che non è possibile chiedere ad altri che all'assistente sociale. Capiterà per altro spesso, soprattutto se l'attuazione della misura deve confidare sulle risorse professionali esistenti, laddove all'ambito territoriale afferiscono molti comuni di modeste dimensioni, che la figura dell'assistente sociale sia già aperta a una visione ampia delle politiche sociali e possieda la capacità di utilizzare al meglio tutti i servizi esistenti. L'assistente sociale potrà essere quindi chiamata anche a collaborare, insieme ad altri operatori di governo della misura, alla individuazione delle linee strategiche e ai programmi di reinserimento.
Non si dovranno trascurare le professionalità di tipo amministrativo. L'esperienza diretta insegna che, soprattutto nel procedimento che segue la domanda di accesso alla misura, il loro apporto è prezioso. Esso è tale tuttavia non solo perché allevia i carichi di lavoro del personale tecnico attraverso importanti attività istruttorie, ma anche perché occorrerà disporre di personale capace di effettuare i controlli, di dar corso ai pagamenti, di predisporre i provvedimenti di concessione o di diniego, di esaminare i ricorsi, etc., tutte attività che richiedono attitudini e competenze specifiche che non si possono richiedere al personale tecnico. Anche per il governo della gestione non si potrà prescindere da competenze tecnico-amministrative di alto profilo, dal momento che si tratta pur sempre di dare svolgimento a funzioni amministrative complesse, da quelle di natura regolamentare a quelle di programmazione finanziaria.
Sarà necessario infine poter contare su professionalità in grado di tessere al meglio i rapporti di rete, che sanno progettare insieme a soggetti terzi, siano essi altre agenzie, pubbliche o private, o soggetti del terzo settore o del volontariato, tutti organismi che operano nel campo della formazione, del lavoro, dell'educazione, della sanità, etc.…La necessità di poter contare su iniziative e progetti finalizzati a rendere reale la prospettiva di reinserimento sociale comporta il fatto che esistano degli operatori che ad essi si dedichino con particolare impegno. Certamente in fase di avvio si potrà dedicare a questa attività parte del tempo degli altri operatori sociali e delle figure di governo della gestione, ma a lungo andare essa richiede che vi si dedichino figure professionali specifiche, magari anche formate strada facendo, che sappiano utilizzare al meglio conoscenze e capacità relazionali.
I Piani di Zona sapranno dare indicazioni sulle dotazioni organiche e sulla loro qualificazione, o comunque offrire gli indirizzi per giungere alla loro determinazione in funzione degli obiettivi che si intendono perseguire e ai risultati che si vogliono raggiungere. A questo scopo non basterà tuttavia ragionare solamente sulle qualità professionali, dal momento che si tratterà di arrivare a stabilire anche le quantità necessarie. Una buona analisi dei carichi di lavoro, attendibile seppure non particolarmente approfondita viste le inevitabili incertezze iniziali sul numero di domande attese, dovrà costituire la base per determinare le necessità di personale. Soprattutto sarà utile la riflessione sui carichi di lavoro ove in fase di avvio si dovrà contare in modo rilevante sul personale già in servizio, per i quali l'aggiunta di funzioni impegnative alle altre da svolgere può comportare difficoltà in grado di mettere in crisi l'organizzazione. Eccessivi carichi di lavoro in capo al personale tecnico o amministrativo possono in ogni caso rappresentare motivo - così spesso è stato nella sperimentazione - perché alla misura di contrasto si dia attuazione parziale, magari trascurando quegli aspetti, come il lavoro di controllo o le rilevazioni statistiche, che meno appaiono rilevanti ad una valutazione superficiale, consentendo così nell'immediato di dare l'impressione di una piena attuazione della misura.
Un ulteriore aspetto in materia di risorse umane, tutt'altro che secondario, su cui i Piani di Zona devono dire la loro, è la qualificazione professionale e il mantenimento dei livelli di professionalità. Sono aspetti importanti in ogni organizzazione e lo sono particolarmente per quella necessaria a uno strumento come il Reddito Minimo di Inserimento. Non si potrà pensare di reperire nel medio periodo sul mercato del lavoro un numero sufficiente di professionalità formate attraverso questa specifica esperienza, anche se per le buone prassi della sperimentazione ci saranno senz'altro molte occasioni di diffusione e di scambio. Occorre quindi che le iniziative di formazione, da cui non si può prescindere per confidare su un buon avvio della misura, abbiano ogni possibile sostegno. Non meno importante sarà l'attività formativa futura per il mantenimento dei necessari livelli di professionalità, e ciò vale sia per il personale che avrà bisogno di aggiornamento, sia per quello che probabilmente, visto anche l'elevato turn over nel settore dei servizi sociali, si aggiungerà o sostituirà quello esistente col passare del tempo.
I programmi di reinserimento
Alla base dello strumento del Reddito Minimo di Inserimento vi è l'indispensabile associazione fra erogazione monetaria e progetto di reinserimento sociale. Senza i progetti di reinserimento, siano essi individuali o familiari, il Reddito Minimo diventa altra cosa e perde la sua natura specifica, conservando sì il riferimento al bisogno economico in luogo dell'appartenenza categoriale di altri istituti assistenziali, ma perdendo le peculiarità che ne fanno uno strumento fondamentale di inclusione sociale.
I progetti che accompagnano l'erogazione monetaria hanno tuttavia rappresentato uno dei punti di maggiore criticità nella sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento. Se è vero che tutti i 39 comuni che hanno effettuato la prima fase della sperimentazione sono "riusciti nell'intento risolvendo i problemi che si sono presentati", e ciò nonostante si trattasse della "attuazione di una misura totalmente nuova nell'ambito del sistema di assistenza", nondimeno il maggiore nodo critico è stato individuato, oltre che in taluni aspetti della gestione, proprio nei progetti di reinserimento. In determinate situazioni in effetti il Reddito Minimo si è ridotto a mera erogazione di un sussidio monetario e spesso i progetti individuali hanno difettato di quelle caratteristiche che vengono ritenute essenziali, ossia la personalizzazione e la coerenza con i bisogni rilevati e gli impegni concordati. Si può allora condividere in pieno quanto sottolineato nella valutazione degli istituti di monitoraggio, cioè che condizione essenziale per il perfezionamento della misura è di poter contare su programmi di reinserimento di qualità e reti di sostegno sviluppate. In molti casi oltretutto i programmi non hanno goduto dei necessari "sostegni istituzionali" e questa carenza si è verificata in molti comuni, aggravata dal fatto che nella maggior parte di essi non si è avuto la possibilità di mettere in pratica neanche una funzione di coordinamento della rete di sostegno.
Queste insufficienze possono vanificare il rilevante sforzo organizzativo e gestionale che il Reddito Minimo di Inserimento richiede, e proprio per questo i Piani di Zona devono essere in grado di sostenere adeguatamente la fattibilità dei programmi di reinserimento attraverso indicazioni circa la loro qualità, l'adeguatezza della rete di sostegno e idonee politiche sociali a livello di ambito territoriale da concretizzare in azioni precise.
Alcune indicazioni del Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2001-2003 riguardo ai Piani vanno giusto nella direzione di facilitare la fattibilità delle iniziative di contrasto della povertà attraverso lo sviluppo di talune misure e la realizzazione di alcuni interventi. Viene evidenziata la necessità di avviare sperimentazioni di "contratti di inserimento" con i beneficiari di aiuti economici ma anche quella di prevedere l'avvio di "forme di collaborazione tra scuole e servizi sociali al fine di prevenire l’evasione scolastica e di sostenere la frequenza", di sviluppare i "servizi di accompagnamento sociale" e di avviare "una razionalizzazione delle forme di sostegno al reddito esistenti". Viene anche suggerita la "sperimentazione, sotto la regia delle regioni, di forme di erogazione di "pacchetti di risorse" (integrazione del reddito, accesso gratuito ai trasporti, aiuti per il pagamento delle utenze e per l’acquisto di alcuni beni di consumo, ecc.) alle famiglie e agli individui in condizione di povertà". Non manca ovviamente fra le azioni da intraprendere anche il richiamo alla collaborazione con i diversi soggetti presenti sul territorio e alla necessità di rilevare le condizioni di povertà a livello locale. Ovviamente si può fare tesoro nei Piani di Zona delle indicazioni ministeriali - con differente coinvolgimento regionale a seconda delle realtà - giacché esse sono di portata generale e appaiono frutto di ormai consolidate esperienze, ma si devono tenere in debito conto le specificità dell'ambito per garantire efficacia operativa alla funzione programmatoria.
Le azioni di sostegno dei programmi di reinserimento dovranno essere molteplici e diversificate ed è opportuno che la regia sia interamente affidata all'organo che governa la gestione della misura, perché il loro svolgimento è frutto anche di quotidianità, di continuità e di un fare tangibile. Sarà opportuno porre anche il massimo interesse nella tessitura di rapporti di rete, perché l'insieme di enti e agenzie esistente in un determinato ambito deve essere governato, quali che siano le risorse disponibili e la loro qualità, o quanto meno occorrerà svolgere un'azione di coordinamento, che è attività comunque difficile ma fondamentale per il successo delle iniziative di contrasto della povertà. Tale coordinamento può essere considerato senz'altro dai Piani di Zona come azione di sostegno ai programmi di reinserimento e quindi affidata al soggetto che li governa. Sarà necessario però trovare quegli accorgimenti che consentono di armonizzare il lavoro di rete a sostegno della lotta alla povertà con la più generale attività di coordinamento della rete a livello di ambito, che è opportuno sia garantita, nello spirito di integrazione dei servizi, dal livello di governo del sistema quale viene definito dal Piano di Zona.
Terzo settore e volontariato sono risorse preziose per tutto il territorio e vanno potenziate, ma i Piani di Zona dovranno prestare particolare attenzione alle risorse provenienti dalle agenzie, pubbliche e private, che si occupano di istruzione, formazione, orientamento e politiche del lavoro, lavoro stesso, e cercare di indicare le iniziative per svilupparle. Se è vero infatti che gli esiti del Reddito Minimo di Inserimento non si devono giudicare solamente dal numero dei disoccupati che trova lavoro più o meno grazie ai progetti di reinserimento, dal momento che finalità primaria è il reinserimento sociale, più rilevante per taluni aspetti del pur importante ritorno all'occupazione, sono tuttavia formazione e lavoro i fattori che più facilmente consentono il superamento del bisogno e della necessità di assistenza. Diverse esperienze hanno mostrato come i progetti individuali di reinserimento più validi siano stati quelli predisposti avendo a disposizione accordi su specifici programmi con agenzie di formazione, associazioni locali di categoria, industriali, artigiane o del commercio, centri lavoro. Dove la presenza di tali realtà è debole vanno previste dai Piani di Zona iniziative idonee a rafforzarla e vanno indicati gli strumenti per favorire la collaborazione e la stipula di accordi.
Sarà qualificante per il Piano di Zona la capacità di integrare le azioni finalizzate a contrastare la povertà con l'insieme delle politiche sociali. Certamente queste saranno assai complesse e non saranno destinate solamente a contrastare l'esclusione, bensì condotte in tutte le direzioni dell'articolato sistema di servizi e interventi, ma saranno fondamentali per consentire lo sviluppo di programmi di reinserimento destinati a permettere agli operatori di concordare con i beneficiari reali percorsi di integrazione. L'esperienza della sperimentazione ha mostrato come non si possa fare a meno di correlare azioni specifiche e politiche sociali di ordine generale. Per fare un esempio, è stato possibile utilizzare per i progetti individuali programmi di reinserimento basati sul completamento della scolarizzazione di base, sulla formazione culturale per gli adulti o sul c. d. "bilancio di competenze", destinato a fornire ai soggetti deboli consapevolezza delle proprie risorse, solamente grazie ad una politica di educazione permanente resa concreta dalla presenza sul territorio di un valido Centro Territoriale per l'educazione degli adulti sostenuto dalle amministrazioni locali. E' bene quindi che i Piani di Zona trattando di misure di contrasto della povertà trovino le necessarie correlazioni con i piani di sviluppo locale nel campo dell'istruzione e della formazione, del lavoro, della casa, dell'economia.
Le direttrici delle politiche sociali destinate a favorire l'inclusione sono conosciute e qui non mi dilungo, ma nei Piani di Zona, più che farsi generici rinvii ad esse, si dovrebbero indicare misure concrete destinate a sostenere e incentivare la formazione per i giovani e la riqualificazione per gli adulti, a combattere l'evasione scolastica, a facilitare l’accesso all’abitazione per le famiglie a basso reddito abbattendo le lunghe graduatorie degli alloggi ERP, e rendere effettivo per i soggetti particolarmente deboli l'accesso a molti servizi sociali e sanitari. Per queste e altre misure vanno individuati obiettivi, percorsi e risultati attesi, nonché tempi e impegno finanziario che le amministrazioni comunali, l'ente o l'azienda che governa il sistema, chi in sostanza detiene il potere politico-amministrativo, assumono come necessari e realistici rispetto ad un ottimale utilizzo delle risorse esistenti.
I programmi di reinserimento e i progetti individuali, oltre che essere sostenuti mediante la rete ed essere correlati all'insieme delle politiche sociali, dovranno avere il requisito della qualità, che sarà tanto maggiore quanto più essi saranno capaci di consentire l'effettivo reinserimento sociale dell'individuo e del nucleo familiare. La qualità dovrà essere ovviamente verificabile attraverso i fattori che il piano di Zona individuerà ma è opportuno che questi siano relativi soprattutto all'efficacia e che standard e indicatori servano a misurare gli effetti delle azioni di contrasto intraprese.
Nella direzione dell'efficacia è anche bene che sia facilitata al massimo la personalizzazione dei progetti e la valorizzazione delle capacità e potenzialità dei soggetti inclusi nei programmi di reinserimento, sviluppando inoltre le forme di accompagnamento più idonee. Sarà un importane fattore di qualità anche la capacità di effettuare puntuali verifiche sull’andamento dei progetti individuali, di modificare i percorsi se necessario, di adeguarli alle mutate esigenze. Se per gli aspetti amministrativi l'organizzazione dovrà essere indirizzata a obiettivi di tempestività, certezza e correttezza dell'accesso all'erogazione economica, per quanto riguarda il reinserimento sociale ogni sforzo dovrà essere compiuto per rendere effettivo il superamento dello stato di bisogno, pur tenendo in conto che non sempre questo sarà facile o possibile. Gli operatori che seguono i progetti di inserimento dovranno essere fra l'altro in grado di determinare la durata dei singoli interventi e operare perché il reinserimento possa incidere in permanenza, avendo cura che gli obblighi del beneficiario della misura siano sostenibili e in grado di condurre a una reale emancipazione.
I costi
Al momento di chiusura di queste riflessioni non vi sono certezze sull'estensione dell'Istituto del Reddito Minimo di Inserimento a tutto il Paese che vadano oltre qualche dichiarazione di fonte ministeriale veicolata dai media, né ovviamente tanto meno vi sono indicazioni circa la modalità, i tempi e le risorse economiche a disposizione per questa estensione. Né d'altronde di risorse economiche certe per le iniziative di contrasto della povertà parla il Piano Nazionale, anche se finalmente si comincia a ragionare in termini di Fondo nazionale per le politiche sociali e, un po’ attraverso finanziamenti specifici collegati alla normativa di settore e un po' mediante i c.d. fondi indistinti, si cerca di garantire ossigeno all'attuazione della L. 328.
E' del resto convinzione comune che, come detto, senza l'apporto statale, o adeguato federalismo fiscale, non è possibile pensare di destinare al Reddito Minimo di Inserimento le risorse stimate come necessarie dagli istituti di valutazione. Pur con ampia forbice fra un minimo e un massimo tali risorse sono ben superiori a quelle previste per l'intero Fondo nazionale per le politiche sociali, e sono indispensabili se la misura deve essere intesa come "ammortizzatore sociale" dal carattere universalistico. Tale necessità permane anche se è vero che le risorse complessivamente disponibili per il sistema integrato di interventi e servizi sociali, e quindi anche delle misure di contrasto della povertà previste nei livelli essenziali, devono tenere conto delle risorse già rese disponibili da regioni ed enti locali per la loro politica sociale, a volte sparsi in molti rivoli che tendono ad affrontare situazioni più o meno momentanee di esclusione sociale.
I molti rivoli però, se unificati e magari potenziati con l'apporto regionale, potrebbero costituire una buona base per sostenere l'avvio di una misura universalistica di contrasto della povertà, tanto più utile quanto più appare necessario a livello di Piano di Zona procedere a una razionalizzazione delle misure assistenziali esistenti. Pur nella loro inadeguatezza a sostituirsi per intero alle risorse finanziarie statali, gli interventi degli enti locali sono infatti in molte parti del Paese significativi sotto l'aspetto delle risorse (anche umane) impiegate.
Il documento di programmazione, compiutamente analizzate e stimate le risorse disponibili e quelle ritenute necessarie per l'avvio, dovrebbe però offrire adeguate prospettive nella direzione tracciata dal Piano Nazionale. Si avrà, è vero, in assenza dell'intervento statale, un'Italia a macchia di leopardo anche per quanto riguarda la lotta alla povertà, ma si sarà in ogni caso intrapreso da subito un cammino che comporta l'abbandono dell'assistenzialismo fatto di mera erogazione di sussidi per forme di aiuto economico utili al reinserimento sociale. Il mutamento di prospettiva non è cosa da poco e non tenerne conto in fase di elaborazione o rivisitazione dei Piani di Zona sarebbe deleterio.
Il discorso dei costi dell'intervento su scala nazionale ci porterebbe lontano ma per quello che qui ci riguarda vale la pena di sottolineare ancora alcune cose. La prima è che decidere di avviare in proprio la misura significa impegnare i bilanci comunali per molti anni di somme significative, con scarsi margini per una flessibilità che lo Stato può avere, dovuti alla leva fiscale ma non solo, e che gli enti locali non hanno. Una volta poi effettuata la scelta di avviare con le sole forze dei soggetti afferenti all'ambito territoriale una misura generale di contrasto della povertà simile al Reddito Minimo di Inserimento, saranno proprio le risorse disponibili a determinare in buona parte l'universo dei destinatari. Dettando le regole il Piano di Zona stabilirà le compatibilità fra accesso alla misura e possibilità finanziarie. Non è consigliabile tuttavia, in caso di risorse insufficienti, agire sulla soglia di accesso restringendola a un livello che potrebbe vanificare l'efficacia della misura, piuttosto si può ricorrere ad altri criteri che consentono un governo della spesa, quali bandi annuali con graduatorie, applicazioni di criteri di priorità, etc.
Una questione da affrontare in caso di più comuni afferenti all'ambito territoriale, cioè nella maggior parte degli ambiti creati, sarà quella della ripartizione dei costi fra i vari enti, questione da affrontare anche nel caso di intervento statale e risorse trasferite al soggetto gestore della misura, dal momento che comunque occorrerà ragionare sulle risorse aggiuntive dei comuni. La ripartizione, fortemente condizionata dal modello gestionale prescelto, potrà ovviamente essere fatta secondo diversi criteri, quota capitaria, secondo il numero degli utenti che accedono alla misura, in forma intermedia fra le due, etc. e tuttavia consiglio di evitare che le modalità possano essere rimesse in discussione almeno per un triennio e di limitare le pressioni di singoli comuni per una centesimale ripartizione delle risorse.
Nel preventivare la spesa è importante non considerare solamente quella per i sussidi ma tenere conto anche di quella per il personale necessario ad assicurare un'efficiente gestione della misura, compresi i costi per la formazione e l'aggiornamento, e per la dotazione di adeguate risorse strumentali. Sarà di notevole importanza saper prevedere fra le spese anche quelle per i (diversi) programmi di inserimento ai quali gli operatori attingeranno per i progetti e i percorsi individuali. Al di là delle iniziative che si potranno attivare con volontariato e non profit, e che si può sperare abbiano costi trascurabili, quelle da intraprendere con agenzie pubbliche e private di formazione, orientamento e lavoro hanno costi significativi anche se non contemplano profitti, dal momento che personale, tempi, attrezzature a disposizione, comportano quanto meno degli oneri. Anche di molte collaborazioni a programmi di reinserimento non si potrà fare a meno per dare efficacia alla misura di contrasto della povertà e quasi sempre esse sono onerose. Occorrerà quindi includere fra le spese anche queste voci, almeno fino a quando non si troverà modo di poter contare su forme di collaborazione con un numero significativo di agenzie pubbliche che, per dovere istituzionale, si assumeranno gli oneri di iniziative destinate a contrastare in modo specifico la povertà.
Verifiche e analisi di qualità
Quanto più le risorse a disposizione sono limitate tanto più va attivato un affidabile controllo di gestione della misura in termini di verifica di economicità, efficienza ed efficacia. Tale controllo va ovviamente attivato seriamente in ogni caso, almeno per rispetto del principio costituzionale di buon andamento della Pubblica Amministrazione. L'evoluzione che questa ha avuto negli ultimi tempi riguardo ad analisi di qualità e controlli gestionali mette del resto a disposizione dei soggetti decisori e del management numerosi strumenti di valutazione già ampiamente sperimentati e di indubbia efficacia. Sarà quindi sufficiente, anche per chi si avvicina per la prima volta a questi temi, saper fare tesoro delle buone prassi in questo campo.
Si avrà riguardo agli aspetti ecomico-finanziari e anche agli esiti quantitativi e qualitativi, come ogni buon verificatore sa di dover avere. Il Piano di Zona darà indicazioni di massima sulle informazioni ritenute più importanti e sulla metodologia da usare, ma sarà particolarmente importante il lavoro che verrà fatto per analizzare i processi e definire fattori di qualità, indicatori e standard, soprattutto quelli che permettono di percepire l'efficacia della misura adottata rispetto agli scopi prefissi. Si potrà avere senz'altro la tentazione di affidare completamente all'esterno l'attività di verifica e di controllo, ma personalmente ritengo che i migliori risultati si ottengano tramite il lavoro svolto dagli stessi operatori. Questo lavoro è tanto più importante quanto più è partecipato a vari livelli, perché la riflessione e l'analisi svolta dagli stessi operatori - possibilmente con la presenza delle diverse professionalità impiegate - contribuisce, e non poco, alla loro crescita professionale e alla loro motivazione. In caso di necessità si può sempre ricorrere alla consulenza di chi può formare, guidare o consigliare gli operatori che devono effettuare valutazioni e controlli. Anche nello specifico di una misura come il Reddito Minimo di Inserimento - la sperimentazione ha impegnato molte persone fra ricercatori degli istituti di valutazione e professionalità che hanno sperimentato nei comuni - può rivelarsi opportuno l'affiancamento di esperti nell'approfondimento di tematiche gestionali relative alle criticità.
Il controllo di gestione di una misura come il Reddito Minimo di Inserimento dovrà essere sostenuto da un adeguato sistema informativo, pensato e progettato oltre che per consentire al meglio il quotidiano lavoro degli operatori anche come strumento capace di restituire le informazioni necessarie riguardo agli esiti dell'attuazione della misura, sia per l'uso di chi ne governa la gestione sia per chi governa l'intero sistema integrato.
Come ogni controllo di gestione esso non sarà fine a sé stesso o rivolto alla valutazione delle prestazioni degli operatori, ma servirà soprattutto ad apportare miglioramenti e aggiustamenti alla gestione in funzione del raggiungimento degli obiettivi. Sulla base degli esiti gli aggiustamenti potranno riguardare la misura stessa e condurre alla fine dei periodi stabiliti a revisioni, anche sostanziali, nell'impostazione e nella programmazione, consentendo di ridefinire regole, percorsi e obiettivi.
Per un certo periodo di tempo occorrerà rassegnarsi ad aggiustamenti più o meno marcati. Chi ha effettuato la sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento sa quanto essi siano necessari, ed anzi la sperimentazione stessa aveva fra gli scopi principali quello di far ragionare sulle modifiche da apportare alla misura. Naturalmente gli aggiustamenti non dovranno essere improvvisati e troppo frequenti, e soprattutto occorrerà procedere dando il giusto tempo ai responsabili della gestione di mettere a regime la misura, anche se è bene che i processi di attuazione siano tenuti costantemente sotto osservazione. Chi predispone (e chi approva) il Piano di Zona deve avere chiara consapevolezza della necessità di revisioni nel medio periodo e soprattutto del fatto che, nonostante ogni accorgimento per ottimizzare gli esiti, potranno aversi risultati non del tutto soddisfacenti, difficoltà gestionali inattese e, soprattutto, scarso apprezzamento "politico" per i benefici sociali ottenuti, in particolare se confrontati ai costi e se si è scambiata una misura come il Reddito Minimo di Inserimento per l'ammortizzatore sociale più efficace per i senza lavoro.
Si deve in sostanza veramente tenere in debito conto che si tratta di dare attuazione a una misura quasi sempre del tutto nuova per l'ambito territoriale, e che pur facendo tesoro degli esiti e delle valutazione della sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento, i prossimi anni, almeno un quinquennio, serviranno per metterla a punto. L'esperienza francese, con i suoi aggiustamenti di uno strumento assai simile al nostro, mostra del resto come la validità di una misura che ha la pretesa di contrastare la povertà non possa verificarsi che nel lungo periodo.