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LIBRO BIANCO
SUL MERCATO DEL LAVORO IN ITALIA
proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità
Il Libro Bianco sul mercato del lavoro è stato redatto da un gruppo di lavoro coordinato da Maurizio Sacconi e Marco Biagi, cui hanno partecipato: Carlo Dell’Aringa, Natale Forlani, Paolo Reboani, Paolo Sestito.
PRESENTAZIONE
*Executive Summary
*
Parte Prima. L’Analisi 1
Il mercato del lavoro in Italia: inefficienze ed iniquità
**1. Raccomandazioni dell’Unione Europea
2. Andamenti e caratteristiche del mercato del lavoro italiano *
2.1. Crescita economica ed intensità occupazionale *
2.2. Flessibilità e precarietà *
2.3. Criticità… *
2.4. Qualità del lavoro *
2.5. Salari e produttività *
3. Politiche attive e politiche passive *
3.1. Ammortizzatori sociali *
3.2. Incentivi all’occupazione *
3.3. Incontro domanda- offerta *
3.4. Formazione *
Parte Seconda. Le Proposte
*Promuovere una società attiva ed un lavoro di qualità
*I. Regole e strumenti *
I.1. Europa e Federalismo *
I.1.1. "Coordinamento aperto" per l’occupazione *
I.1.2. Buone pratiche in Europa *
I.1.3. Lavoro e federalismo *
I.1.4. Coesione sociale *
I.2. Dialogo sociale *
I.2.1. Il modello comunitario *
I.3. Tecniche regolatorie *
I.3.1. Ordinamento comunitario e tecniche di trasposizione *
I.3.2. Leggi e contratti *
I.3.3. "Norme leggere" (soft laws) *
I.3.4 . Norme semplici e certe *
I.3.5. "Statuto dei Lavori" *
I.3.6. Responsabilità sociale delle imprese *
I.3.7. Giustizia del lavoro *
II.
Obiettivi e politiche *II.1. Occupabilità (more jobs…) *
II.1.1. Obiettivi quantitativi *
II.1.2. Politiche attive *
II.1.3. Servizi pubblici all’impiego *
II.1.4. Operatori privati per il lavoro *
II.1.5. Formazione e lavoro *
II.1.6. Enti strumentali *
II.1.7. Incentivi e ammortizzatori *
II.2. Qualità (...better jobs) *
II.2.1. Lavoro regolare *
II.2.2. Lavoro a tempo indeterminato *
II.3. Flessibilità e sicurezza *
II.3.1. Organizzazione e rapporti di lavoro *
II.3.2. Part-time *
II.3.3. Lavoro interinale e intermediazione *
II.3.4. Lavoro intermittente *
II.3.5. Lavoro a tempo determinato *
II.3.6. Lavoro a progetto *
II.3.7. Lavoro in cooperativa *
II.3.8. Orario di lavoro *
II.3.9. Igiene e sicurezza *
II.4. Pari opportunità e inclusione sociale *
II.4.1. Politiche di parità *
II.4.2. Lavoro minorile *
II.4.3. Immigrazione *
III. Relazioni Industriali *
III.1. Sistema contrattuale *
III.2. Partecipazione *
III.3. Democrazia economica *
III.4. Servizi pubblici essenziali e conflittualità *
Presentazione
Questo Libro Bianco è finalizzato a rendere partecipi tutti gli attori istituzionali e sociali delle riflessioni che il Governo ha svolto in vista di un confronto finalizzato a ricercare soluzioni confortate dal più ampio consenso.
Questi diversi interlocutori sono ora invitati a valutare il Libro Bianco, sia nella sua dimensione analitica sia nella prospettiva propositiva e progettuale. Il Governo procederà all’organizzazione di sedi di confronto per l’approfondimento delle singole tematiche, al fine di conseguire una migliore comprensione dei reciproci punti di vista e di pervenire, auspicabilmente, a specifiche intese.
Al termine del confronto il Governo si riserva di valutare i punti di intesa realizzati e quelli per i quali eventualmente non si sia registrata una significativa convergenza di analisi e di proposte. In entrambi i casi si terrà ampio conto dei risultati di questo esercizio nella fase successiva di predisposizione di iniziative legislative da presentare al Parlamento.
Il Governo si propone così di innovare nella metodologia del confronto prima ancora che nella stessa portata dei contenuti. Ciò appare necessario alla luce delle esperienze più recenti di dialogo sociale in Italia. Dopo i grandi accordi del 1984, del 1992 e del 1993, il confronto tra istituzioni e parti sociali è parso declinare verso forme rituali e inefficaci.
Il Consiglio Europeo di Lisbona e il successivo Consiglio Europeo di Stoccolma hanno stabilito che l’Unione Europea deve conseguire nel corso del prossimo decennio una crescita economica sostenibile capace di garantire un aumento sostanziale del tasso di occupazione, di migliorare la qualità del lavoro e di ottenere una più solida coesione sociale. L’Italia in particolare ha molte ragioni per raccogliere questa sfida.
L’Italia è infatti il paese europeo con il più basso tasso di occupazione generale e femminile in particolare, il più alto livello di disoccupazione di lungo periodo, il più marcato divario territoriale. Le Raccomandazioni rivolte all’Italia dall’Unione Europea nell’ambito del processo di Lussemburgo hanno sottolineato, ormai dal 1998, l’insufficienza delle politiche fin qui attuate e la mancanza di interventi in grado di migliorare sostanzialmente le caratteristiche del suo mercato del lavoro. Per questo motivo, partendo proprio dagli orientamenti europei, il Governo intende procedere, con la presentazione di questo Libro Bianco, ad un programma di legislatura, orientato alla promozione di una società attiva, ove maggiori siano le possibilità di occupazione per tutti, migliore sia la qualità complessiva dei lavori, più moderne le regole che presiedono all’organizzazione dei rapporti e dei mercati del lavoro.
La strada per avvicinare l’obiettivo europeo di un tasso di occupazione attorno al 70% nel 2010, con il quale si realizza una condizione di largo impiego del capitale umano, è lunga e tortuosa. A questo obiettivo devono concorrere vari fattori: dalla più intensa partecipazione dei giovani, delle donne e degli anziani al mercato del lavoro, ad una migliore integrazione dei disabili, all’ulteriore diffusione del lavoro autonomo e di ogni forma di autoimpiego, all’emersione di tutte le forme di lavoro irregolare, con particolare attenzione alla situazione del Mezzogiorno.
Peraltro, le azioni che si vogliono promuovere attraverso le proposte contenute nel Libro Bianco non sostituiscono gli strumenti di politica economica, di politica fiscale e di politica industriale volti a garantire un percorso di crescita sostenuta. In particolare, il documento qui presentato è definito in coerenza con l’obiettivo di una progressiva riduzione degli oneri fiscali e contributivi che gravano sul lavoro, leva non secondaria per l’incremento dell’occupazione e per migliorare le condizioni dei lavoratori meno retribuiti. Analoga coerenza è stabilita con le linee di riforma del sistema previdenziale. L’innalzamento del tasso di occupazione determina un ampliamento della base dei contribuenti, concorrendo così a ridurre l’impatto negativo derivante dalle tendenze demografiche in atto. Le politiche del lavoro, qui identificate, hanno quindi lo specifico compito di rimuovere quegli ostacoli economici o normativi che riducono l’intensità occupazionale della crescita economica, soprattutto nel Mezzogiorno.
Nella definizione di nuove ipotesi di regolazione abbiamo assunto congiuntamente i criteri della flessibilità e della sicurezza superando quella sterile contrapposizione tra approcci ideologici che ha determinato la paralisi o il fallimento di molte riforme.
Le politiche del lavoro non possono poi prescindere dalle caratteristiche e dalle differenze dei relativi mercati del lavoro locali in un Paese dai grandi contrasti. Occorre costruire un quadro di riferimento generale all’interno del quale possano essere adottate misure differenti per realtà diverse, riconoscendo e valorizzando le diversità e specificità delle dimensioni regionali, proprio allo scopo di ricomporre ogni dualismo. Appare quindi importante, ai fini del raggiungimento degli obiettivi prefissati, realizzare il federalismo anche in materia di mercati e rapporti di lavoro.
Le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori sono attori essenziali del dialogo sociale, la cui autonomia responsabile il Governo vuole valorizzare con il frequente rinvio al loro diretto negoziato in un disegno di sussidiarietà orizzontale. Esse sono anche il veicolo per una crescente responsabilità delle imprese - attraverso strumenti di autodisciplina - e dei lavoratori, attraverso istituti referendari e partecipativi.
Queste politiche sono orientate dai valori dell’economia sociale di mercato, dai principi fondamentali del lavoro che ormai compongono l’acquis communaitaire, nonché ovviamente dalle indicazioni fondamentali provenienti dalle convenzioni e raccomandazioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro per uno sviluppo globale socialmente sostenibile. Ciò nel pieno rispetto dei precetti fondamentali rinvenibili nella stessa Costituzione italiana e nell’elaborazione pluridecennale della giurisprudenza costituzionale e di legittimità.
Roberto Maroni
Le difficoltà del mercato del lavoro italiano
La maggiore correlazione tra crescita del prodotto e crescita dell’occupazione nonché la maggiore diffusione del lavoro atipico, dovute alle misure di flessibilità introdotte a partire dal 1997, dimostrano come vi siano le condizioni affinché anche in Italia possa crearsi un mercato del lavoro dinamico, efficiente ed equo.
Tuttavia, l’Italia, con un tasso di occupazione che nel 2000 è ancora al 53,5%, sconta un ritardo pesante rispetto a tutti gli altri paesi europei. La causa principale del gap italiano è ascrivibile al Mezzogiorno, che dista dagli attuali livelli medi UE di oltre venti punti percentuali sia per il totale sia per la componente femminile. Nondimeno, anche nelle regioni del Centro-Nord i livelli occupazionali rimangono inferiori rispetto ai livelli medi dell’UE (59,9% contro 63,3% per il totale e 48% contro 53,4% per la componente femminile).
Il divario territoriale deve essere sommato ai problemi di carattere generazionale. Le prospettive dei giovani per un rapido accesso al mercato del lavoro, pure se migliorate negli ultimi anni grazie alle maggiori flessibilità disponibili appaiono ancora contraddistinte da difficili processi di transizione dalla scuola al lavoro, dal lavoro alla formazione e dalla formazione al lavoro. I lavoratori anziani, penalizzati dagli scarsi incentivi alla prosecuzione dell’attività lavorativa e che non appaiono beneficiare delle tipologie contrattuali flessibili adottate, continuano a ridurre la loro quota ufficiale nella popolazione lavorativa. Le donne, per le quali la crescita occupazionale nell’ultimo quinquennio è stata più consistente, specie nel Centro-Nord, continuano a soffrire di una difficile condizione di accesso e di permanenza sul mercato del lavoro.
Il tasso di disoccupazione in Italia si è progressivamente ridotto e si presume che continui a ridursi anche nei prossimi anni. Tuttavia, esiste un grave problema di disoccupazione di lunga durata: il tasso di disoccupazione di questo segmento è, infatti, pari all’8,3%, mentre la media europea si posiziona al 4,9%. Ciò testimonia l’inefficacia delle azioni preventive e il rischio di esclusione sociale da parte di coloro che perdono il posto di lavoro.
Per questo motivo la combinazione tra azioni di contesto atte ad innescare processi di allargamento della base produttiva e di innalzamento della produttività, introduzione di flessibilità nel mercato del lavoro, fuoriuscita dal sommerso, appare come una strategia interconnessa, capace di innescare sviluppo economico e crescita dell’occupazione regolare. Esistono, dunque, grandi opportunità che devono essere sfruttate e situazioni che possono essere migliorate, attuando politiche del lavoro e politiche macroeconomiche che spingano dal lato dell’offerta come dal lato della domanda, anche in un contesto macroeconomico congiunturalmente difficile.
Se creare più posti ed occasioni di lavoro rappresenta l’ambizioso traguardo dei prossimi anni, occorre, tuttavia, anche migliorare la qualità del lavoro. In Italia, la qualità "non buona" del lavoro è insita nei differenziali occupazionali ma, soprattutto, nell’ampia fascia di lavoro sommerso, irregolare e clandestino che contribuisce a creare condizioni di esclusione sociale e di sottoutilizzo di capitale umano. Un mercato del lavoro flessibile deve migliorare la qualità, oltre che la quantità dei posti di lavoro, rendere più fluido l’incontro tra obiettivi e desideri delle imprese e dei lavoratori e consentire ai singoli individui di cogliere le opportunità lavorative più proficue, evitando che essi rimangano intrappolati in situazioni a rischio di forte esclusione sociale.
La criticità delle politiche praticate
La struttura della spesa sociale italiana denota un’accentuata caratterizzazione pensionistica ed una bassa incidenza dei trattamenti di disoccupazione e di quelli assistenziali a favore di soggetti in età lavorativa (invalidità, famiglia, abitazione e assistenza sociale in senso proprio). Ciò è il risultato di rigidità nella regolamentazione dei rapporti di lavoro ed in particolare del prevalere della tutela dei rapporti in essere. Inoltre, permane l’assenza di interventi strutturali che favoriscano la domanda e l’offerta di lavoro dei soggetti a più basso reddito e di schemi di incentivazione che possano attenuare possibili effetti di povertà nelle fasce cosiddette a rischio della popolazione.
Le esperienze dei paesi europei che hanno con più successo riformato il mercato del lavoro, mostrano quanto sia importante disporre anche in Italia di un nuovo assetto della regolazione e del sistema di incentivi e ammortizzatori, che concorra a realizzare un bilanciamento tra flessibilità e sicurezza. Tale sistema deve avere come obiettivo ultimo quello di accrescere l’occupazione e di diminuire le forme di precarizzazione, evitando il sorgere di pericolose fratture sociali tra generazioni, caratterizzate da segmenti più giovani che trovano accesso al mercato del lavoro con contratti flessibili e popolazione meno giovane e dinamica che rimane con contratti tradizionali da lavoro dipendente.
Istituzioni, centrali e locali, e parti sociali sono chiamate a disegnare un sistema di politiche del lavoro basato non più sul singolo posto di lavoro bensì sull’occupabilità e sul mercato del lavoro. In Italia, un efficace funzionamento del mercato del lavoro è anche impedito dall’inefficiente incontro tra domanda e offerta. Solo il 4% di chi trova lavoro passa attraverso il servizio pubblico all’impiego, mentre gli operatori privati non decollano a causa degli ostacoli normativi oggi esistenti ed è ancora assente un adeguato sistema informativo basato su standard accettativi che favoriscono un rapido incontro tra i fabbisogni, i servizi, le soluzioni contrattuali.
Gli strumenti per una società attiva
Le azioni per accrescere il tasso di occupazione si devono sviluppare coerentemente con la Strategia Europea per l’Occupazione prevista dal processo di Lussemburgo. Si tratta di adattare il metodo del "coordinamento aperto" al nuovo quadro istituzionale che si sta delineando in Italia e che affida alle Regioni e agli enti locali una più forte responsabilità politica. Definizione degli obiettivi generali, monitoraggio dello stato di attuazione delle politiche, valutazione dei risultati raggiunti, scambio di buone pratiche rappresentano gli elementi portanti di un nuovo metodo che il Governo, d’intesa con tutti gli attori interessati, intende varare.
Peraltro, il nuovo assetto federale, che interessa anche la regolazione del mercato e dei rapporti di lavoro, può valorizzare questo metodo di intervento. La potestà legislativa concorrente delle Regioni riguarda non soltanto il mercato del lavoro bensì anche la regolazione dei rapporti di lavoro. Il legislatore nazionale, nel dialogo con Regioni e parti sociali, dovrà intervenire con una normativa-cornice, ma poi spetterà alle singole realtà territoriali costruire un impianto regolatorio che valorizzi le diversità dei mercati del lavoro locali e superi l’attuale stratificazione dell’ordinamento giuridico.
Accanto ad una rafforzata sussidiarietà verticale, occorre riqualificare la responsabilità decisionale delle parti sociali e garantire un’efficace sussidiarietà orizzontale. Il modello del dialogo sociale, così come regolamentato e sperimentato a livello comunitario, costituisce il punto di riferimento più convincente per una rinnovata metodologia nei rapporti fra istituzioni e parti sociali anche a livello interno. Il confronto tra istituzioni e parti sociali deve essere configurato come uno strumento volto a conseguire accordi progressivi tali da essere tradotti rapidamente in politiche orientate ad obiettivi quantificati e perciò monitorabili. Trattative globali si concludono talora con accordi globali generici e di difficile implementazione, così come accaduto nel corso della seconda metà degli anni novanta.
Al dialogo sociale, come dispone il Trattato dell’Unione Europea, spetta il compito primario di trasposizione delle direttive comunitarie, soprattutto quando esse derivino dal dialogo sociale comunitario. Tuttavia, la necessità di modernizzare il mercato del lavoro esige che la qualità del processo traspositivo sia alta ed eviti di introdurre surrettiziamente elementi distorsivi della concorrenza – anche a danno del Paese che recepisce - che la direttiva europea intende rimuovere. Inoltre, non deve essere trascurato il fatto che il processo traspositivo deve tenere conto delle caratteristiche dei mercati del lavoro locali, nel quadro del nuovo ordinamento federalista.
I mutamenti che intervengono nell’organizzazione del lavoro e la crescente spinta verso una valorizzazione delle capacità dell’individuo stanno trasformando il rapporto di lavoro. Ciò induce a sperimentate nuove forme di regolazione, rendendo possibili assetti regolatori effettivamente conformi agli interessi del singolo lavoratore ed alle specifiche aspettative in lui riposte dal datore di lavoro, nel contesto d’un adeguato controllo sociale. Dal punto di vista della contrattazione collettiva questo può significare un rafforzamento del suo ruolo premiale, come nel caso della direttiva CAE; dal punto di vista della normativa, l’introduzione di "norme leggere", che mirino ad orientare l’attività dei soggetti destinatari in relazione agli obiettivi piuttosto che ai comportamenti. L’ordinamento giuridico deve essere sempre più basato sul management by objectives piuttosto che sul management by regulation.
La maggiore "leggerezza" delle norme comporta anche una migliore organizzazione del sistema normativo che passi, da un lato, attraverso la redazione di un Testo unico sul lavoro volto a semplificare e chiarire il complessivo assetto regolatorio; dall’altro, con la predisposizione di uno "Statuto dei lavori", che operi un’opportuna rimodulazione delle tutele in ragione delle materie considerate, fermo restando un corpus di regole fondamentali applicabili a tutti i rapporti di lavoro.
La riforma degli strumenti non può prescindere da un solido intervento sulla giustizia del lavoro. I tempi di celebrazione dei processi, risolvendosi in sostanza nel diniego della giustizia stessa, sottolineano il grave stato in cui versa la giustizia del lavoro in Italia. Un efficiente mercato del lavoro necessita di tempi di risoluzione delle controversie sufficientemente rapidi. Occorre trovare nuove forme di amministrazione della giustizia, guardando alle esperienze europee, quale l’istituzione di collegi arbitrali che siano in grado di dirimere la controversia in tempi sufficientemente rapidi.
Dotarsi di nuove regole non significa necessariamente approvare nuove leggi. Significa, dunque, sperimentare anche codici volontari di comportamento nella logica di una "responsabilità sociale" delle imprese, come indicato dal recente Libro Verde della Commissione Europea.
Le politiche per una maggiore e migliore occupazione
La società attiva è il contesto necessario per lo sviluppo delle risorse umane. La qualità del lavoro è la nuova dimensione su cui riflettere. Il Governo ritiene che sia necessario attivare misure finalizzate ad elevare la qualità del nostro mercato del lavoro, tenendo conto delle caratteristiche e delle peculiarità della situazione italiana. In Italia, la prima politica volta a garantire un lavoro di qualità è quella rivolta all’emersione e al contrasto dell’economia sommersa, cui il Governo ha dedicato immediatamente una "terapia d’urto", che questo Libro Bianco intende ulteriormente sostenere.
Il conseguimento di una maggiore occupazione non dipende esclusivamente dalle politiche del lavoro qui delineate. Esse, tuttavia, devono assicurare che la crescita economica possa essere pienamente sfruttata, accrescendo le possibilità occupazionali degli individui ed aumentando l’intensità occupazionale dello sviluppo economico. A questo fine deve essere rafforzata la capacità di funzionamento efficiente del mercato, liberandolo dalle inefficienze economiche e normative che hanno nel corso degli anni ostacolato il pieno dispiegarsi delle sue potenzialità. Ciò, ovviamente, non dovrà avvenire restringendo le tutele e le protezioni, bensì spostandole dalla garanzia del posto di lavoro all’assicurazione di una piena occupabilità durante tutta la vita lavorativa, riducendo, quindi, i periodi di disoccupazione o di spreco di capitale umano.
In questo quadro, diverse sono le azioni che vengono proposte. Anzitutto, appare necessario imprimere una decisa accelerazione alle misure che possano favorire un efficiente ed equo incontro tra domanda e offerta. Da un lato, raccogliendo le indicazioni dell’Unione Europea, si deve proseguire con determinazione nella modernizzazione dei servizi pubblici per l’impiego, nel rispetto delle competenze delle Regioni e delle Province. Dall’altro, si deve agire affinché si fondi stabilmente un sistema maggiormente concorrenziale fra pubblico e privato, rivedendo pienamente la normativa introdotta per regolare il ruolo degli operatori privati che si occupano a vario titolo della mediazione tra domanda e offerta di lavoro e favorendo la diffusione di operatori privati polifunzionali.
In secondo luogo, appare urgente intervenire sulle transizioni scuola-lavoro-formazione. Ciò può essere assicurato innalzando la qualità dell’offerta formativa con azioni dal lato della domanda, ma anche con un rinnovato intervento pubblico, perché lasciato a se stesso il mercato non riesce a dare i risultati migliori. Peraltro, così come si finanzia con risorse pubbliche il processo di innovazione, altrettanto si deve fare con la formazione continua, sostenendone la domanda. Nel contempo, Governo e parti sociali devono intraprendere una sostanziale riforma dei contratti a causa mista, soprattutto in riferimento allo strumento dell’apprendistato, approfondendo gli aspetti della quantità e della qualità della formazione esterna ai luoghi di lavoro. In tale quadro, l’apprendistato può essere valorizzato come strumento formativo per il mercato, mentre il contratto di formazione-lavoro può essere concepito come strumento per realizzare un inserimento mirato del lavoratore in azienda.
In terzo luogo, si deve procedere alla costituzione di un sistema di politiche che intervenga in maniera attiva e preventiva, riformando profondamente ammortizzatori sociali e incentivi all’occupazione. Tale riforma, poiché appare in stretto collegamento con il riequilibrio complessivo della spesa per protezione sociale, dovrà procedere in maniera graduale man mano che le risorse finanziarie necessarie si renderanno effettivamente disponibili. Inoltre occorre tenere presente che essa si inserisce nell’azione di riduzione progressiva del carico fiscale e contributivo gravante sul lavoro. Un importante elemento qualitativo risiederà nel coinvolgimento del beneficiario, che dovrà ricercare attivamente un’occupazione secondo un percorso che può avere anche natura formativa, da concordare preventivamente con i servizi pubblici per l’impiego. Peraltro, anche se si preferiranno strumenti automatici, tanto nel caso delle misure passive quanto in quello delle misure attive, i servizi per l’impiego, pubblici e privati, dovranno operare nel senso della prevenzione di abusi e di aumento della selettività effettiva di determinati strumenti, promuovendone il ricorso effettivo tra i soggetti più deboli.
La scarsa partecipazione delle donne nel mercato del lavoro italiano rappresenta, come già ricordato, una situazione di fortissimo ritardo del nostro paese rispetto agli standard europei. Le politiche del lavoro che saranno adottate dovranno tenere conto di questa peculiarità e dovranno anzitutto rimuovere tutti quei fattori esterni al lavoro che influenzano negativamente la decisione delle donne di iniziare un’attività lavorativa. Inoltre, occorre effettuare uno sforzo di ripensamento complessivo di tutte le politiche nella prospettiva di rafforzare le opportunità di lavoro e di carriera delle donne. Si tratta di agire non solo dunque per ragioni di equità sociale ma anche per un miglioramento dell’efficacia del mercato del lavoro e della sua qualità.
Avvicinare la domanda e l’offerta di lavoro è una delle scelte di fondo a cui si ispira il Libro Bianco. Tale principio va applicato anche ai fenomeni di immigrazione che l’Italia ha finora subito, senza essere in grado di programmare in maniera adeguata. Come recenti indagini hanno confermato, un’immigrazione non controllata rischia di abbassare la qualità del mercato del lavoro, poiché concorre ad alimentare l’economia sommersa. Inoltre, essa genera pericolose frizioni sul piano sociale e dell’accesso ai diritti di cittadinanza principali. Il disegno di legge predisposto e le successive misure, coniugando strettamente contratto di lavoro e permesso di soggiorno possono concorrere alla definizione di un mercato del lavoro più trasparente ed efficiente, che inserisca pienamente i lavoratori extracomunitari nel lavoro regolare, assicurando una prioritaria attenzione ai lavoratori extracomunitari già iscritti nelle liste dei servizi pubblici per l’impiego ed ancora in cerca di un’occupazione garantendo così le condizioni per una pacifica convivenza sociale. La diffusione del lavoro autonomo tra gli immigrati può concorrere a perpetuare mestieri altrimenti destinati a scomparire nonché a favorire i processi di integrazione sociale.
Mercato e organizzazione del lavoro si stanno evolvendo con crescente velocità. Non altrettanto avviene per i rapporti di lavoro: il sistema regolativo ancor oggi utilizzato in Italia non è più in grado di cogliere e governare la trasformazione in atto. Assai più che semplice titolare di un "rapporto di lavoro", il prestatore di oggi e, soprattutto, di domani, è un collaboratore che opera all’interno di un "ciclo". Si tratti di un progetto, di una missione, di un incarico, di una fase dell’attività produttiva o della sua vita. Il percorso lavorativo è segnato da cicli in cui si possono alternare fasi di lavoro dipendente ed autonomo, in ipotesi intervallati da forme intermedie e/o da periodi di formazione e riqualificazione professionale. Il quadro giuridico-istituzionale ed i rapporti costruiti dalle parti sociali, quindi il diritto del lavoro e le relazioni industriali, devono cogliere queste trasformazioni in divenire, agevolandone il governo.
Il mercato del lavoro italiano necessita, quindi, di importanti modifiche al suo apparato regolatorio, procedendo organicamente ad una modernizzazione dell’organizzazione e dei rapporti di lavoro, auspicabilmente d’intesa con le parti sociali. L’introduzione della nuova normativa sul contratto a termine rappresenta un primo esempio di queste azioni.
Il miglioramento qualitativo del rapporto di lavoro deve avvenire mediante un uso corretto del contratto di lavoro a tempo indeterminato, evitando che si diffondano flessibilità in entrata per aggirare i vincoli o le tutele predisposte per la flessibilità in uscita. Pertanto, appare importante incentivarne l’utilizzo, con particolare riguardo alla trasformazione del contratto a termine, nonché superare gli eventuali ostacoli normativi che frenano il ricorso a questa tipologia contrattuale, senz’altro fondamentale per garantire una società attiva basata sulla qualità del lavoro.
Interventi correttivi appaiono urgenti per eliminare quegli ostacoli normativi che ancora rendono complicato l’utilizzo delle tipologie contrattuali flessibili, che sono state utilizzate in larga misura in tutti i paesi europei senza che questo abbia comportato situazioni di esclusione sociale o di bassa qualità del lavoro. In questo ambito, il contratto di lavoro a tempo parziale deve essere reso più usufruibile, intervenendo sulle cosiddette "clausole elastiche" e sull’istituto della "denuncia". Il contratto interinale, la cui disciplina deve essere coordinata con quella del lavoro temporaneo, deve migliorare la sua funzione di strumento che favorisce l’incontro tra domanda e offerta. Più in generale, appare opportuno avviare una riforma complessiva della disciplina in materia di intermediazione di manodopera, anche alla luce dei processi di esternalizzazione del lavoro e nel rispetto delle condizioni di tutela del lavoro.
D’altro lato, occorre prevedere nuove tipologie contrattuali che abbiano la funzione di "ripulire" il mercato del lavoro dall’improprio utilizzo di alcuni strumenti oggi esistenti, in funzione elusiva o frodatoria della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato, e che, nel contempo, tengano conto delle mutate esigenze produttive ed organizzative. In questa ottica, si segnala la proposta di introdurre il "lavoro intermittente", consentendo a numerosi soggetti di percepire un compenso minimo per la propria disponibilità, aumentando poi l’ effettiva retribuzione in ragione dell’ orario effettivamente richiesto, nonché della prospettazione del lavoro a progetto, come forma di lavoro autonomo parasubordinato in cui rileva fortemente il fattore della realizzazione appunto di un progetto avente precisi requisiti in termini di quantificazione temporale ma anche di qualità della prestazione. Questi interventi sono finalizzati a bonificare il mercato del lavoro dalle collaborazioni coordinate e continuative, spesso fonte di abusi frodatori.
Un moderno sistema di relazioni industriali
In Italia, più che in tutti i maggiori paesi europei esiste una fortissima dispersione territoriale dei tassi di disoccupazione associata ad una quasi omogeneità territoriale dei livelli salariali. Siamo un paese molto "egualitario" in politica salariale, ma molto disuguale dal punto di vista delle condizioni del mercato del lavoro.
Questa situazione appare il risultato anche di un sistema di contrattazione collettiva che mantiene caratteristiche di centralizzazione inadatte ad assicurare una flessibilità della struttura salariale, che sia capace di adeguarsi ai differenziali di produttività e di rispondere ai diversi disequilibri del mercato. Lo scarso legame esistente tra produttività aziendale e condizioni del mercato locale del lavoro, da un lato, e retribuzioni, dall’altro, si traduce in più bassi livelli occupazionali. A questo si aggiunga che la scarsa crescita, l’alta disoccupazione, l’elevato carico fiscale e lo stesso modello contrattuale definito dagli Accordi del 1992-1993 - sopravvissuto alle condizioni per le quali fu concepito - hanno portato ad un’evoluzione poco lusinghiera dei salari reali al netto delle imposte, anche grazie alla crescita della pressione fiscale sul lavoro.
La crescita del tasso di occupazione e la riduzione del divario occupazionale tra Nord e Sud possono essere determinati anche dalla mobilità delle persone e delle imprese, stimolata da una più accentuata differenziazione dei rispettivi salari reali.
Appare opportuno, dunque, che le parti sociali anzitutto, e le istituzioni nazionali e locali, in quanto datori di lavoro, considerino l’opportunità di rivisitare l’attuale assetto contrattuale, al fine di dotarlo di una maggiore flessibilità. Ciò può avvenire rafforzando la contrattazione decentrata, e legandola in maniera più stretta ai luoghi in cui si determinano i guadagni di produttività, anche considerando le condizioni specifiche del mercato del lavoro.
In tutta Europa si è avuta un’evoluzione partecipativa delle relazioni industriali, nella convinzione che questo potesse contribuire ad accrescere le potenzialità competitive dell’azienda e dell’intero sistema economico del paese. In questo quadro, anche in Italia, di fronte alle sfide che si prospettano, di modernizzazione dell’organizzazione del lavoro, di competitività, di valorizzazione del capitale umano, i rapporti tra le parti sociali si devono sviluppare in senso sempre più partecipativo, in particolare, ma non solo, nel processo di trasposizione delle direttive comunitarie. Un primo importante obiettivo riguarda la direttiva sulla Società Europea, che dovrà individuare le sedi e le altre modalità per regolare convenientemente i diritti di informazione e consultazione, ispirando l’esercizio delle prerogative manageriali ad una logica di trasparenza e di fiducia tra le parti. Tuttavia, un maggiore sviluppo della dimensione partecipativa potrà riguardare il tema della partecipazione finanziaria dei lavoratori, ed in particolare del cosiddetto azionariato dei dipendenti.
Nel corso del decennio appena trascorso il ricorso allo sciopero quale forma di regolazione del conflitto tra le parti ha subito una progressiva perdita di importanza. Tuttavia, ciò è avvenuto soprattutto nel settore industriale, mentre comportamenti irrispettosi delle esigenze degli utenti e dei consumatori si sono determinati nei servizi essenziali, con particolare riferimento al settore dei trasporti. La riforma della legge avvenuta nell’ultima legislatura può indurre decisioni più coraggiose da parte della Commissione di Garanzia, con particolare attenzione al criterio della "rarefazione oggettiva" - che garantisce adeguati intervalli agli utenti tra uno sciopero e l’altro - e alle procedure di raffreddamento dei conflitti, a partire dal referendum consultivo obbligatorio.
Occorrerà verificare, inoltre, la possibilità di rafforzare, con sedi nuove e più efficienti la prevenzione e composizione delle controversie collettive di lavoro, con particolare ma non esclusiva competenza nella gestione del conflitto nei servizi essenziali.
Il mercato del lavoro in Italia: inefficienze ed iniquità
1. Raccomandazioni dell’Unione Europea
Le ‘Raccomandazioni’ rivolte all’Italia dall’Unione Europea nell’ambito della cosiddetta Strategia Europea sull’Occupazione hanno sottolineato, più volte, la difficile situazione in cui versa il mercato del lavoro e l’insufficienza delle politiche fin qui attuate. Peraltro, più anni sono trascorsi senza che venissero introdotti quegli interventi in grado di modificarne in maniera sostanziale la situazione.
Dal punto di vista delle condizioni del mercato del lavoro, la Commissione Europea nella proposta di Rapporto Congiunto 2001 che deve essere ancora discusso dal Consiglio Europeo, rileva che, nonostante nel gennaio 2001 il tasso di disoccupazione in Italia sia sceso sotto il 10%, il tasso di occupazione rimane sempre al 53,5%, 10 punti percentuali al di sotto della media europea e il più basso fra tutti i paesi dell’Unione Europea. Inoltre, continuano ad essere presenti persistenti difficoltà strutturali quali il basso livello di occupazione giovanile e di attività delle generazioni più anziane, profonde differenze di genere, squilibri regionali molto marcati.
Dal punto di vista delle politiche, la Commissione ritiene che nel complesso la Strategia Europea sull’Occupazione non sia stata attuata da parte del nostro Paese. Si rileva, infatti, che l’Italia ha proceduto all’implementazione di politiche già previste, piuttosto che introdurre misure innovative al fine di realizzare il policy mix raccomandato (coordinando cioè i quattro pilastri del processo di Lussemburgo). Sono inoltre segnalati ritardi nella verifica del sistema pensionistico, nelle azioni preventive della disoccupazione giovanile di lungo periodo e più in generale nelle misure correttive in senso preventivo della disoccupazione, nel sistema di servizi pubblici all’impiego. L’utilizzazione in Italia di forme di lavoro non standard è ancora molto bassa (16,1%), tenuto conto che il 60% dei nuovi posti di lavoro sono stati creati ricorrendo a tipologie flessibili sul lavoro. Infine, per quanto riguarda le azioni sulle pari opportunità, la Commissione rileva che le azioni intraprese hanno sortito solo miglioramenti marginali ed è quindi necessario passare da misure erratiche ad una strategia più globale, finalizzata, con priorità assoluta alla riduzione del gender gap.
Più in particolare, anche quest’anno, come negli anni precedenti, l’Italia è stata invitata a:
perseguire una riforma delle politiche del lavoro volte ad aumentare il tasso di occupazione, in particolare delle donne. Queste riforme dovrebbero indirizzarsi a ridurre gli squilibri regionali rafforzando le politiche per l’occupabilità e promuovendo la creazione di posti di lavoro e la riduzione del lavoro irregolare, con un attivo coinvolgimento delle parti sociali;-
-
continuare ad accrescere la flessibilità del mercato del lavoro con un approccio che possa meglio combinare la sicurezza con una maggiore adattabilità al fine di facilitare l’accesso al lavoro; proseguire l’implementazione della riforma del regime pensionistico attraverso la revisione prevista per il 2001 ed avviare la prevista riorganizzazione degli altri regimi previdenziali, onde ridurre le uscite dal mercato del lavoro, e così elevare il grado di partecipazione degli anziani; proseguire inoltre gli sforzi per la riduzione della pressione fiscale sul lavoro, in particolare per i lavoratori scarsamente retribuiti e per quelli con bassa qualifica;-
nel contesto delle politiche per l’occupabilità, intraprendere ulteriori azioni al fine di prevenire l’entrata nella disoccupazione di lunga durata dei lavoratori giovani e adulti. Tali azioni dovrebbero includere: la piena e completa attuazione della riforma dei servizi pubblici all’impiego in tutto il paese; l’accelerazione dell’introduzione del sistema informativo del lavoro; e la prosecuzione dell’impegno attuale volto a migliorare il sistema di monitoraggio statistico;-
migliorare l’efficacia delle politiche attive per il lavoro e attuare specifiche misure per ridurre l’ampio divario di genere in termini di occupazione e di disoccupazione, nell’ambito di un approccio orizzontale di genere, e in particolare fissando obiettivi per l’offerta di asili nido ed altri servizi di sostegno;-
rafforzare le azioni per adottare ed attuare una strategia coerente per la formazione continua, stabilendo obiettivi nazionali; le parti sociali dovrebbero essere più attive nell’ offerta di maggiori opportunità di formazione alla forza lavoro.
A tutte queste sollecitazioni occorrerà che l’Italia risponda con efficacia e tempestività, trattandosi di obblighi derivanti dalla sua appartenenza all’Unione Europea.
Il Governo ritiene che queste siano indicazioni molto puntuali e rigorose, che non possono non essere condivise, e da cui occorre partire nel delineare la politica sull’occupazione dei prossimi anni. Per questo motivo richiama tutte le istituzioni coinvolte e tutte le parti sociali affinché siano predisposte iniziative ed interventi per affrontare i nodi critici del mercato del lavoro italiano. Come primo contributo in tal senso, il Governo, con questo Libro Bianco, intende proporre a tutti i suoi interlocutori un’agenda di discussione da cui possa derivare, in tempi rapidi, un programma di politiche adeguate.
2. Andamenti e caratteristiche del mercato del lavoro italiano
2.1. Crescita economica ed intensità occupazionale
Il mercato del lavoro italiano è stato, per anni, caratterizzato da condizioni di strutturale difficoltà, soprattutto dopo la grave crisi subita nei primi anni del decennio appena trascorso. Pur continuando a sperimentare un ritardo rispetto a tutti gli altri paesi industrializzati, di cui il tasso di occupazione è un fedele indicatore, negli ultimi anni si è assistito allo svilupparsi di una moderata dinamica favorevole delle grandezze occupazionali. In particolare, è emersa una maggiore correlazione tra crescita del prodotto e crescita dell’occupazione, nonché una forte diffusione delle cosiddette forme di lavoro atipico.
Le flessibilità introdotte a partire dal 1997 (pacchetto Treu) hanno consentito una prima inversione di tendenza. Nel quinquennio 1995-2000 l’elasticità dell’occupazione al PIL (misurata come rapporto tra dinamica della prima e del secondo) si è ragguagliata al 54%, a fronte di un valore del 12% nella fase di crescita registratasi nella seconda metà degli anni ottanta (Tav. 1; Fig.1).
Tav. 1 – Elasticità dell’occupazione al PIL: evoluzione nell’ultimo quindicennio
|
1985-1990 |
1990-1995 |
1995-2000 |
Variazione % cumulata del PIL |
15,1 |
6,5 |
9,8 |
Variazione % cumulata delle unit à standard di lavoro nei conti nazionali |
3,7 |
-3,8 |
4,1 |
Variazione % cumulata delle persone occupate nell ’indagine forze di lavoro |
1,8 |
-4,7 |
5,3 |
Contenuto occupazionale della crescita (unit à standard) |
0,24 |
-0,59 |
0,42 |
Contenuto occupazionale della crescita (persone occupate) |
0,12 |
-0,72 |
0,54 |
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT, conti nazionali e indagini sulle forze di lavoro (per il periodo 1990-95, la serie dell’occupazione nell’indagine forze di lavoro è quella ricostruita dalla Banca d’Italia per tener conto del break nell’indagine all’ottobre 1992).
A denotare il legame tra aumentati margini di flessibilità e crescita occupazionale è sia l’esame della composizione interna di quest’ultima –in cui prevalgono il lavoro c.d. atipico e taluni gruppi demografici tradizionalmente più ai margini del mercato del lavoro– sia il più forte ed immediato legame tra crescita del PIL ed andamenti dell’occupazione. A tale risultato ha contribuito la crescita del part time che ha elevato il numero di persone fisiche occupate a parità di input di lavoro in termini di unità standard (come misurate nei conti nazionali). Queste sono così cresciute meno del numero di persone fisiche occupate (del 4,1% cumulato a fronte del +5,3% cumulato degli occupati conteggiati nell’indagine sulle forze di lavoro nel quinquennio 1995-2000).
A denotare la crescita dell’occupazione si segnala come tra il 1995 e il 2000 il tasso di occupazione nella classe d’età 15-64 anni sia passato dal 50,6 al 53,5%, con una significativa accelerazione nel biennio 1998-2000 (a cui vanno attribuiti due dei tre punti della crescita totale prima ricordata) in concomitanza con una crescita del PIL che, pur se ancora stentata, è stata più sostenuta che nel triennio precedente (Fig. 1). Il miglioramento è stato particolarmente marcato nella componente femminile (+4,1 punti in termini di tasso di occupazione). Anche per i più giovani, la disoccupazione esplicita, come quota della popolazione totale tra 15 e 24 anni, è calata nello stesso quinquennio dal 12,6 all’11,8%, a beneficio di un aumento sia dell’occupazione che della partecipazione alla scuola.
Fig.1 - Tassi di variazione del PIL e dell'occupazione (dati trimestrali destagionalizzati)
Dal punto di vista settoriale, la crescita dell’occupazione nel quinquennio 1995-2000 è stata caratterizzata dall’espansione di settori ed attività a minore intensità effettiva di capitale, uno sviluppo in parte connesso con lo spostamento progressivo dell’occupazione dall’industria ai servizi –settori caratterizzati da un più contenuto trend nella produttività del lavoro– ma favorito anche proprio dalla maggiore flessibilità del lavoro.
2.2. Flessibilità e precarietà
Nonostante le preoccupazioni e i rilievi avanzati su un eccesso di flessibilità nel mercato del lavoro italiano, alquanto contenuti sono rimasti sinora i rischi che dalla maggiore flessibilità scaturisse un’accentuazione dei fenomeni di precarietà.
Il lavoro atipico è certamente stata la componente principale della maggiore occupazione, ma le vicende del biennio 1998-2000 testimoniano come, in concomitanza di tassi significativi di sviluppo del PIL (cresciuto del 2,3% all’anno nel biennio, a fronte di una crescita dell’1,6% nel triennio precedente), anche il lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato cresca senza ostacoli (Tav. 2). Peraltro, ancora basso appare il ricorso al lavoro a termine, anche nel confronto internazionale (i rapporti a tempo determinato erano nel 2000 il 7,5% dell’occupazione totale, in crescita rispetto al 5,4% del 1995, ma ancora ben al di sotto dell’11,4% medio della UE).
Tav. 2 – Contributi alla variazione percentuale dell’occupazione delle diverse tipologie di lavoro |
||||||
93-95 (a) |
95-98 (a) |
98-00 (a) |
00-01 (a) |
95-01 (a) |
Livello 2001 (b) |
|
Variazione totale dell’occupazione |
-2,8 |
1,9 |
2,6 |
2,6 |
7,3 |
100,0 |
Contributi alla variazione |
||||||
Autonomi |
-0,3 |
0,2 |
0,2 |
0,5 |
0,9 |
27,9 |
|
-0,4 |
0,3 |
-0,1 |
0,5 |
0,7 |
25,8 |
|
0,1 |
-0,1 |
0,2 |
0,0 |
0,2 |
2,1 |
Dipendenti |
-2,5 |
1,7 |
2,4 |
2,1 |
6,4 |
72,1 |
|
-3,4 |
0,1 |
0,1 |
1,6 |
1,9 |
60,8 |
|
0,9 |
1,6 |
2,3 |
0,5 |
4,5 |
11,3 |
|
||||||
|
0,4 |
0,6 |
0,8 |
0,5 |
2,0 |
4,5 |
|
0,6 |
0,6 |
1,0 |
0,0 |
1,6 |
4,6 |
|
-0,0 |
0,5 |
0,4 |
-0,0 |
0,9 |
2,2 |
(a)
variazione percentuale relativa alla media delle rilevazioni di gennaio ed
aprile degli anni considerati. Fonte: elaborazioni su dati ISTAT, indagine sulle Forze di Lavoro. |
Il lavoro atipico non sempre è sinonimo di precarietà. E’ sufficiente osservare alcune prime evidenze empiriche. Nell’impiego a tempo ridotto, cresciuto dal 6,3 all’8,4% dell’occupazione complessiva tra 1995 e 2000, la componente volontaria prevale largamente, specie tra le donne e nel Centro-Nord. Il dato meno favorevole del Mezzogiorno evidenzia come la più diffusa precarietà dell’occupazione nell’area, che interessa anche il part time, sia da correlare al contesto economico generale meno favorevole e non tanto a specifici problemi di tutela e regolamentazione di questo particolare rapporto di lavoro.
Gli sviluppi di questi ultimi anni testimoniano, dunque, che il marcato sviluppo delle tipologie atipiche di lavoro non rappresenta un evento transitorio né appare destinato ad esaurirsi poiché copre solamente un segmento del mercato del lavoro. Anche per il lavoro a termine, pur denotandosi una probabilità di occupazione nei successivi dodici mesi significativamente inferiore rispetto a quella degli occupati a tempo indeterminato, il trend nel tempo è positivo, con una riduzione delle differenze esistenti.
E’ peraltro possibile che, ove alla maggiore flessibilità in entrata non dovesse corrispondere un complessivo riequilibrio della regolamentazione del mercato del lavoro, con il passaggio da una tutela centrata sul rapporto di lavoro in essere ad un regime di tutele garantite soprattutto nel mercato, i pericoli di segmentazione nel mercato del lavoro finirebbero con l’aggravarsi.
Per questo motivo, il Governo sollecita tutte le parti sociali a segnalare le tendenze percepite in questo senso e a valutare l’impatto delle asimmetrie tra flessibilità in entrata e rigidità in uscita. Tali asimmetrie possono nascondere anche una pericolosa frattura sociale tra generazioni, ove è chiaro che i segmenti più giovani trovano accesso al mercato del lavoro con contratti flessibili mentre la popolazione meno giovane e dinamica rimane caratterizzata da contratti tradizionali da lavoro dipendente.
Il Governo ritiene che, nonostante i segnali di crescita occupazionale descritti, l’eredità del passato rimane alquanto pesante e che molti sono i nodi critici ancora irrisolti.
Il tasso di occupazione (53,5% nella classe 15-64anni d’età) è ancora ben lontano dall’obiettivo che l’Unione Europea nel suo insieme si è posta per il 2010 (70%). Ancor più ampia è la distanza dei livelli attuali dell’occupazione rispetto alle soglie UE al 2010 per la componente femminile (39,6% contro 60%) e per i 55-64enni (27,8% contro 50%). Per questi ultimi, le tendenze realizzatesi nel periodo 1995-2000 sono addirittura nel senso di una riduzione dei livelli occupazionali, ormai tra i più bassi nel panorama europeo. Tenuto conto del peso crescente che i lavoratori più anziani avranno nella popolazione complessiva, è tra l’altro da rilevare come, ove non si arrestasse quella tendenza declinante, da qui al 2005 ne risulterebbe, coeteris paribus, compresso di sei decimi di punto lo stesso tasso di occupazione complessivo (Ministero del Lavoro e Politiche Sociali, Rapporto di Monitoraggio, 1-2001, scheda 1).
La causa principale della distanza tra i livelli occupazionali medi dell’Italia rispetto ai target europei è ascrivibile al Mezzogiorno, che dista dagli attuali livelli medi UE di oltre venti punti percentuali sia per il totale che per la componente femminile (Tav. 3). Tuttavia, anche nel Centro-Nord i livelli occupazionali rimangono inferiori rispetto ai target europei ed agli stessi odierni livelli medi dell’UE (59,9% contro 63,3% per il totale e 48% contro 53,4% per la componente femminile). Il divario è concentrato tra i giovani e, soprattutto, nel caso dei maschi, tra i più anziani; più diffuso nel caso della componente femminile. Fatto salvo il caso degli anziani, il Centro-Nord ha però evidenziato una certa tendenza al recupero dei gap esistenti. Nel quinquennio 1995-2000 la crescita del tasso d’occupazione è stata significativamente superiore a quella media UE per la componente femminile (+5,7 punti percentuali nel Centro-Nord contro il +3,7 medio della UE); è invece risultata leggermente meno accentuata per i maschi (+1,8 punti percentuali contro il +2,3 medio della UE), nel cui caso ha influito soprattutto la negativa performance dei 55-64enni. In termini di scenario, immaginando di replicare le tendenze del biennio 1998-2000) e realizzando una qualche inversione di tendenze per i soggetti più anziani, queste regioni sarebbero in grado di superare al 2010 le soglie UE del 70% e del 60% rispettivamente per l’occupazione totale e femminile (Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Rapporto di Monitoraggio no. 1-2001, scheda 1).
Nell’ottica di una strategia che miri all’innalzamento dei livelli occupazionali verso i traguardi posti in sede europea quattro appaiono le aree maggiormente problematiche: il Mezzogiorno, l’ingresso nel mondo del lavoro dei più giovani, la fuoriuscita ancora troppo precoce dal mondo del lavoro dei più anziani e la scarsa, pur se crescente, partecipazione al mondo del lavoro della componente femminile.
il Mezzogiorno…
Il dualismo territoriale rappresenta il nodo fondamentale del mercato del lavoro italiano, quello in cui si esplicita la segmentazione più evidente. Tutti i dati esistenti testimoniano di un’area che presenta un marcato squilibrio tra domanda e offerta, con conseguente sottoutilizzo di risorse umane. I bassi livelli occupazionali del Mezzogiorno si riconnettono con la più generale questione delle prospettive di sviluppo economico di quelle regioni.
Il Mezzogiorno si caratterizza per un livello del PIL per abitante pari al 56% circa di quello del Centro-Nord (SVIMEZ, 2000). Il divario, ampliatosi nell’ultimo quindicennio, è ascrivibile tanto ad una minore produttività per occupato che ai più bassi livelli dell’occupazione nella popolazione. La bassa produttività, conseguenza anche di diversi fattori ambientali, deprime la domanda di lavoro e la capacità d’impiego, per dati salari, delle imprese meridionali. Lo scarso legame esistente tra produttività aziendale e condizioni del mercato locale del lavoro, da un lato, e retribuzioni, dall’altro, si traduce quindi in più bassi livelli occupazionali.
In questo quadro, la "valvola di sfogo" rappresentata dall’economia sommersa risulta essere inefficace, oltre che fonte di iniquità. Secondo le ultime stime ISTAT disponibili (1999), le unità di lavoro classificabili come non regolari erano quasi tre milioni e mezzo (come stimate nell’ambito dei conti nazionali), pari al 15,1% del volume di lavoro complessivamente impiegato nell’economia. L’incidenza del lavoro non regolare appare massima nei servizi domestici e nell’agricoltura (rispettivamente 80% e 30% circa del volume complessivo di lavoro). Valori significativamente più elevati della media si registrano però anche nel commercio e nelle costruzioni. A livello territoriale, il fenomeno è poi concentrato nel Mezzogiorno, dove l’irregolarità di solito travalica il mancato assolvimento degli obblighi contributivi e fiscali, per comportare anche il ricorso a condizioni lavorative, salariali e non, inferiori rispetto agli standard contrattuali. Peraltro, molte attività svolte nel sommerso riescono a sopravvivere proprio grazie al più basso costo del lavoro che le contraddistingue.
D’altro canto, la precarietà dei rapporti di lavoro propri dell’economia sommersa, l’impossibilità di crescere delle imprese che al suo interno operano e sopravvivono proprio grazie all’evasione delle diverse norme salariali, fiscali e regolamentative, certo non facilita lo sviluppo della produttività e l’innesco di un circolo virtuoso di sviluppo economico che dovrebbe consentire l’innalzamento progressivo dei salari effettivi. In particolare nel Mezzogiorno, flessibilità nel mercato del lavoro, fuoriuscita dal sommerso ed azioni di contesto atte ad innescare processi di crescita della produttività globale dell’area appaiono perciò come strategie interconnesse e non alternative al fine di innescare nell’area un processo di sviluppo economico e di crescita dell’occupazione regolare.
i giovani…
Il tasso di disoccupazione delle fasce di età più giovani continua ad essere uno dei più elevati dei paesi europei a confermare come questo sia una delle caratteristiche più negative del mercato del lavoro italiano. Ugualmente, le prospettive dei giovani nel mercato del lavoro, pur se migliorate negli ultimi anni proprio grazie alla maggiore flessibilità in ingresso introdotta (specie nel Centro-Nord), ancora appaiono contraddistinte da una difficoltosa transizione dalla scuola al lavoro. Si tratta di due ambiti piuttosto separati, con il risultato di un prolungamento dei tempi di accesso nel mondo del lavoro e del rischio di una progressiva disincentivazione degli investimenti in capitale umano.
L’Italia, va ricordato, continua ad avere un significativo gap nei livelli educativi, rispetto alla media dei paesi OCSE, anche considerando le classi d’età più giovani: nel 1999, solo l’11,3% dei 35-44enni era in possesso d’un titolo di studio universitario a fronte d’una media OCSE del 14,9. Gli anni novanta hanno tra l’altro evidenziato un certo rallentamento nei ritmi di crescita degli anni di scolarità media nella popolazione adulta, anche se segnali favorevoli risultano per quanto riguarda sia la frequenza scolare nel post-obbligo e sia le immatricolazioni universitarie.
Significativi miglioramenti nel facilitare l’accesso dei più giovani al mercato del lavoro sono derivati dagli strumenti di flessibilità introdotti a partire dal 1997. Un canale come quello dell’interinale, ad esempio, consente a chi sia studente di fare brevi esperienze lavorative che poi potranno essere utili nel momento in cui dovrà cercarsi una collocazione lavorativa a tempo pieno. Poco diffuse sono però ancora le figure miste, di studenti che ad esempio svolgano lavori part time di breve durata, a differenza di una situazione come quella olandese, dove il forte sviluppo del part time è spiegato, oltre che dalla componente femminile, dalla crescita sostenuta del cosiddetto part time breve (inferiore alle dodici ore settimanali) tra gli studenti.
gli anziani…
L’invecchiamento della popolazione, in Italia più rapido che in altri paesi industrializzati, è stato un fenomeno che solo recentemente ha trovato un’adeguata attenzione presso istituzioni e attori sociali. Il continuo aumento della disoccupazione dei gruppi più anziani e la loro scarsa partecipazione al mercato del lavoro sono segnali che sono stati a lungo sottovalutati.
Occorre rilevare come, nel caso della componente maschile, il forte calo registratosi nei rapporti di lavoro a tempo pieno e indeterminato, connesso con i processi di pensionamento, non è stato compensato dalla crescita del lavoro atipico (a tempo parziale e/o determinato). Particolarmente scarso risulta essere il ricorso al part time proprio per quanto riguarda i lavoratori più anziani. L’aumento del part time realizzatosi nel complesso della popolazione è nel caso dei 55-64enni piuttosto contenuto, addirittura irrilevante nel caso dei maschi.
Sull’evoluzione di queste dinamiche hanno giocato un ruolo gli scarsi incentivi alla prosecuzione dell’attività lavorativa. Paradossalmente per i lavoratori anziani è rimasto accessibile il canale delle pensioni d’anzianità, non applicandosi neppure le norme relative al nuovo sistema pensionistico contributivo, che avrebbe invece già insiti meccanismi d’incentivazione del proseguimento dell’attività lavorativa e, basando il calcolo dei trattamenti pensionistici sull’intera vita lavorativa e non solo sugli ultimi anni di contribuzione, non disincentiverebbero il passaggio eventuale a rapporti di lavoro a tempo parziale. Più in generale va rilevato come, stante l’elevato livello degli oneri contributivi ancora vigenti, i meccanismi di flessibilità all’ingresso sinora introdotti, non operanti nel caso dei soggetti più anziani e basati spesso su rapporti contrattuali caratterizzati da un minore peso contributivo, hanno contribuito a favorire uno spostamento della domanda di lavoro verso le nuove generazioni.
le donne…
La componente femminile è quella per la quale la crescita occupazionale nell’ultimo quinquennio è stata più consistente, specie nel Centro-Nord, ove si è ridotto il gap che comunque permane rispetto alla media UE (gap che è invece massimo ed è cresciuto ancora nel caso del Mezzogiorno; cfr. Tav. 3).
La crescita della presenza femminile nel mercato del lavoro ha interessato pressoché tutte le classi d’età e, particolarmente nel Centro-Nord, sembra comportare una modifica strutturale nel modello della presenza femminile nel mercato del lavoro lungo il ciclo di vita. Opportunità importanti, atte a conciliare vita familiare e presenza nel mercato del lavoro, sono discese anche dallo sviluppo del part time, sostenuto proprio per le donne con figli minori a carico. L’Italia da questo punto di vista rimane, però, un paese in cui scarsa è la presenza di sostegni alle famiglie con figli minori, soprattutto in termini di disponibilità di servizi, pubblici e privati, per cui spesso tra scelte lavorative e scelte relative alla fecondità si genera un accentuato trade-off.
La maggiore presenza femminile, favorita dagli strumenti di flessibilità all’ingresso oltre che da mutamenti tecnologici e culturali, non appare aver portato a fenomeni di accentuata precarizzazione della componente femminile nel mercato. Come detto, nel part time è particolarmente bassa l’incidenza della componente involontaria proprio nel caso delle donne. L’aumento dell’occupazione femminile non è, inoltre, andato a discapito della retribuzione relativa delle donne, anche se rimane un divario di circa venti punti percentuali nei salari maschili e femminili.
la disoccupazione di lunga durata
Un ulteriore squilibrio che caratterizza il mercato del lavoro in Italia è costituito dalla quota estremamente elevata dei disoccupati con un lungo periodo di ricerca di lavoro. Il tasso di disoccupazione di questo segmento specifico è pari all’8,3% mentre la media europea si posiziona al 4,9%. Anche l’incidenza risulta tra le più elevate in Europa, con differenziali molto sensibili.
La crescita dello stock di disoccupati è da attribuirsi al progressivo aumento delle persone con una durata di ricerca particolarmente lunga. In particolare, appaiono colpiti da questa condizione coloro che non possiedono precedenti esperienze lavorative, vale a dire i segmenti più giovani della popolazione, piuttosto che quelli che hanno perso un precedente posto di lavoro. Questo fenomeno indica la presenza di ancora rilevanti barriere all’entrata o la difficoltà di accesso al mercato del lavoro e quindi appare da imputare ad ostacoli di carattere regolatorio.
Occorre sottolineare, tuttavia, come una lunga permanenza nella disoccupazione di individui con precedenti esperienze lavorative, pure avendo minore rilevanza in termini di funzionamento del mercato del lavoro, possa comportare effetti sociali più pesanti, con seri rischi di marginalizzazione ed esclusione sociale per questi soggetti.
Tav. 3 – Occupazione e disoccupazione: il gap con l’Europa (valori %) |
||||||||||||
|
Tasso di occupazione |
|
Tasso di disoccupazione. |
|
15-24enni in cerca di lavoro: % sulla popolazione |
|||||||
|
Maschi(a) |
Femmine(a) |
Totale(a) |
|
55-64enni |
|
Maschi |
Femmine |
Totale |
|
|
|
|
|
|
|
|||||||||
|
1995 |
|
|
|||||||||
Centro - Nord |
70,0 |
42,3 |
56,2 |
|
27,3 |
|
5,2 |
11,4 |
7,6 |
|
9,9 |
|
Mezzogiorno |
58,4 |
23,1 |
40,6 |
|
30,9 |
|
16,3 |
28,9 |
20,4 |
|
17,0 |
|
Italia |
65,9 |
35,4 |
50,6 |
|
28,5 |
|
9,0 |
16,2 |
11,6 |
|
12,8 |
|
Unione Europea |
70,2 |
49,7 |
60 |
|
35,9 |
|
9,4 |
12,5 |
10,7 |
|
10,2 |
|
|
|
|
|
|||||||||
|
2000 |
|
|
|||||||||
Centro - Nord |
71,9 |
48,0 |
59,9 |
|
26,2 |
|
3,9 |
8,4 |
5,7 |
|
7,1 |
|
Mezzogiorno |
59,5 |
24,6 |
42,0 |
|
30,8 |
|
16,3 |
30,4 |
21,0 |
|
17,7 |
|
Italia |
67,5 |
39,6 |
53,5 |
|
27,7 |
|
8,1 |
14,5 |
10,6 |
|
11,7 |
|
Unione Europea |
*72,5 |
*54,0 |
63,3 |
|
*37,7 |
|
7 |
9,7 |
8,2 |
|
7,8 |
|
Fonti: Istat, rilevazione trimestrale delle forze di lavoro; Eurostat. |
|
|
|
|
|
|
||||||
* Stime Eurostat. (a) 15-64enni |
La criticità del mercato del lavoro in Italia non è determinata solo dagli indicatori quantitativi finora sottolineati. Esiste anche, ed è crescente, un problema di qualità del lavoro. Diverse sono le evidenze empiriche che fanno propendere per un giudizio non positivo sulla qualità del nostro mercato del lavoro, come recentemente sottolineato anche dalla Commissione Europea. La qualità non buona è anzitutto insita nei differenziali occupazionali già richiamati, nel concentrarsi della disoccupazione a livello geografico, nel gender gap e nei particolarmente bassi livelli occupazionali dei giovani e dei più anziani. Aspetti altrettanto importanti della qualità del lavoro attengono peraltro la presenza di investimenti formativi che facilitino lo sviluppo professionale e di carriera, all’interno e all’esterno dell’azienda, dei lavoratori, la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, nonché il bilanciamento tra esigenze e desideri di questi e flessibilità operative delle aziende.
Un mercato del lavoro flessibile, al contrario di quanto spesso temuto, può migliorare la qualità oltre che la quantità dei posti di lavoro, rendendo più fluido l’incontro tra obiettivi e desideri delle imprese e dei lavoratori in tema di caratteristiche della prestazione lavorativa, consentendo ai singoli individui di cogliere le opportunità lavorative più proficue ed evitando che gli stessi rimangano intrappolati in ambiti ristretti e segmentati. I lavoratori necessitano, in tale contesto, di adeguate forme di tutela, ma queste devono agire innanzitutto nel mercato, non operare contro il mercato o comunque esclusivamente nell’ambito del rapporto di lavoro in essere.
Da questo punto di vista, il nostro mercato del lavoro appare ancora alquanto immobilizzato, scontando anche l’insoddisfacente funzionamento dei servizi pubblici per l’impiego e dei processi di incontro tra domanda ed offerta. Se si valutano i dati relativi alla mobilità occupazionale, risulta che in media in Europa il 10% dei lavoratori di professionalità alta ha cambiato lavoro nell’ultimo anno, cercando opportunità occupazionali più convenienti. Questo dato sale al 12% per il Regno Unito, la Danimarca, la Francia e la Svezia. In Italia siamo al 5%, cioè all’ultimo posto nel contesto comunitario. Si tratta di un profilo poco analizzato (ci si concentra più spesso sul ben noto deficit di mobilità geografica), che invece ben rivela la staticità del nostro mercato del lavoro e l’inadeguatezza dei meccanismi di incrocio fra domanda e offerta.
In questo quadro il Governo condivide le preoccupazioni della Commissione europea quanto al nesso fra bassa qualità del mercato del lavoro e rischio di esclusione sociale. Come sottolineato a più riprese la segmentazione del mercato del lavoro si basa su di una divisione fra soggetti titolari di retribuzioni accettabili, con relativa sicurezza dell’impiego e prospettive di carriera, da un lato, e, dall’altro, non soltanto disoccupati e lavoratori "scoraggiati" ma anche quanti sono occupati in lavori di bassa qualità, basati sul precariato, senza prospettive di formazione o sviluppi di carriera.
La politica dei redditi e l’assetto contrattuale derivati dagli Accordi del 1992 e del 1993, da un lato hanno permesso il raggiungimento degli obiettivi macroeconomici allora prefissati (entrata nell’Unione Economica e Monetaria e risanamento della finanza pubblica), dall’altro hanno garantito la coerenza e la compatibilità delle diverse variabili economiche, in particolare dei salari.
In questi anni, tuttavia, maggiore flessibilità e moderazione salariale non sembrano aver portato ad uno spostamento a favore dei profitti lordi nella distribuzione funzionale dei redditi. La quota del lavoro nel valore aggiunto manifatturiero, specie se valutata al netto dello scalino connesso col passaggio dai contributi sanitari all’IRAP (contabilmente inseriti i primi nei redditi lordi da lavoro e la seconda nei profitti lordi nell’ambito dei conti nazionali), pur tra fluttuazioni cicliche, non mostra tendenze al declino in confronto con gli anni ottanta. Nei servizi privati emerge un trend negativo, peraltro arrestatosi negli ultimissimi anni, che sembra però attribuibile principalmente agli effetti una tantum della liberalizzazione di molti servizi e utilities–con le connesse ristrutturazioni straordinarie che ne sono seguite, specie nei primi anni novanta– ed all’ancora graduale e incompleto passaggio ad un regime di piena concorrenza. Il permanere di strutture di mercato non pienamente competitive rischia, infatti, di mantenere alti prezzi di vendita e profitti a discapito dei volumi produttivi e della stessa occupazione.
Durante il medesimo arco temporale, peraltro, scarsa crescita, alta disoccupazione ed elevato carico fiscale e lo stesso modello contrattuale scaturito dagli Accordi del 1992-1993 hanno portato ad un’evoluzione poco lusinghiera dei salari reali al netto delle imposte. Quest’ultima è da ascrivere, in particolare, alla crescita della pressione fiscale sul lavoro, che, nonostante la riduzione avviata negli ultimi anni, nel 2000 era ancora superiore a quella media UE.
La struttura della contrattazione collettiva in Italia è rimasta fortemente centralizzata, imperniata sul contratto nazionale di categoria. Un certo grado di coordinamento è stato garantito, quanto meno potenzialmente, dal predominio del livello confederale. Infatti, l’Accordo del 1993 ha trasformato il Ccnl in contratto biennale per la parte economica e quadriennale per la parte normativa, introducendo importanti principi generali di governo dei salari nominali. Il riferimento all’inflazione programmata svolge, infatti, un’importante funzione di coordinamento tra i diversi settori. Il principio di non automatico recupero dell’inflazione passata -dovendosi tenere conto delle eventuali origini esterne al sistema produttivo (variazioni delle ragioni di scambio), nonché delle condizioni economiche generali- contrasta il rischio di spirali inflazionistiche.
Il contratto di secondo livello, che avrebbe dovuto consentire possibili differenziazioni salariali, stabilendo uno stretto legame tra retribuzione e performance dell’impresa non ha trovato quella maggiore diffusione che si intendeva ottenere. Esso essendo non sistematico e non universale, e rimanendo circoscritto alle imprese più grandi, è rimasto più instabile nel tempo. Il contratto aziendale prevedeva una specializzazione tematica ed un orientamento verso meccanismi di profit sharing. In azienda, l’enfasi posta sul profit sharing ha contribuito ad un ulteriore passo in avanti verso relazioni industriali non conflittuali e si è registrato un effettivo incremento della quota di salario variabile.
Tuttavia, l’obiettivo di una maggiore decentralizzazione della contrattazione, tale da permettere un’effettiva redistribuzione dei guadagni di produttività, è stato solo parzialmente raggiunto. La distinzione dei ruoli dei due livelli di contrattazione, nazionale ed aziendale, è stata importante per potenziare la componente variabile del salario, ma non ha, di fatto, introdotto modifiche sostanziali nei meccanismi di formazione dei differenziali salariali "esterni", cioè quelli fra imprese, fra settori, fra aree territoriali. Il sistema di contrattazione collettiva ha mantenuto, dunque, caratteristiche di centralizzazione che si sono rivelate eccessive e inadatte ad assicurare quella flessibilità della struttura salariale capace di adeguarsi ai differenziali di produttività e di rispondere ai diversi disequilibri del mercato.
Il sistema di determinazione del salario in Italia favorisce il permanere di una struttura delle retribuzioni relativamente poco articolata. Inoltre, è da ricordare l’assenza di un regime di salario minimo legale. Tale funzione, infatti, è esercitata dai contratti collettivi nazionali di settore. Rispetto ad altri paesi, questa funzione è però svolta con minore efficacia, in termini di prevenzione di abusi, visto che i Ccnl hanno livelli salariali, in termini relativi rispetto alla retribuzione media effettiva, piuttosto elevati. Il livello dei minimi sanciti dai Ccnl corrisponde tra i due terzi e i tre quarti del salario medio effettivo, ben al di sopra del 50% circa garantito dai salari minimi legali nella maggior parte degli altri paesi europei che hanno questo strumento.
Al fine di determinare valori di equilibrio dei vari tipi di differenziali, il mercato ha continuato ad operare attraverso varie forme di slittamento salariale, trovando un limite, tuttavia, nei livelli minimi salariali fissati dai contratti nazionali, i quali hanno determinato una struttura delle retribuzioni più "compressa" di quella che sarebbe altrimenti risultata sulla base dell’azione dei fattori di carattere economico. In sostanza, invece di "liberare" i salari, essi sono stati ricondotti in un sistema di "gabbie". Queste osservazioni valgono anche (e soprattutto) per i differenziali salariali territoriali. I dati disponibili indicano che le retribuzioni sono più elevate al Nord rispetto al Sud, ma molto probabilmente, il differenziale è minore di quello che sarebbe necessario per avere un mercato del lavoro più equilibrato e per correggere i differenziali territoriali nei tassi di disoccupazione che contraddistinguono il nostro paese.
In confronto con altri grandi paesi europei, il nostro deteneva (1995, ultimi dati disponibili) il primato della dispersione territoriale dei tassi di disoccupazione, mentre è all’ultimo posto della graduatoria della dispersione territoriale dei livelli salariali (Tav. 4). Siamo un paese molto "egualitario" in politica salariale, ma molto disuguale dal punto di vista delle condizioni di lavoro.
Tav. 4 - Dispersione territoriale di disoccupazione, produttività e salari in alcuni paesi europei |
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Tasso di disoccupazione |
Valore aggiunto pro-capite |
Retribuzioni mensili |
N. aree per paese |
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(1996) |
(1994) |
(1995) |
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ITALIA |
62,8 |
24,6 |
8,4 |
10 |
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Francia |
18,4 |
25,1 |
16,0 |
8 |
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Regno Unito |
14,4 |
13,1 |
12,8 |
11 |
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Spagna |
21,1 |
18,4 |
11,7 |
7 |
La situazione non è molto cambiata in questi ultimi 5 anni, anzi, si può affermare che, per certi versi, è anche peggiorata. I differenziali territoriali delle retribuzioni e della produttività del lavoro non sono significativamente cambiati in questo periodo, mentre si è prodotta la progressiva de-fiscalizzazione degli oneri sociali nel Mezzogiorno. Questo insieme di fattori, costanza dei differenziali e de-fiscalizzazione, ha determinato un effetto perverso sui differenziali territoriali sia del costo del lavoro che del costo del lavoro per unità di prodotto. Il costo del lavoro medio nel Mezzogiorno si è avvicinato, in termini relativi, a quello medio del Nord, mentre il Clup (costo del lavoro per unità di prodotto) medio nel Mezzogiorno è aumentato ulteriormente, sempre in termini relativi, rispetto a quello del Nord. Entrambi gli effetti hanno comportato una perdita di competitività per le imprese del Mezzogiorno e, coeteris paribus, un minor incentivo per le iniziative imprenditoriali a localizzarsi nel Mezzogiorno.
In questo quadro, nelle regioni settentrionali l’aumento del tasso di occupazione appare conseguibile attraverso un aumento di offerta di lavoro. Un aumento dell’offerta di lavoro al Nord ed una significativa riduzione della disoccupazione al Sud possono richiedere, fra le altre cose, una più accentuata differenziazione dei rispettivi salari reali.
3. Politiche attive e politiche passive
Alla luce del complesso di obiettivi diversi da quelli strettamente quantitativi in tema di occupazione, oltre agli appena ricordati divari nei livelli e nelle chances occupazionali, che sono una causa prima di iniquità, p.es. tra occupati e disoccupati o tra maschi e femmine, occorre certamente valutare quanto le misure di flessibilità sinora introdotte abbiano risolto vecchie iniquità o ne abbiano introdotte di nuove.
L’impressione è che, nel facilitare l’accesso al lavoro di soggetti prima esclusi (donne, giovani), gli strumenti di flessibilità all’ingresso abbiano contribuito a ridurre le iniquità e le inefficienze discendenti da un mercato del lavoro rigido. Al tempo stesso, però, l’incompletezza del processo di introduzione di nuove flessibilità, lo scarso sviluppo di importanti strumenti di tutela nel mercato –un tratto tradizionale dell’Italia, in cui scarsamente efficaci sono stati i meccanismi di mediazione di manodopera e gli ammortizzatori sociali– il ridotto sviluppo di strumenti di sostegno al reddito dei meno abbienti, possono avere conseguenze negative nel nuovo contesto più flessibile. In altri termini, vi è il rischio che all’attenuazione delle rigide tutele relative al singolo rapporto di lavoro posto in essere non faccia da contraltare lo sviluppo di efficaci forme di tutele nel mercato, tutele tanto più necessarie nel contesto attuale di maggiore flessibilità, con un turn over occupazionale più intenso.
Da questo punto di vista i nodi maggiormente problematici riguardano tanto le c.d. politiche attive (incentivi e servizi a favore del primo impiego dei giovani e del reimpiego dei disoccupati) quanto quelle passive (ammortizzatori sociali) e, più in generale, le politiche sociali e fiscali di sostegno ai meno abbienti.
La spesa per politiche attive nel 2000 è stimabile allo 0,6% del PIL, un importo inferiore a quello medio dei paesi OCSE. Tenuto conto dell’importo speso per politiche passive, l’Italia emerge peraltro come un paese che già oggi spende relativamente di più in politiche attive che in politiche passive. Al di là della dimensione della spesa complessiva, i problemi principali sembrano però riguardare la composizione interna e l’efficacia delle politiche attive.
Anzitutto va rilevato che, in ossequio agli standard contabili Eurostat, la spesa per politiche attive ricomprende anche i Lavori Socialmente Utili, in quanto schemi di creazione diretta di posti di lavoro (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Rapporto di monitoraggio no. 1-2001). Quanto al resto, la voce prevalente è rappresentata dai cd contratti a causa mista (apprendistato e cfl) e da altri schemi di incentivazione finanziaria dell’impiego. Meno rilevanti, quanto a spesa e soprattutto quanto ad efficacia, sono gli interventi formativi propriamente detti e l’ausilio alla ricerca del lavoro da parte dei disoccupati. Le politiche attive del lavoro si sono identificate sostanzialmente con i sostegni al reddito.
Scarse sono le esperienze di politiche attive, soprattutto quelle che combinano azioni integrate finalizzate al reinserimento (orientamento, formazione, inserimento). Si è, infatti, eseguito un decentramento di competenze ma non di politiche. Esempi evidenti sono le carenze sulle politiche per l’immigrazione, quelle per la mobilità territoriale, quelle per la rete informatica ed in generale l’offerta di servizi per la disoccupazione di lunga durata. Al contrario, tra le poche azioni di sistema che si muovono in questa direzione, cercando di attuare azioni integrate, sono da ricordare quelle finalizzate alla riconversione dei Lavori Socialmente Utili e per l’alfabetizzazione informatica.
Come è noto, con riguardo all’ammontare della spesa sociale complessiva, l’Italia è il paese Europeo che destina la quota più piccola ai trattamenti di disoccupazione (Fig. 2). La struttura della spesa sociale italiana denota, infatti, un’accentuata caratterizzazione pensionistica ed una bassa incidenza tanto dei trattamenti di disoccupazione quanto di quelli assistenziali a favore di soggetti in età lavorativa (invalidità, famiglia, abitazione e assistenza sociale in senso proprio). Rispetto al PIL, i dati disponibili (ESSPROS, 1998) denotano un’incidenza dei trattamenti di disoccupazione pari in Italia allo 0,7% a fronte di una media UE dell’1,9%.
Fig. 2 – Benefici sociali per funzione – anno 1998
Fonte: elaborazioni su dati
Eurostat, European Social Statistic – Social Protection Expenditure and Receipts – 1980-1998
Il divario rispetto agli altri paesi europei nella spesa contrasta con quello nei livelli della disoccupazione. Su tale tradizionale caratterizzazione del caso italiano ha inciso il fatto che tra le persone in cerca di lavoro vi sia una quota elevata di persone in cerca del primo impiego, non coperte dagli schemi assicurativi contro la disoccupazione. Le rigidità nella regolamentazione dei rapporti di lavoro - il prevalere della tutela dei rapporti in essere – ha reso meno pressante l’esigenza di fornire un sostegno a fronte del rischio di disoccupazione e, al tempo stesso, producendo una frattura tra occupati e inoccupati, ha contenuto la platea di potenziali beneficiari dei trattamenti di disoccupazione comunque esistenti. Sul volume complessivo di spesa, ha poi inciso il fatto che i trattamenti previsti nello schema di carattere più generale (il trattamento ordinario che copre tutti i lavoratori dipendenti) fossero alquanto ridotti tanto nei livelli quanto nelle durate previste.
Un altro connotato degli ammortizzatori sociali è la sua estrema eterogeneità interna. La tutela limitata fornita dallo schema ordinario (anche dopo l’innalzamento introdotto dal gennaio del corrente anno)– contrasta con quella propria dell’indennità di mobilità propria del settore industriale. Ancora più ampio sarebbe poi il differenziale di trattamento ove si considerasse che, nella pratica attuazione, i trattamenti di mobilità spesso intervengono successivamente a quelli di CIG straordinaria, trattamento di importo pari a quello della mobilità e che interviene in costanza del rapporto di lavoro in essere, il che tende a prolungare ulteriormente la durata effettiva dei trattamenti .
Nonostante i più generosi trattamenti forniti da CIG e mobilità, il complesso dei due strumenti evidenzia un sostanziale equilibrio finanziario tra contributi e prestazioni (Fig. 3). L’avanzo della CIG, anzi, grazie anche al buon momento congiunturale, nel 2000 più che compensava il deficit proprio della mobilità, che intervenendo, come detto, nelle stesse fattispecie aziendali e spesso in successione temporale rispetto alla CIG è stata perciò consolidata assieme a quest’ultima nella figura qui riportata. Le contribuzioni pagate nel settore industriale, pur se ovviamente a prezzo di elevare il costo del lavoro complessivo, sono infatti sufficienti a finanziare quei trattamenti. Ciò avviene anche, pur se su livelli più contenuti tanto delle contribuzioni quanto delle prestazioni, anche per quanto attiene il trattamento ordinario nei settori extra agricoli. Uno squilibrio strutturale tra contribuzioni e prestazioni caratterizza invece i trattamenti (ordinari e speciali) riservati al settore agricolo.
Nel complesso (e tenendo conto anche delle indennità relative al settore edile), gli strumenti ora citati appaiono in sostanziale equilibrio finanziario nel 2000, anno in cui, l’avanzo dei settori industriali, in ciò favoriti dal quadro congiunturale positivo, compensa il disavanzo strutturale dei trattamenti relativi all’agricoltura. Includendo nella spesa per ammortizzatori sociali anche gli oneri relativi a quegli schemi a totale carico della fiscalità generale - prepensionamenti e LSU, che come più volte detto sono per convenzione classificati tra le politiche attive ma hanno acquisito una natura sostanziale di ammortizzatore sociale di ultima istanza – emerge, anche nel 2000, un sia pur contenuto deficit tra prestazioni e contributi. Rispetto alla metà degli anni novanta, netto appare, peraltro, il miglioramento causato dal miglior clima congiunturale (Fig. 4).
Fig. 3 – Saldo fra prestazioni e contributi nei principali comparti settoriali degli ammortizzatori sociali
Fonte: elaborazioni su dati INPS
Fig. 4 – Spesa per ammortizzatori sociali e contributi a finanziamento degli stessi – anni 1990-2000
Fonte: elaborazioni su dati INPS
Tornando alle peculiarità dei diversi schemi, è da evidenziare come caratteristica delle indennità destinate al settore agricolo, è il loro uso come strumento di integrazione dei redditi da lavoro, più che di copertura del rischio di disoccupazione in senso proprio. La platea dei beneficiari (580mila nel 1999; Tav. 5) pressoché coincide con quella dei soggetti assicurati, che di fatto quasi tutti ricevono nell’anno una qualche integrazione al reddito da lavoro corrente.
Qualcosa di simile sta peraltro progressivamente avvenendo anche nei settori extra-agricoli tramite l’uso dei cd trattamenti con requisiti ridotti. Questi intervengono per quei lavoratori che non raggiungano i requisiti contributivi minimi richiesti per l’accesso ai trattamenti ordinari (almeno 52 settimane di contribuzione nei precedenti due anni) e che però, avendo lavorato nel precedente anno solare per almeno 78 giornate, hanno diritto ad un trattamento pari al 30% della retribuzione per un numero di giornate pari a quelle effettivamente lavorate nell’anno precedente. Più che d’un sussidio di disoccupazione, si tratta pertanto d’un bonus a favore di chi abbia lavorato ma non oltre certi limiti, per cui ne vengono ad usufruire, spesso su base stabile nel tempo, soprattutto lavoratori precari e stagionali. Questa modalità di utilizzo, assieme alla crescita di peso del lavoro a termine in generale, spiega tra l’altro il trend nettamente crescente dei trattamenti della specie, che sono giunti a superare, nel numero dei beneficiari e nella spesa connessa, quelli con requisiti pieni.
Tavola 5 – Beneficiari di interventi di sostegno al reddito per area geografica e composizione per età e sesso – anno 1999 |
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