www.segnalo.it - Saggi e Articoli
HOME PAGE |
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares
Chi non ha mai vissuto in un campo di concentramento, trova già abbastanza stupefacente che vi possa sussistere qualcosa come la vita della natura e dell’arte; può quindi sembrare ancor più stupefacente vi si possa trovare anche dell’umorismo. Certo, ancora una volta, si tratta solo di tentativi, di bagliori che durano solo per pochi secondi o per alcuni minuti. Anche l’umorismo è un’arma dell’anima nella lotta per l’autoconservazione. Tutti sanno che l’umorismo è in grado, come poche altre cose nell’esistenza umana, di creare un distacco e di porre gli uomini al di sopra di una certa situazione, sia pure, come già abbiamo detto, solo per qualche secondo. Con l’andare del tempo, educai all’umorismo un amico e collega che lavorò vicino a
me nel cantiere per settimane intere. Una volta gli proposi di prometterci che avremmo inventato almeno una storia allegra al giorno, e cioè qualcosa che potesse avvenire nel futuro, dopo la nostra liberazione e il ritorno a casa. Il mio compagno era chirurgo; era stato assistente d’un reparto ospedaliero. Così una volta cercai di farlo ridere, dipingendo come sarebbe rimasto legato alle abitudini contratte nel Lager, anche dopo il suo ritorno a casa e al lavoro consueto. Un’abitudine del cantiere, per esempio, era che quando il dirigente dei lavori si avvicinava per l’ispezione, il sorvegliante cercasse di accelerare i tempi, stimolando gli operai con il consueto grido: « Movimento, movimento! ». Così dissi al mio compagno: una volta, quando sarai di nuovo in sala operatoria e dovrai eseguire una lunga operazione allo stomaco, d’un tratto entrerà di corsa l’inserviente, annunciando con il suo:
« Movimento, movimento! » l’arrivo del primario:
«Arriva il capo! ». Spesso, anche i compagni inventa-vano spontaneamente buffi sogni avveniristici, profetizzando, per esempio, che una sera, durante una cena in compagnia, si sarebbero lievemente confusi, e avrebbero implorato la padrona di casa — come a mezzogiorno imploravano il Kapo — di versare la minestra « da sotto », per far nuotare nel loro piatto un paio di piselli o addirittura una mezza patata.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 83
Umorismo
Nel campo di concentramento diventano ossessivi i pensieri di cibo o di piatti speciali che si presentano solitamente al prigioniero non appena ha un attimo di respiro, quando ha la coscienza abbastanza sgombra. Così è ben comprensibile che proprio i migliori tra noi, sospirassero ardentemente il momento in cui sarebbero tornati a un vitto abbastanza normale, non perché desideravano mangiare bene, ma perché cessasse una buona volta questo stato indegno d’un uomo, nel quale non si poteva pensare a null’altro, se non al cibo.
Chi non conosce la fame, per averla provata di persona, trova assai difficile capire i conflitti interni e le lotte di volontà che agitano un affamato, logorando il suo spirito. Chi non ha avuto nessuna esperienza di questo genere, non riesce a comprendere che cosa significa stare in un fosso, lavorare con il piccone, e nel frattempo tendere l’orecchio per sentire se la sirena annuncia le 9 e mezzo, o le 10; aspettare sempre che arrivi mezzogiorno, la mezz’ora di riposo e la distribuzione del « pane » (almeno, finché vi fu ancora una distribuzione); chiedere sempre l’ora al capo operaio, se non è un uomo insopportabile, o a un civile di passaggio, e tastare teneramente, con le dita irrigidite dal gelo (nessuno possiede guanti), un pezzetto di pane riposto nella tasca della giacca, prenderne una piccola parte, portarla alla bocca, e poi, con un ultimo sforzo di volontà, lasciarla ricadere nella tasca, perché quel mattino ci si era giurati di resistere fino a mezzogiorno.
Ci impegnavamo in lunghissime discussioni, sulla logica o sull’irragionevolezza di certi criteri per suddividere la piccola razione di pane, che nell’ultimo periodo era distribuita una sola volta al giorno. Vi erano, a questo proposito, due grandi gruppi. Alcuni credevano meglio mangiare subito tutto; ciò recava un duplice vantaggio: si poteva placare almeno una volta al giorno, sia pure per pochissimo, la fame più tremenda, e non si doveva temere di essere derubati, o di perdere la razione in qualche altro modo. Il partito contrario portava altri argomenti. Per quanto mi concerne, mi aggregai a quest’ultimo partito. Avevo un mio motivo personale: di tutte le 24 ore della giornata nel Lager, il risveglio era il momento peggiore. Quando tre fischi acuti, con l’ordine « alzarsi », ci strappavano senza misericordia, nel cuore della notte.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 65
La fame
L’apatia e l’indifferenza d’animo s’impadroniscono del prigioniero,durante la sua permanenza nel Lager, facendo precipitare tutta la sua vita spirituale a un livello primitivo, rendendolo oggetto abulico del destino e dell’arbitrio delle sentinelle, tanto che egli avverte una profonda ritrosia a prendere in mano il suo destino, a stabilire una qualsiasi decisione. L’apatia ha certo altre cause, e pertanto non la si può intendere solo nel senso di meccanismo autodifensivo della psiche. Nasce anche dalla condizione fisica dell’internato. Questo vale anche per l’irritabilità che — accanto all’apatia —rappresenta uno dei caratteri più appariscenti della psiche dei prigionieri. Tra i molti fattori causali fisici, i principali sono la fame e la mancanza di sonno. Sappiamo bene che questi due motivi rendono l’uomo, già nella vita normale, apatico e irritabile. Nel Lager, poi, la mancanza di sonno è dovuta in parte anche alla terribile piaga degli insetti, causata dall’incredibile quantità di persone stipate nelle baracche e dalla più assoluta mancanza d’igiene che si possa immaginare.
L’apatia e l’irritabilità hanno però anche un ulteriore fattore causale: l’abolizione di quei veleni della civiltà che hanno il compito di attenuare proprio l’apatia e l’irritabilità: l’abolizione, cioè, di nicotina e caffeina. Così apatia e irritabilità aumentano ancora. A queste cause fisiche si aggiungono anche i fondamenti psichici del curioso stato d’animo del detenuto, sotto forma di certi « complessi ». La maggioranza dei prigionieri è, comprensibilmente, tormentata da una sorta di complesso d’inferiorità. Ognuno di noi èstato, molto tempo fa, « qualcuno » o credeva almeno di essere qualcuno. Ora invece, qui, ci trattano letteralmente come se non esistessimo neppure. (è chiaro che non si può far crollare un’autoconsapevolezza ancorata nei settori più essenziali e più elevati nella sfera spirituale; ma quanti uomini, e quanti prigionieri poi, possiedono un’autoconsapevolezza così salda?) Senza pensarci troppo, senza neppure analizzare la sensazione che si prospetta alla sua coscienza, l’internato medio sente, com’è naturale, di essere totalmente declassato.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 108
Apatico e irritabile
Penso infatti alla minoranza di prigionieri considerati, diciamo così, influenti: ai Kapos, ai cuochi, ai capi magazzino e ai « poliziotti dei Lager » — i quali, tutti, compensavano un primitivo complesso d’inferiorità. In generale, non si sentivano affatto declassati come la « maggioranza » degli internati comuni, ma anzi, con l’andare del tempo, compresero d’essere arrivati. Coltivarono addirittura una vera e propria pazzia di Cesare in miniatura. La reazione psichica della maggioranza, piena di rancore e di gelosia, al comportamento della minoranza, si sfogava in diversi modi — qualche volta anche con barzellette cattive. Una barzelletta di questo tipo racconta per esempio:
due prigionieri parlano tra loro; l’uno dice all’altro, riferendosi a un terzo, che fa per l’appunto parte degli « arrivati »: « L’ho conosciuto quando era solo il presidente della più grande banca di Berlino; ora s’atteggia a Kapo ».
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 110
I capi
Sempre e ovunque questa maggioranza di declassati entra in conflitto con la minoranza degli arrivati — e la vita del Lager offre innumerevoli possibilità di lite, a cominciare dalla distribuzione del cibo — la irritabilità diventa concreta, e giunge all’apice. L’irritabilità, ne abbiamo definito poc’anzi le cause fisiche, continua ad aumentare, perché subentrano motivi psichici, l’emotività piena di complessi delle due parti in causa. Non stupisce dunque che l’esasperazione finisca in una rissa. Quel riflesso che conduce dalla passionalità carica d’ira allo sfogo sotto forma di botte, ègià quasi spianato, al cospetto delle risse cui l’internato assiste in continuazione. Ho dovuto sperimentarlo di sovente quando « prudono le mani » e come minacciano di « scivolare », quando l’ira sale alla testa di chi ha fame, di chi ha passato la notte in bianco.
Irritabile
In quel periodo, poco prima della nostra liberazione, lavoravo come medico nella baracca di tifo petecchiale e dovevo per di più fare le veci del capoposto, che era malato. Nei riguardi dell’amministrazione del Lager, ero dunque responsabile della pulizia della baracca, per quanto, date le circostanze, si potesse parlare di pulizia. L’ostentazione pignola del pulito, in nome della quale la baracca era continuamente ispezionata non serviva a misure igieniche, ma piuttosto al semplice gusto di tormentarci. Cibo più abbondante e un po’ di medicinali ci avrebbero aiutato — ma l’unica preoccupazione degli ispettori era che non ci fosse neppure un filo di paglia nel corridoio centrale e che le coperte strappate, sporche, piene di pidocchi, fossero allineate ai piedi del letto. Quando si annunciava l’ispezione, era affar mio che il èapo del Lager, mentre si chinava per gettare uno sguardo nell’interno della nostra capanna, attraverso la porta d’ingresso, non trovasse per terra nemmeno un filo di paglia, che davanti alla stufa non vi fosse neppure un granello di polvere e così via. Per quanto concerneva il destino degli uomini che abitavano in quel buco, per l’ispezione bastava che io, tolto il berretto di detenuto dal cranio rasato, battendo i tacchi, « facessi rapporto », energico e diritto: baracca infermeria VI/9 — 52 malati di tifo petecchiale, 2 infermieri, 1 medico.
Gli ispettori andavano via subito, ma attendendo il loro arrivo — e di solito arrivavano molte ore dopo che il loro arrivo era annunciato (o non venivano affatto) — ero costretto a lisciare coperte in continuazione, raccogliere i fili di paglia che cadevano dai giacigli e sgridare i poveri diavoli che minacciavano d’”infrangere” quell’ordine apparente e quella pulizia superficiale. Poiché l’apatia e l’indifferenza, particolarmente acute nei febbricitanti, fa sì che essi reagiscano solo quando sono violentemente sgridati. Questo metodo fa spesso cilecca, e allora bisogna veramente trattenersi a viva forza, per non picchiare. Perché la propria irritabilità cresce in modo smisurato di fronte all’apatia degli altri e ancor più di fronte al pericolo che si corre per l’imminente ispezione.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 112
Pulizia inutile
Nella psicologia del Lager, infatti, è proprio questo particolare ambiente sociale a plasmare, in apparenza fatalmente, l’atteggiamento dell’uomo. Ci potremmo dunque chiedere: dov’è la libertà dell’uomo? Non esiste alcuna libertà spirituale nel comportamento dell’individuo, nella sua reazione alle condizioni ambientali? È vero dunque, come vorrebbe farci credere una Weltanschauung naturalistica, che l’uomo è solo il prodotto di alcune componenti e condizioni biologiche, psicologiche o sociali?
L’uomo è dunque veramente solo il risultato casuale della sua costituzione corporea, della sua inclinazione caratteriale e della sua posizione sociale? E in particolare: le reazioni psichiche dell’uomo all’ambiente socialmente condizionato della vita in un Lager, sono in grado di testimoniare veramente che egli non può mai sottrarsi agli influssi della forma di esistenza, alla quale egli è forzatamente sottoposto? Deve egli soccombere a questi influssi? « Sotto la costrizione delle circostanze », delle condizioni di vita esistenti nel Lager, « non ci si può comportare diversamente? ».
Ecco: possiamo rispondere a queste domande sia basandoci sulle nostre esperienze, che in linea di principio. In base alle esperienze, proprio la vita nel Lager ci ha mostrato che l’uomo è veramente in grado « di comportarsi diversamente ». Potremmo riferire molti esempi, spesso eroici, che hanno provato come, in certi casi, si possa soffocare quell’apatia e quella irritabilità; come dunque sopravvive un resto di libertà spirituale, di libero atteggiamento dell’io verso il mondo, anche in quello stato, solo in apparenza di assoluta coazione, tanto esterna quanto interiore. Chi, tra coloro che hanno vissuto in campi di concentramento, non potrebbe parlare di persone che percorrevano le piazze d’armi o le baracche del Lager, dicendo una buona parola o regalando l’ultimo boccone di pane? E se pure sono stati pochi — bastano questi esempi per dimostrare che all’uomo nel Lager si può prendere tutto, eccetto una cosa sola: l’ultima liberia umana di affrontare spiritualmente, in un modo o nell’altro, la situazione imposta. Ed esistevano veramente, le alternative!. Ogni giorno, ogni ora passati nel Lager offrirono mille spunti per questa decisione interna: la decisione dell’uomo che soccombe o reagisce alle potenze dell’ambiente che minacciano di rubare quanto egli ha di più sacro — la sua libertà interna — inducendolo a diventare solo una palla da giuoco e un oggetto delle condizioni esterne, rinunciando a libertà e dignità e rendendolo il « tipico » internato in un campo di concentramento.
Tutto ciò che accade all’anima dell’uomo, cio che il Lager apparentemente «fa » di lui come uomo, è il frutto d’una decisione interna. In linea di principio dunque, ogni uomo, anche se condizionato da gravissime circostanze esterne, può in qualche modo decidere che cosa sarà di lui — spiritualmente — nel Lager: un internato tipico — o un uomo, che resta uomo anche qui e conserva intatta la dignità d’uomo.
Dostojewski ha detto una volta: « Temo una cosa sola: di non essere degno del mio tormento ».
Ripensammo più d’una volta a queste parole, quando abbiamo conosciuto uomini eroici, quasi dei martiri, che con il loro comportamento nel Lager, in mezzo a sofferenze e dolori, testimoniarono l’ultima e inalienabile libertà interna dell’uomo, gravemente compromessa. Avrebbero potuto dire a buon diritto che « furono degni del loro tormento ». Hanno dimostrato che, soffrendo rettamente, si può realizzare qualcosa: una conquista interiore. La libertà spirituale dell’uomo, quel bene che nessuno può sottrargli finché non esala l’ultimo respiro, fa sì ch’egli trovi, fino al suo ultimo respiro, il modo di plasmare coerentemente la propria vita. Poiché non ha senso solo la vita attiva, nella quale l’uomo ha la possibilità di realizzare dei valori in modo creativo; e non ha un senso solo la vita ricettiva, cioè una vita che permette all’uomo di realizzarsi sperimentando la bellezza nel contatto con arte e natura; la vita conserva il suo senso anche quando si svolge in un campo di concentramento, quando non offre quasi più nessuna prospettiva di realizzare dei valori, creandoli o godendoli, ma lascia solamente un’ultima possibilità di comportamento moralmente valido, proprio nel modo in cui l’uomo si atteggia di fronte alla limitazione del suo essere, imposta con violenza dall’esterno. La vita creativa e quella ricettiva gli sono da tempo negate. Ma non solo la vita creativa e quella ricettiva hanno un senso: se la vita ha un significato in sé, allora deve avere un significato anche la sofferenza. La sofferenza, in qualche modo, fa parte della vita —proprio come il destino e la morte. Solo con miseria e morte, l’esistenza umana è completa!
Dal modo in cui un uomo accetta il suo ineluttabile destino e con questo destino tutta la sofferenza che gli viene inflitta, dal modo in cui un uomo prende su di sé la sofferenza come la « sua croce », sorgono infinite possibilità di attribuire un significato alla vita, anche nei momenti più difficili, fino all’ultimo atto di esistenza. A seconda se uno resta coraggioso e forte, dignitoso e altruista. o se dimentica d’essere un uomo nella spietata lotta per sopravvivere e diventa in tutto e per tutto l’animale d’un gregge — al quale la psicologia dell’internato ci ha fatto pensare — a seconda di ciò che accade, l’uomo realizza o perde i possibili valori morali che la sua dolorosa situazione e il suo duro destino gli consentono, e, a seconda dei casi, è « degno del suo tormento » o non lo e.
Il lettore non deve credere che queste considerazioni siano teoriche o irreali. Certo, solo pochi e rari uomini sono in grado di raggiungere un tale livello etico, grazie alla loro eccezionale maturità; solo pochi hanno seguito il credo della piena libertà interiore e si sono innalzati per realizzare quei valori che la sofferenza rende possibili. Ma se non vi fosse stato che un uomo solo — basterebbe la testimonianza di quest’ uno, per asserire che l’uomo può essere nel suo intimo più forte del destino che gli viene imposto dall’esterno. I testimoni però, furono numerosi e non solo nei Lager. Dappertutto l’uomo è messo a confronto con il proprio destino, deve cioè decidere se farà di una mera condizione di vita, una conquista interiore.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 117
L’uomo/eroe UN’ANALISI ESISTENZIALE
Basta pensare al destino dei malati, e specialmente degli inguaribili. Ho letto una volta una lettera, nella quale un paziente relativamente giovane, confidava all’amiCO d’avere appreso da poco che non gli restava più tanto da vivere; non si sperava nemmeno di poterlo salvare con un’operazione. Continuava la lettera dicendo che gli veniva in mente, proprio allora, un film di cui era protagonista un uomo che attendeva la morte con coraggio, dignità e forza d’animo; quando aveva visto il film, il nostro paziente aveva pensato che era un « dono del cielo », saper affrontare con tanto coraggio la morte e ora, proseguiva, il suo destino gli concedeva questa possibilità.
E allora forse qualcuno ricorda questo o quel particolare di questa o quella storia che narra la grandezza interiore d’un uomo — come per esempio la storia della morte d’una giovane donna nel Lager, della quale fui testimone. La storia è semplice
— non c’è molto da raccontare — e tuttavia sembrerà inventata, tanto appare poetica.
Questa giovane donna sapeva che sarebbe morta nei prossimi giorni. Quando le parlai, era serena, nonostante tutto. « Sono grata al mio destino, per avermi colpita così duramente », mi disse, e ricordo bene ogni sua parola: « Perché nella mia vita di prima, quella borghese, ero troppo viziata e non avevo nessuna vera ambizione spirituale ». Nei suoi ultimi giorni era come trasfigurata. « Quest’albero è il solo amico nei miei momenti di solitudine », disse, accennando attraverso la finestra della baracca. Fuori c’era un castagno, tutto in fiore, e chinandomi sul tavolaccio della malata, potevo scorgere ancora un ramoscello verde con due grappoli di fiori, guardando dalla finestrella dalla baracca-infermeria. « Con quest’albero parlo spesso », disse poi. Ne fui meravigliato e non sapevo come interpretare le sue parole. Sta forse delirando, ha delle allucinazioni? Le chiesi dunque, curioso, se l’albero può risponderle — Sì! — e che cosa le dice. Mi rispose: «M’ha detto: Io sono qui — io sono qui — io sono la vita, la vita eterna... ».
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 119
Morire. Parla con l’albero
Poco fa abbiamo detto che la causa ultima della deformazione di tutta la vita interiore dell’uomo nel Lager intesa come realtà, non sta nei citati motivi psico-fisici, ma, in ultima analisi, ha radice in una libera decisione. Vogliamo ora soffermarci di più su questi concetti. L’osservazione psicologica sugli internati ha rivelato che diventa schiavo degli influssi del mondo del Lager, nello sviluppo del suo carattere, solo l’individuo che s’è già lasciato cadere prima spiritualmente e umanamente; ma si lasciava cadere solo chi non aveva più un sostegno interiore. In che cosa avrebbe dovuto e potuto consistere un siffatto sostegno interiore?
Questo è il problema che ci si prospetta ora.
Le relazioni e i racconti autobiografici sull’esperienza di ex internati, rilevano concordemente e sempre con grande evidenza ché l’elemento, più deprimente della vita nel Lager sia stato il fatto che il prigioniero, in generale, non sapeva quanto dovesse restare ancora nel campo di concentramento. Non conoscere la data del proprio rilascio!
La data del rilascio, se pure se ne poteva parlare (nel nostro Lager, per esempio, era fuori discussione) era tanto indefinita che nella prassi e nell’esperienza, si era costretti ad accettare una prigionia non solo indeflnibile nella durata, ma addirittura illimitata. Un noto studioso di psicologia ha una volta casualmente asserito che si potrebbe definire la vita nel campo di concentramento come un’ « esistenza provvisoria »; è però opportuno completare questa caratterizzazione, dicendo: si può definire l’esistenza dell’internato nel campo di concentramento come « provvisoria senza data finale »!
Quando i nuovi prigionieri arrivavano in un Lager di regola non sapevano esattamente quali fossero condizioni vigenti nel campo di concentramento. I reduci dovevano tacere e da certi Lager non era ancora tornato nessuno... Tuttavia, non appena i neofiti entravano nel Lager, lo scenario interiore mutava: con la fine dell’incertezza, giungeva presto anche l’incertezza della fine. Non era possibile prevedere se questa forma di vita sarebbe mai finita e quando ciò sarebbe avvenuto.
Com’è noto, la parola latina finis ha due significai fine e scopo.
Quando un uomo non è in grado di pr vedere la fine di un’esistenza (provvisoria), non può neppure vivere per uno scopo. Non può neppure, con l’uomo nella vita normale, esistere guardando al futuro. Di conseguenza cambia anche tutta la struttura della sua vita interiore. Si arriva a fenomeni di decadimento interiore, sul genere di quelli già noti in altri settori della vita.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 121
Non sai fino a quando
In una situazione psicologica assai simile, si trova, per esempio, il disoccupato. Anche la sua esistenza è diventata provvisoria; in un ceri senso, neppure lui può vivere volgendosi al futuro verso uno scopo situato nel futuro. In base a interviste psicologiche sistematiche, con minatori disoccupati abbiamo avuto occasione di studiare esattamente gli effetti di questa forma d’esistenza deformata, riguardo al « tempo interno » o « al tempo esperienziale », secondo l’accezione psicologica.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 122
I disoccupati
La situazione nel Lager era questa: un breve periodo di tempo, per esempio il giorno — pieno delle angherie di tutte le ore —, pareva durasse quasi all’infinito; mentre un periodo di tempo maggiore, come la settimana, per esempio — con la monotonia dei giorni — sembrava scorrere rapidissima. I miei compagni mi davano ragione, quando dicevo: « Nel Lager un giorno dura più che una settimana ». Tanto era paradossale quest’inquietante esperienza del tempo!
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 122
Il tempo nel lager
Di questa retrospezione, della tendenza a volgersi verso il passato, abbiamo già parlato. Svalorizzando il presente, essa svalorizza le paure che il presente comporta. Ma la svalorizzazione del presente, della realtà che circonda l’internato, cela in sé, da un punto di vista morale, un certo pericolo, in quanto tende a far trascurare i possibili spunti per dare una forma alla realtà, spunti in qualche modo presenti anche nella vita del Lager, come testimoniano molti esempi eroici. La totale svalorizzazione della realtà che corrisponde al modo di vivere provvisorio dell’internato, induce a lasciarsi andare, a lasciarsi cadere — poiché comunque « tutto è inutile ». Uomini di questa sorta dimenticano troppo spesso che proprio una difficilissima situazione esterna dà all’uomo lo slancio necessario per superarsi interiormente».
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 123
Lasciarsi andare
Improvvisamente, ho di fronte l’immagine di mia moglie. Mentre inciampiamo per chilometri, guardiamo la neve o scivoliamo su lastre ghiacciate, sempre sorreggendoci a vicenda, aiutandoci gli uni gli altri e trascinandoci avanti, nessuno parla più, ma sappiamo bene che in questi momenti ognuno di noi pensa a sua moglie. Di tanto in tanto guardo il cielo, dove impallidiscono le stelle, o là, dove comincia l’alba, dietro una scura cortina di nubi: ma il mio spirito è ora tutto preso dalla figura che si racchiude nella mia fantasia straordinariamente accesa, e della quale non ho mai avuto sentore prima, nella vita normale. Parlo con mia moglie. La sento rispondere, la vedo sorridere dolcemente, vedo il suo sguardo, e — corporeo o meno — il suo sguardo brilla più del sole che si leva in questo momento. D’un tratto, un pensiero mi fa sussultare: per la prima volta nella mia vita, provo la verità di ciò che per molti pensatori è stato il culmine della saggezza, di ciò che molti poeti hanno cantato; sperimento in me la verità che l’amore è, in un certo senso, il punto finale, il più alto, al quale l’essere umano possa innalzarsi. Comprendo ora il senso del segreto più sublime che la poesia, il pensiero umano ed anche la fede possono offrire: la salvezza delle creature attraverso l’amore e nell’amore! Capisco che l’uomo, anche quando non gli resta niente in questo mondo, può sperimentare la beatitudine suprema — sia pure solo per qualche attimo — nella contemplazione interiore dell’essere amato. Nella situazione esterna più misera che si possa immaginare - nella condizione di non potersi esprimere attraverso l’azione, quando la sola cosa che si possa fare è sopportare il dolore con dirittura, sopportano a testa alta, ebbene, anche allora, l’uomo può realizzarsi in una contemplazione amorosa, nella contemplazione dell’immagine spirituale della persona amata, che porta in sé. Per la prima volta nella mia vita, sono in grado di capire ciò che si intende, quando si dice: gli angeli sono beati nell’infinita, amorevole contemplazione di uno splendore infinito...
Davanti a .me cade un compagno; quelli che gli marciano dietro, cadono anche loro. La sentinella accorre e li bastona senza pietà. La mia vita contemplativa è interrotta per qualche secondo, ma subito dopo la mia anima si innalza, si eleva nuovamente dalla mia esistenza di internato ad un mondo sovrumano e riprende il dialogo con l’essere amato: io chiedo — lei risponde, lei domanda — rispondo io.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 75
Contempla l’amore
La vita di questi uomini fa naufragio, invece di raggiungere un alto livello morale — in linea di principio ne avrebbero la possibilità — sotto la spinta delle grandi difficoltà che sorgono dalla prigionia. Di questa grandezza, pochi uomini sono capaci, ma è loro riuscito, fu loro concesso, di arrivare, nel fallimento esterno e persino nella morte, a una grandezza umana che non avrebbero mai raggiunto prima, nella loro esistenza quotidiana. Per gli altri invece, per tutti i mediocri e per noi tiepidi, valeva ancora il monito di Bismarck, che una volta disse: « Nella vita succede come dal dentista; si crede sempre che l’essenziale debba ancora venire, mentre nel frattempo è già passato ».
Variando si potrebbe dire: la maggior parte degli uomini nel Lager credeva di aver perso la capacità di autentiche realizzazioni, mentre queste . dipendevano da ciò che uno sapeva fare della vita nel Lager: vegetare, come migliaia di internati, o invece, come i pochi, i rari, vincere interiormente...
Qualche internato intraprese questo tentativo istintivamente, di sua propria iniziativa. Quasi tutti avevano qualcosa che li sorreggeva: un pezzo di futuro. L’uomo ha invero un carattere peculiare: può esistere solo nella visuale del futuro; dunque, in un certo senso, sub specie aeternitatis. Nei momenti più difficili della sua esistenza, il prigioniero cerca rifugio in questa visuale del futuro. Spesso ciò avviene sotto forma di trucco. Per quanto mi concerne, ricordo la seguente esperienza: quasi piangendo per i dolori ai piedi feriti, che avevo costretto nelle scarpe sfasciate, per il gelo rigidissimo e per il freddo vento contrario, percorrevo zoppicando in una lunga colonna, i due, tre chilometri dal Lager al posto di lavoro. Il mio spirito rifletteva senza posa sui mille piccoli problemi della nostra misera vita di prigionieri: che ci sarà da mangiare stasera? Non è meglio cambiare la fetta di salame, che forse ci daranno come quota supplementare, con un pezzo di pane? Devo cercare di vendere l’ultima sigaretta rimasta del « premio » di 14 giorni fa, per una scodella di minestra? Dove trovo un pezzo di fu di ferro, per sostituire quello che mi serve da stninga per le scarpe e che s’è rotto? Capiterò ora, sul posto di lavoro, con il solito gruppo, o con un altro, agli ordini di un capo operaio rabbioso e manesco? E che cosa potrei intraprendere per guadagnarmi il favore di un certo Kapo, che potrebbe aiutarmi nella realizzazione di un’incredibile fortuna, impiegandomi come operaio nel Lager stesso e togliendomi dall’incubo di questa terribile marcia quotidiana? Mi dà ormai la nausea, l’orrenda coercizione che ogni giorno, ogni ora, incatena il mio pensiero solo a questi problemi.
E allora uso un trucco: improvvisamente mi vedo in una sala per conferenze: ben illuminata, bella, calda; sono sul podio.
Davanti a me, un pubblico interessato e attento, in comode poltrone — e parlo. Parlo e tengo una conferenza sulla psicologia del campo di concentramento! E tutto ciò che mi tormenta e m’opprime, risulta obiettivato, visto e descritto da un superiore punto di vista scientifico. Riesco così a pormi, in qualche modo, al di sopra della situazione, al di sopra del presente e del suo dolore, guardandolo come se fosse il passato e come se io stesso, con tutti i miei dolori, fossi oggetto di un interessante esame psicologico-scientifico, che svolgo personalmente. Che cosa dice Spinoza nella sua Etica? «Un moto dello spirito, che è una sofferenza, cessa di essere una sofferenza, non appena ce ne facciamo un’idea chiara e distinta » (Etica, parte V, Sulla potenza dello spirito o la libertà umana, III assioma).
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 126
Chi si arrende
Chi invece non sa credere più nel futuro, nel suo futuro, in un campo di concentramento è perduto. Con il futuro perde anche il sostegno spirituale, si lascia cadere interiormente e decade tanto nel fisico, quanto nello spirito. Quasi sempre il crollo avviene in modo subitaneo, sotto forma di una specie di crisi, i cui sintorni sono ben noti all’internato con un minimo d’esperienza. Ognuno di noi temeva — non per sé, sarebbe stato ormai superfluo, ma per i suoi amici — il momento in cui la crisi sarebbe apparsa. In genere succedeva questo: un giorno il detenuto in questione restava sdraiato nella baracca, e non era possibile convincerlo a vestirsi, andare nella stanza da bagno, venire sulla piazza dell’appello. Quando si arriva a questo punto, nulla ha più effetto, nulla può spaventare —né preghiere, né minacce, né botte — tutto è inutile. Quell’uomo resta semplicemente sdraiato, quasi non si muove e quando la crisi è conseguenza di una malattia, rifiuta di lasciarsi portare all’ambulatorio o di intraprendere qualsiasi altra cosa per sé. Si arrende! Resta sdraiato persino nella sua urina e nelle sue feci; non si preoccupa più di nulla.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 126
Evadere dalle idee fisse del carcerato
C’è un caso sul quale mi fece riflettere il medico capo del nostro Lager: nella settimana tra il Natale 1944 e il Capodanno 1945, avevamo avuto una mortalità mai riscontrata fino ad allora, nel nostro Lager. Anch’egli era convinto che il fenomeno non dipendesse nè da aggravate condizioni di lavoro, nè dal cibo più scadente, né da un mutamento del clima o da nuove epidemie; mi disse invece che si doveva ricondurre questa morte in massa a un certo dato di fatto: quasi tutti i detenuti si erano cullati nell’usuale, ingenua speranza di poter essere a casa per Natale. Allorché i giornali diedero notizie assai poco rassicuranti, mentre questa data s’avvicinava sempre di più, l’internato era preso da un generale sconforto e da una grave delusione, i cui influssi pericolosi sulla forza di resistenza dei detenuti si fecero sentire proprio nell’altissima mortalità di quel periodo.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 129
Tutti gli sforzi psicoterapeutici e d’igiene mentale, rivolti ai detenuti, dovrebbero obbedire a un motto, espresso con grande chiarezza nelle parole di Nietzsche:
« Chi ha un perché per vivere, sopporta quasi ogni come ».
Si doveva dunque, quando si presentava una buona occasione, qualche volta, qua e là, chiarire agli internati il « perché » della loro vita, per far sì che fossero interiormente all’altezza del terribile « come » del loro presente, degli spaventi di una vita nel Lager, affinché potessero affrontare tutto con coraggio. E viceversa: guai a chi non trovava più uno scopo di vita, non aveva un contenuto di vita, non scorgeva nessuno scopo nella sua esistenza; svaniva il significato del suo essere, perdeva ogni senso anche la resistenza. Questa gente, privata di ogni possibile sostegno, si lasciò presto cadere. Di conseguenza, la frase con la quale demolivano tutti gli argomenti che avrebbero potuto infondere coraggio ricusando qualsiasi conforto, era sempre: « Ormai non posso sperare più nulla dalla vita ». Che cosa possiamo rispondere?
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 130
Chi ha un perché per vivere, sopporta quasi ogni come
S’impone qui un rovesciamento di tutta la problematica del senso ultimo della vita: dobbiamo apprendere, e insegnarlo ai disperati, che in verità non importa affatto che cosa possiamo attenderci noi dalla vita, ma importa, in definitiva, solo ciò che -la vita attende « da noi »! In linguaggio filosofico si potrebbe anche dire: si tratta quasi di una rivoluzione copernicana; non chiediamo infatti più il senso della vita, ma sentiamo di essere sempre interrogati, come gente alla quale la vita pone in continuazione delle domande, ogni giorno e ogni ora, domande alle quali ci tocca di rispondere, dando una risposta esatta, non solo in meditazioni oppure a parole, ma con un’azione, un comportamento corretto. Vivere, in ultima analisi, non significa altro che avere la responsabilità di rispondere esattamente ai problemi vitali, di adempiere i compiti che la vita pone a ogni singolo, di far fronte all’esigenza dell’ora.
Quest’esigenza, e con essa il significato della vita, muta da uomo a uomo, di attimo in attimo. Non èdunque mai possibile precisare il senso della vita umana in generale, non possiamo mai rispondere in generale a chi domanda quale sia il senso dell’esistenza. La vita, secondo la nostra accezione, non è qualcosa di vago, ma di volta in volta qualcosa di concreto e così anche le esigenze della vita sono di volta in volta assai concrete. Il destino dell’uomo, unico e originale per ciascuno di noi, reca in sé siffatta concretezza. Non è possibile paragonare due uomini e due destini; nessuna situazione si ripete. In ogni situazione, l’uomo è chiamato a un diverso comportamento. La sua situazione concreta pretende talora ch’egli agisca, che cerchi dunque di plasmare attivamente il suo destino, talaltra che sfrutti un’occasione, sperimentando (o godendo) possibili valori da realizzare; spesso si pretende dall’uomo ch’egli sopporti con semplicità il suo destino, la « sua croce », come abbiamo detto. Sempre, però, ogni situazione è caratterizzata dall’unicità e originalità che, di volta in volta, permette solo « una »risposta, ed essa sola; per l’appunto, la « risposta esatta » alla domanda insita nella situazione concreta.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 131
La vita attende qualcosa da noi
Qualora il destino concreto ìnfligga all’uomo un dolore, egli dovrà vedere anche nel dolore un còmpito, anch’esso unico. Persino di fronte al dolore, l’uomo deve giungere alla consapevolezza di essere unico e originale, per così dire, in tutto l’universo, con questo suo destino di dolore. Nessuno glielo può togliere, nessuno può assumere questa sofferenza in vece sua. La possibilità di una prestazione originale sta proprio nel « come » l’individuo colpito da questo destino sopporta la sua sofferenza. Per noi, nel Lager, non si trattava di speculazioni teoriche. Questi pensieri erano la sola cosa in grado di aiutarci ancora! Poiché erano questi pensieri che ci evitavano la disperazione, quando ormai non si vedeva più nessuna via di salvezza. Da moltissimo tempo non ci chiedevamo quale fosse il senso della vita, nella formulazione ingenua del problema di chi pensa solo alla realizzazione di uno scopo, producendo qualcosa di creativo. A noi premeva di ricercare il senso dell’esistenza come un tutto che comprende anche la morte e non garantisce solo il senso della « vita », ma anche il senso della sofferenza e della morte: per questo senso abbiamo lottato!
E dopo che ci fu rivelato il senso della sofferenza, rifiutammo persino di minimizzare o abbellire i moltissimi dolori della vita nel Lager, « reprimendoli » o cercando scampo nelle illusioni — per esempio attraverso un ottimismo a buon mercato o spasmodico. Per noi anché la sofferenza era diventata un compito, e non volevamo sottrarci più al suo senso. La sofferenza ci aveva rivelato il suo carattere di conquista — quel carattere di conquista che ha mosso Rilke ad esclamare: « Quante cose abbiamo da soffrire », così come abitualmente si dice: « Quante cose restano da fare ‘». Come altri parlano di un « lavoro costruttivo », così Rilke parla qui di « sofferenza creativa ».
In effetti vi fu per noi moltb dolore da assumere. Era dunque necessario guardare le cose, quel cumulo di dolori, per così dire, negli occhi, nonostante il pericolo di diventare « fiacco », di cedere, qualche volta, alle lacrime. Non c’era da vergognarsi: le lacrime erano la garanzia di avere il coraggio più grande, il coraggio di soffrire!
Solo pochissimi lo sapevano; confessavano, vergognosi, qualche volta, d’avere pianto ancora come quel compagno, al quale domandai come avesse fatto sparire i suoi edemi (da fame) e che ammise: « Me li sono pianti... ».
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 132
Dolore e sofferenza
Gli embrionali tentativi di una psicoterapia — o meglio, di una psico-igiene — nel campo di concentramento, furono individuali o collettivi (se mai riuscirono a germinare). I tentativi psico-terapeutici individuali, erano spesso un « trattamento. » urgente, anzi, salvavano sicuramente una vita. Questi sforzi valevano soprattutto ad evitare i suicidi. Dopo che un detenuto aveva intrapreso un tentativo di suicidio, era severamente proibito salvarlo. Vigeva un divieto ufficiale di « tagliare », per esempio, la corda con la quale alcuni compagni s’impiccavano, anche quando li scoprivamo appesi ancora in vita. Tanto più importante appariva dunque, com’è naturale, intraprendere delle misure preventive.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 133
Fermare i suicidi
Ricordo due « casi » che non solamente illustrano come fosse possibile applicare nella prassi le teorie già ricordate, ma mostrano anche un notevole parallelismo. Due compagni rivelarono nel modo tipico, più sopra descritto, « di non sperare più nulla dalla vita ». Ad entrambi si poteva chiarire ancora che la vita attendeva qualcosa da loro, che qualcosa li aspettava nella vita, nel futuro. In effetti risultò proprio che una persona attendeva uno dei due: il figlio adorato « attendeva » all’estero il padre: L’altro, invece, non aveva nessuno, ma l’”attendeva” una cosa: la sua opera! Infatti qùest’uomo, uno studioso, aveva pubblicato su un certo tema una collana di testi, non ancora completa, che attendeva il suo compimento. Quest’uomo era indispensabile per quest’opera; nessuno avrebbe potuto sostituirlo, proprio come l’altro era indispensabile e insostituibile nell’amore del figlio: quell’nnicità e originalità che distinguono ogni singolo individuo e che conferiscono — esse sole — alla vita il suo significato, si fanno dunque valere nei confronti d’una opera o di un lavoro creativo, proprio come nel rapporto con un altro uomo e il suo amore. L’essere indispensabile e insostituibile, tipici d’ogni individuo, fanno apparire nella giusta misura, non appena affiorano nella coscienza, la responsabilità che un uomo ha della sua vita, lo incitano a continuare a vivere. Un uomo pienamente consapevole di questa responsabilità nei confronti dell’opera che l’attende o della persona che lo ama e che l’aspetta, non potrà mai gettar via la sua esistenza. Egli sa bene il « perché »della sua vita — e quindi saprà sopportare quasi tutti i « come ».
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 134
Due motivi diversi per vivere
Era stato un giorno durissimo: poco prima, durante l’appello, ci fu detto quali atti sarebbero stati d’ora innanzi giudicati « sabotaggio » e puniti pertanto con l’impiccagione immediata. Di questi delitti facevano parte, per esempio: tagliare striscie sottili di vecchie coperte (lo facevamo spesso per fasciarci i piedi) e i « furti » più insignificanti. Qualche giorno prima, infatti, un internato mezzo morto di fame, era penetrato nel bunker delle patate per rubarne qualche chilo. L’infrazione fu scoperta dalle SS, ed alcuni prigionieri sapevano chi era il « ladro ». Anche la direzione del Lager venne a conoscenza della cosa, e chiese che il delinquente fosse consegnato, minacciando, in caso contrario, un giorno di digiuno per tutto il Lager. Era ben comprensibile che 2500 compagni preferissero il digiuno, per impedire che uno di loro finisse sulla forca. Alla sera di questo giorno di digiuno, giacevamo tutti nella nostra capanna di terra, in uno stato d’animo particolarmente cattivo. Si parlava poco e quando lo si faceva, ogni parola era irritata. Avvenne poi un’altra cosa: si spense la luce. Il malumore raggiunse il parossismo. Il capoposto, però, un uomo di buon senso, improvvisò un discorsetto su quanto ci preoccupava: parlò dei molti compagni malati e suicidi, morti negli ultimi giorni. Parlò del vero motivo di queste morti, che era sempre il « darsi-per-vinto ». Su questo argomento e sul come salvare le presumibili vittime del mortale lasciarsi-cadere, il capo-posto voleva ora sentire alcune spiegazioni, e si rivolse a me! Dio sa che, non ero proprio nello stato d’animo migliore per dare spiegazioni psicologiche, o per tenere una specie di predica facendo giungere ai miei compagni di baracca conforti psicoterapeutici e cure medico-spirituali. Avevo freddo e fame, mi sentivo debole e nervoso, ma dovetti farmi forza e sfruttare quest’eccezionale possibilità, poiché un incoraggiamento era più che mai necessario.
Dunque cominciai — e cominciai con la più banale consolazione: presi a parlare spiegando come persino la nostra situazione attuale non fosse la più tremenda tra quelle che si potevano immaginare nell’Europa della seconda guerra mondiale e del sesto inverno di guerra; feci dunque assegnamento, a tutta prima, su un effetto di contrasto che pensavo di sfruttare. Dissi poi che ognuno di noi doveva chiedersi che cosa avesse perduto, finora, d’insostituibile. Feci delle riflessioni su questo punto, concludendo che la maggior parte di noi aveva perso ben poco d’essenziale. Almeno, chi era ancora in vita, aveva buoni motivi per sperare. Salute, felicità domestica, rendimento professionale, patrimonio, posizione sociale — erano tutte cose che si potevano sostituire, che si potevano ritrovare o rifare. « Abbiamo ancora le ossa intatte! ». E nonostante tutto quello che ci avevano costretto a subire in quell’ultimo periodo, il futuro, per noi, poteva ancora avere un senso. Citai Nietzsche: « Ciò che non mi uccide, mi rende più forte ».
E poi parlai del futuro. Dissi che il futuro poteva apparire squallido, agli occhi di un osservatore imparziale. Convenni che’ ognuno di noi poteva calcolare approssimativamente quanto poco probabile fosse uscire vivi dal Lager. Benché non vi fosse ancOra l’epidemia di tifo petecchiale, valutavo al 5 per cento la speranza di sopravvivenza, e lo dissi agli altri. Poi dissi anche che io, per quanto mi concerneva, non pensavo neppure di lontano, nonostante tutto, a rinunciare alla speranza, ad abbandonare la lotta: perché nessun ùomo conosce il futuro, nessun uomo sa che cosa può portargli magari l’ora successiva. E se non era lecito attendere per l’indomani eventi militari sensazionali, chi meglio di noi — con la nostra esperienza del Lager — poteva sapere se non sarebbe sopravvenuta all’improvviso una qualche prospettiva, almeno per qualcuno: Un’insospettata inclusione in un piccolo trasporto verso un campo di lavoro a condizioni particolarmente favorevoli, o qualcosa del genere. Cose che sono la grande aspirazione di un internato: la sua « felicità ».
Ma non parlai soltanto del futuro e del buio che fortunatamente lo circondava, e del presente con tutte le sue sofferenze; parlai anche del passatQ, di tutte le sue gioie e della luce ch’esso emanava, pur nell’oscurità dei nostri giorni. Citai di nuovo, per non diventare idillico in prima persona, il poeta che dice:
« Quanto hai vissuto, nessuna potenza del mondo può togliertelo ».
Ciò che abbiamo realizzato nella pienezza della nostra vita passata, nella sua ricchezza d’esperienza, questa ricchezza interiore, nessuno può sottrarcela. Ma non solo ciò che abbiamo vissuto, anche ciò che abbiamo fatto, ciò che di grande abbiamo pensato e ciò che abbiamo sofferto...
Tutto ciò l’abbiamo salvato rendendolo reale, una volta per sempre. E se pure si tratta di un passato, è assicurato per l’eternità! Perché essere passato è ancora un modo di essere, forse, anzi, il più sicuro.
E parlai anche delle molte possibilità di dare un significato alla vita. Raccontai ai miei compagni (che giacevano in silenzio, quasi senza muoversi, tutt’al più lasciandosi sfuggire un sospiro commosso) che la vita umana ha sempre, in tutte le circostanze, un significato, e che quest’infinito senso dell’essere comprende anche sofferenze, morte, miseria e malattie mortali. E pregai i poveri diavoli che mi stavano a sentire nel buio pesto della baracca, di guardare negli occhi le cose e la nostra gravissima situazioùe senza lasciarsi abbattere, nonostante tutto. Li pregai di mantenere il loro coraggio, in piena consapevolezza, perché la nostra lotta senza via di scampo aveva un suo senso e una sua dignità. Dissi loro che in queste ore difficili qualcuno guardava dall’alto, con sguardo d’incoraggiamento, ciascuno di noi, e specialmente coloro che vivevano le loro ultime ore: un amico o ùna donna, un vivo o un morto — oppure Dio. E questo qualcuno s’attendeva di non essere deluso, che sapessimo soffrire e morire non da poveracci, ma con orgoglio!
Infine parlai del nostro sacrificio; esso aveva un senso in ogni caso. Dissi che era proprio del sacrificio avere come presupposto l’apparente inutilità in questo mondo, nel mondo del successo. Si tratti del sacrificio di sé per un’idea politica o del sacrificio di un uomo per un altro. Certo, chi tra noi possiede una fede religiosa, l’ammette senza difficoltà. Dissi anche questo. E raccontai loro di quel compagno che all’inizio del suo internamento nel Lager aveva fatto un patto con il Cielo: il suo dolore e la sua morte dovevano risparmiare una morte tanto terribile alla creatura che egli amava. Per quest’uomo, sofferenza e morte non furono senza senso, avevano anzi assunto — come sacrificio — un profondissimo significato. Egli non voleva soffrire e morire senza senso; nessuno di noi lo voleva.., senza senso! Con le mie parole mi sforzai di imprimere un ultimo significato alla nostra vita attuale — in questa baracca del Lager — e ora — in questa situazione senza via d’uscita.
Seppi presto che questo mio sforzo aveva raggiunto il suo scopo. Quasi subito riprese ad ardere la lampadina elettrica appesa a una trave della nostra baracca, e vidi le misere figure dei miei compagni accostarsi al mio posto, zoppicando, gli occhi pieni di lacrime, per ringraziarmi... Devo però confessare di aver avuto solo raramente la forza interiore per innalzarmi a un ultimo, intimo contatto con i miei compagni di sofferenza, come quella sera. Certo, non ho sfruttato molte occasioni che mi venivano offerte.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 139
Malumore e discorso
Com’è possibile che uomini in carne ed ossa abbiano veramente fatto ad altri ciò che costoro dicono d’avere eseguito? Chi, dopo aver sentito questi racconti, crede ed accetta per vero che una cosa del genere sia in sostanza possibile, subito dopo chiede come la si possa motivare psicologicamente. Per rispondere a questo problema, anche senza volerne esaminare tutti i particolari, dobbiamo mettere in luce quanto segue: in primo luogo, tra le sentinelle di un Lager vi sono evidentemente dei sadici; li dobbiamo definire così, in un esatto senso clinico. In secondo luogo, i sadici erano scelti con cura, quando si doveva formare un gruppo di sorveglianza particolarmente rigido. Alla selezione negativa dei complici e degli aiuto-boia, fatta nella massa degli internati al fine di trovare, per esempio, i Kapos — della quale abbiamo già pàrlato, dicendo che spiega con logica rigorosa come spesso potessero sopravvivere gli elementi brutali e gli individui egoisti — a questa selezione negativa s’aggiunge nel Lager una selezione positiva dei sadici.
Mentre stavamo nel fossato, sul posto di lavoro, con un freddo rigidissimo, senza abiti che ci proteggessero dal gelo, eravamo naturalmente tutti felicissimi quando ci permettevano di riscaldarci a turno, ognuno dopo circa due ore, vicino a una stufa all’aria aperta che potevamo alimentare con rami o pezzi di legno. Quasi sempre, però, si presentava un capo operaio o un dirigente dei lavori, ben felice di guastare la nostra gioia; non era difficile leggere sul suo volto il piacere sadico con il quale proibiva tutto di sua iniziativa, rovesciando la stufa, con quella splendida brace, nella neve. E quando una SS non poteva soffrire qualcuno, aveva sempre un subalterno notoriamente senza scrupoli e specializzato in torture sadiche, al quale consegnare lo sventurato.
In terzo luogo, moltissime sentinelle erano semplicemente diventate del tutto insensibili, a causa dei molti anni durante i quali avevano assistito, in misura sempre crescente, ai sadismi perpetrati nel Lager. Questi uomini moralmente insensibili e spiritualmente induriti, rifiutavano il sadismo almeno nella propria amministrazione; ma ciò era tutto, perché non facevano nulla contro il sadismo degli altri.
Resta una quarta osservazione: anche tra le sentinelle del Lager vi furono — per così dire — alcuni sabotatori morali. Voglio ricordare solo il capo dell’ultimo Lager nel quale fui internato e dal quale mi liberarono. Era una SS. Dopo la liberazione del Lager si venne a sapere ciò che fino ad allora aveva saputo solo il medico del Lager (un prigioniero anche lui): il comandante del Lager aveva segretamente speso molto denaro di tasca propria per acquistare dalla farmacia della borgata vicina medicinali che dovevano servire agli internati. Un capo-gruppo del medesimo campo, che era un detenuto, era invece più crudele di tutte le sentinelle messe insieme. Picchiava gli internati quando e dove poteva, mentre, per quanto ne so io, il comandante del Lager non ha mai alzato, neppure una sola volta, la mano su uno dei « suoi » internati.
Non dobbiamo giudicare sbrigativamente, considerando angeli gli uni, e diavoli gli altri. Al contrario: restare umani di fronte agli internati, essendo sentinelle e sorveglianti, fuggendo alla suggestione generale della vita di un Lager, è una vera conquista personale ed etica, e non la si può sminuire. D’altro canto, la bassezza di un internato che fa del male ai suoi compagni di dolore, è particolarmente spregevole. È evidente quanto possa riuscire dolorosa per gli altri prigionieri la mancanza di carattere di un uomo siffatto, proprio come appare chiara la profonda commozione con la quale un internato accetta il minimo gesto umano dimostratogli, per esempio, da una guardia. Io ricordo come un capo operaio (dunque un non internato) mi diede una volta di soppiatto un pezzetto di pane, e sapevo che l’aveva risparmiato dalla sua razione del mattino. Questo pezzo di pane non era solo qualcosa di materiale; quell’uomo — e mi commossi letteralmente fino alle lacrime — mi dava qualcosa d’umano; una parola umana, uno sguardo umano accompagnavano il dono.
Da tutto ciò possiamo apprendere che sulla terra esistono soltanto due razze umane, e solo queste due; la « razza » degli uomini per bene e quella dei « poco di buono ». Queste due « razze » sono diffuse ovunque, penetrano e s’infilano in tutti i gruppi. Nessun gruppo è composto esclusivamente da persone per bene o esclusivamente da « poco di buono ». In questo senso non esiste dunque un gruppo di « razza pura » — e per l’appunto, vi furono persone per bene anche tra le sentinelle!
La vita nel campo di concentramento, mise senza dubbio a nudo un abisso che giunge fino all’intimo dell’uomo. Dobbiamo stupirci se in questa profondità non appare nient’altro che l’umano? L’umano per ciò che realniente è — un amalgama di bene e di male! L’incrinatura che attraversa tutto l’essere umano e distingue il bene dal male, raggiunge anche tali profondità e appare dunque anche nel fondo dell’abisso rappresentato dal Lager.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 144
Le sentinelle del Lager
Un bel mattino, sulla porta del Lager, sventolò una bandiera bianca. A questa forte tensione psichica, seguì allora una completa distensione interiore, ma s’inganna chi pensa che fossimo felici. Quale fu la realtà?
Con passi stanchi, i compagni si trascinarono alla porta del Lager — le gambe li reggevano appena. Timorosi, si guardarono intorno, s’interrogarono l’un l’altro con lo sguardo. Poi fecero i primi passi irresoluti, oltre la porta del Lager. Questa volta non tuona nessun comando, nessuno s’accovaccia per schivare un pugno, un calcio. No: questa volta la sentinella offre sigarette. Non è certo facile riconoscere di primo acchito le sentinelle, perché si sono affrettate ad indossare abiti civili. Proseguo lentamente, seguendo la strada d’accesso. Le gambe fanno già male e minacciano di cedere. Mi trascino in avanti, voglio vedere per la prima volta i dintorni del Lager — o meglio: vederli per la prima volta da uomo libero. Vado così nella natura, nella libertà. « Nella libertà », mormoro, rimuginando queste parole; ma non riesco semplicemente a capire. La parola libertà era troppo logorata dai nostalgici sogni di lunghi anni e il concetto troppo pallido; confrontato con la realtà, si dissolveva. La realtà non penetra ancora nell’intimo della coscienza: non la si può comprendere bene.
Arrivo in un prato. Qui vedo fiori sbocciati. Ne prendo atto, ma nulla giunge « al sentimento ». La prima piccola scintilla di gioia scocca quando noto un gallo; le penne della sua coda hanno colori meravigliosi. Ma è solo una scintilla di gioia; non partecipo ancora del mondo. Siedo all’ombra di un castagno, su una panchina; Dio sa qual è l’espressione del mio volto. In ogni caso, il mondo non provoca ancora nessuna impressione.
La sera, quando i camerati affluiscono di nuovo alla vecchia capanna di terra, si ritrovano, s’interrogano a vicenda, furtivamente: « Tu, dì’ un po’ — sei stato felice oggi? ». E si confessano — pieni di vergogna, perché non sanno ancora che a tutti è andata così —« Onestamente: no! » Avevamo letteralmente dimenticato la gioia e dovevamo prima riimpararla.
La psicologia chiama « evidente spersonalizzazione » ciò che gli internati sperimentano, una volta rimessi in libertà. Tutto pare irreale, inverosimile, tutto pare un solo sogno. Non ci si può ancora credere. Spesso, troppo spesso, il sogno s’è preso gioco di noi, in questi ultimi anni. Quanto spesso abbiamo sognato il giorno nel quale saremmo stati liberi di andare. Quanto spesso abbiamo sognato di tornarcene a casa; si salutano gli amici, si abbraccia la moglie, ci si siede al tavolo con loro e si comincia a dire quanto è successo in questi anni e quanto spesso si è sognato il giorno in cui li avremmo rivisti — è finalmente questo giorno è arrivato! Improvvisamente, risuonano all’orecchio tre fischi striduli, l’ordine « alzatevi »; ci strappavano dal sogno dopo che la libertà si era intravista per l’ennesima volta. Dobbiamo credere tutto, così, d’un tratto? Ora, questa libertà si è fatta veramente reale?
Eppure è così. Il corpo ha invece meno inibizioni dell’anima. Non appena è possibile, il corpo sfrutta la realià, arraff a, letteralmente: infatti cominciamo a divorare. Si mangia per ore, per giorni, per metà della notte. È inconcepibile quanto possiamo mangiare. Quando qualche ex internato riceve l’invito di un gentile contadino nei dintorni del Lager, comincia prima di tutto a mangiare, mangia e beve caffè — e il caffè gli scioglie la lingua e alla fine prende a narrare, per ore. Si scarica allora l’oppressione che per anni ha gravato su di lui. Sovente da questi racconti pare che I’ex internato subisca ancora una sorta di violenza spirituale, tanto è urgente la sua storia, questo dover parlare. (Ho fatto la medesima osservazione anche in persone sottoposte a una grave costrizione, sia pure per poco; per esempio, nel caso di interrogatori della Gestapo).
Passano giorni, molti giorni, finché si scioglie non solo la lingua, ma qualcosa all’interno. Allora avvertiamo che una breccia si è aperta nella barriera, quello strano ostacolo dal quale tutti eravamo fino ad allora impediti. Poi, un giorno, qualche tempo dopo la liberazione, cammini in aperta campagna, per chilometri e chilometri, attraverso prati fioriti, fino alla borgata nelle vicinanze del Lager. Allodole s’alzano in volo, si librano in alto; senti risuonare il loro canto e la loro gioia, là in alto, nello spazio infinito. Non c’è nessuno, lì vicino, intorno a te, vi sono vasti campi e il cielo e il canto di gioia delle allodole e l’infinito. Allora non prosegui più in questo infinito, ti fermi, ti guardi intorno e volgi gli occhi verso l’alto e cadi in ginocchio. In quest’attimo non sai molto dite, né del mondo; senti in te una frase sola, e sempre quella, ripetuta:
« Dal profondo chiamai il Signore ed Egli mi rispose dai liberi spazi » (SI 118,5). — Quanto tempo sei rimasto là, in ginocchio, quanto spesso hai ripetuto questa frase — il ricordo non può dirlo... Ma in questo giorno, in quest’ora, è cominciata la tua nuova vita, e tu lo sai. Passo dopo passo, non altrimenti, penetri in questa nuova vita, ridiventi uomo.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 148
Primi passi in libertà
La via dalla forte tensione spirituale degli ultimi giorni trascorsi nel Lager, la via di ritorno alla pace dell’anima, dopo questa guerra dei nervi, è irta di ostacoli. E sbaglia chi crede che il prigioniero rilasciato, o meglio, liberato dal Lager, non ha più bisogno di assistenza spirituale.
Durante questa fase psicologica si poté osservare, soprattutto in nature primitive, quanto perseverassero nell’atteggiamento etico preso sotto le categorie del potere e della violenza. Ora, però, dopo la liberazione, credevano toccasse loro di sfruttare arbitrariamente, senza scrupoli e senza preoccupazione alcuna, la potenza e la libertà. Per questi uomini primitivi in realtà era mutato solo il segno delle vecchie categorie morali: il negativo era divenuto positivo.
Erano stati oggetti del potere, della violenza, dell’arbitrio e dell’ingiustizia e son divenuti soggetti nell’ambito di queste categorie, rimanendo così schiavi delle esperienze passate. I sintomi di quest’atteggiamento si palesano in bagatelle dall’apparenza insignificante. Per esempio: cammino con un compagno attraverso i campi, in direzione del Lager, dal quale ci hanno liberato da poco tempo. D’un tratto ci troviamo davanti un campo di fresca semina. Automaticamente mi scanso; l’altro però mi prende al braccio e mi trascina con sé proprio nel mezzo. Balbetto qualcosa, dicendo che non dobbiamo calpestare i campi seminati da poco. L’altro si arrabbia; nei suoi occhi guizza una luce irata, mentre mi urla:
« Che ti prende? E a noi non hanno portato via niente? Hanno mandato al gas mia moglie e mio figlio — senza tener conto di tutti gli altri — e tu vuoi impedirmi di calpestare qualche filo di paglia...» Occorre molta pazienza perché questi uomini ritrovino la verità, del resto quasi banale, che nessuno ha il diritto di commettere un’ingiustizia, neppure chi ha subito un’ingiustizia. E tuttavia dobbiamo lavorare perché questi uomini ritornino alla verità; se la si capovolgesse, ne deriverebbero conseguenze ben peggiori della perdita di alcune migliaia di semi d’avena per un contadino sconosciuto. Vedo ancora davanti a me il compagno che rimboccando la manica della sua camicia, mi mise il pugno sotto il naso e urlò: « Mi devono tagliare la mano, se non la macchio di sangue, il giorno in cui torno a casa... ». E lo dico chiaro e tondo:. l’uomo che pronunciò queste parole non era affatto malvagio e fu sempre, nel Lager e dopo, un ottimo compagno.
Oltre alla deformazione morale che minaccia l’uomo improvvisamente liberato dalla pressione morale, due altre esperienze fondamentali gravano sul suo carattere e possono nuocergli o danneggiarlo: l’amarezza e la delusione di chi torna, libero, alla vita d’un tempo. Molti e diversi fenomeni della vita pubblica nell’ambito della società alla quale l’ex internato ritorna, suscitano in lui amarezza. Quando un uomo torna a casa, dopo avere tanto sofferto, e deve costatare che la gente gli concede solo una scrollata di spalle o luoghi comuni, spesso l’amarezza lo sommerge. Egli si domanda allora a che scopo ha sopportato tanto. Perché quasi ovunque egli vada, la gente gli pone davanti le frasi consuete: « Non sapevamo niente ». « Anche noi abbiamo sofferto... ». Allora quest’uomo dovrà chiedersi se questo è veramente tutto ciò che hanno da dirgli...
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 151
Ingiustizia subita e vendetta
In un modo o nell’altro — viene il giorno in cui ogni ex internato, ripensando alle esperienze del Lager, prova una strana sensazione. Egli stesso non comprende come ha potuto superare tatto ciò che la vita del Lager ha preteso da lui. E se vi fu nella sua vita un giorno — il giorno della liberazione — nel quale tutto gli apparve come un bel sogno, certamente arriva anche il giorno in cui tutto ciò che ha vissuto nel Lager gli appare come un brutto sogno. Quest’esperienza dell’uomo tornato a casa, sarà corona ta dalla splendida sensazione che, dopo quanto ha sofferto, non deve temere più nulla al mondo — tranne il suo Dio.
Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, pag. 152