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DELUMEAU JEAN, UNA STORIA DELLA PAURA, IL MULINO
Il peccato e la paura
Jean Delumeau - Il Mulino, pp.1008, L. 50.000
Nel XIII secolo, alla paura degli assedi (dei turchi) che attanagliava la
società occidentale, si sotituì la paura del proprio io. Era questa l'angoscia
di fondo che si esplicava di volta in volta in tante paure "specifiche" e che
invece si rivelava improvvisamente come il nuovo nemico di ciascun abitante
della "cittadella assediata". La vita del cristiano, in questo mondo, altro non
era che una continua guerra. Diceva Lefèvre d'Etaples: "Il maggior avversario
che mai tocchi combattere a un cristiano è lui stesso. Non c'è nemico così
difficle da vincere quanto la propria carne, la propria volontà. Infatti per sua
natura è incline a ogni sorta di mali".
E nel Rinascimento, che è il periodo in cui gli artisti e i letterati celebrano
la dignità dell'uomo, paradossalmente la visione negativa del mondo si
inasprisce e si fa strada il gusto per il macabro e il morboso. In questo volume
lo storico Jean Delumeau, docente al Collège de France ed autore di numerosi
scritti, analizza quella che può essere definita una 'pastorale' della paura e
del peccato. E, attraverso l'esame delle minacciose prediche dai pulpiti, dei
libri di edificazione, delle memorie di santi e beati e dell'iconografia
macabra, ricostruisce la storia di una mentalità che, sostenuta
dall'accumularsi, nel periodo considerato, di calamità e orrori bellici, ha
trovato espressione ben oltre la sfera religiosa.
da: "Una storia della paura", in Melograni P., Ricossa S., Le rivoluzioni del
benessere, Laterza, Bari 1988, p. 183-212
L’angoscia degli antichi e dei moderni
Gli psichiatri, in secondo luogo, hanno dimostrato: 1) che un effetto della
paura è l'«oggettivazione» (chi ha paura prova piacere a scrivere storie di
violenza, a leggerle e ad ascoltarle); 2) che le «proiezioni» iconografiche
costituiscono anch’esse, insieme con la fuga e con l’attacco, una reazione
abituale di fronte alla paura e si trasforma in angoscia. Gli psichiatri
dell’infanzia, in particolare, colgono questo processo grazie ad alcuni test
chiamati «test del paese della paura» e «test del paese della gioia». Per quanto
riguarda il primo di questi due «paesi», il bambino viene indotto a esprimere la
sua angoscia grazie a frasi e soprattutto a disegni che esprimono
l’aggressività, l’insicurezza, l’abbandono e la morte. Ora a me pare che
l’iconografia europea, dal tardo gotico al manierismo, abbia ampiamente
espresso, e spesso con gusto morboso, queste quattro componenti dell’angoscia
identificate dai testi moderni. Mai verranno rappresentate nelle chiese tante
scene di martirio, e con una tale abbondanza di dettagli inquietanti, come fra
il 1350 e il 1650.
L’indagine che mi proponevo aveva fin dall’inizio bisogno della consultazione di
libri sulla «psicologia delle folle» e sulla violenza (quelli di Konrad Lorenz,
di A. Stor, di Erich Fromm) e di opere sociologiche contemporanee, come quelle
di Edgar Morin su La Rumeur d’Orléans. Nel 1959 a Orléans e in altre città
francesi si sparsero voci che accusavano alcuni commercianti di biancheria
femminile di aver fatto scomparire talune clienti per farle prostituire in
Africa del Nord o in America del Sud. Mi era chiaro, fin dall’inizio, che avrei
incontrato lungo le mie ricerche la violenza delle folle di un tempo, che sarei
stato indotto a pormi il problema dei rapporti tra paura e rivolta, e che avrei
trovato nel passato voci simili a quelle che turbarono Orléans e altre città
francesi nel 1959. Allo stesso modo, nel 1750, corse voce a Parigi che la
polizia portava via i bambini dalle strade per deportarli in Luisiana. E questa
voce finì per provocare una sommossa con molte vittime.
Inoltre ho avuto alcune difficoltà a usare l’aggettivo collettivo, che è ambiguo
e di cui, secondo i casi, ho utilizzato uno dei due significati: esso, infatti,
può servire a indicare sia una folla, sia l’uomo qualunque inteso come un
campione rappresentativo del gruppo. Nel corso delle mie ricerche, infatti,
avrei incontrato sia folle impaurite, sia individui le cui paure esprimevano i
sentimenti del loro ambiente.
Una soluzione equilibrata
Un’indagine sulla paura d’altri tempi, dunque. Ma per quale periodo e quali
luoghi? A questo punto nascevano due tentazioni: quella di circoscrivere troppo
la ricerca e quella di espanderla troppo. E nascevano anche due pericoli:
l’eccesso di concentrazione e l’eccesso di dispersione. Ho optato per una
soluzione intermedia cercando due elementi omogenei e complementari. Mi è
infatti sembrato, in via di ipotesi, che il periodo 1348-1648 presentasse una
certa coerenza interna, benché non corrispondesse alle divisioni cronologiche
tradizionali.
Il 1348 segnò il violento ritorno della peste in Europa: la peste nera costituì
un trauma straordinario nel XIV secolo. Per giunta, quasi contemporaneamente, si
determinò in Europa un ribaltamento della congiuntura economica. Le condizioni
climatiche peggiorarono per un eccesso di umidità, le annate di raccolti cattivi
si moltiplicarono e sopravvenne una crisi agricola. Nel corso del XIV e XV
secolo, rivolte rurali e urbane, guerre interne e guerre esterne devastarono un
Occidente sempre più esposto alle carestie, alle epidemie e alla violenza. A
queste disgrazie si aggiunsero sia la crescente minaccia turca, sia il Grande
scisma (1378-1417) che, almeno agli uomini di chiesa, apparve come lo scandalo
degli scandali. Certamente la situazione demografica ed economica europea
migliorò alla fine del XV secolo e nel corso del successivo, soprattutto in
Italia. Ma pestilenze e carestie continuarono a infierire periodicamente,
mantenendo le popolazioni in uno stato di allarme biologico. Nello stesso tempo
i turchi accrebbero la loro pressione fino alla battaglia di Lepanto (1571),
mentre la frattura del Grande scisma, che era stata momentaneamente bloccata, si
riapriva profondissima con il sorgere del protestantesimo e con le sanguinose
guerre di religione, destinate a protrarsi fino alla pace di Westfalia (1648).
Questi elementi hanno determinato la scelta dei limiti temporali nell’ambito dei
quali ho sviluppato la mia indagine, anche se mi sono riservato la libertà di
superarli qua e là per precisare questo o quel particolare. L’area geografica
presa in esame è stata quella in cui si è affermata la cristianità latina perché
la realtà del mondo ortodosso era troppo diversa. Il mondo ortodosso, infatti,
non conobbe la distinzione tra peccato veniale e peccato mortale, né la
confessione obbligatoria e dettagliata dei peccati, né i grandi processi di
stregoneria. La nascita del protestantesimo, viceversa, non provocò una vera e
propria rottura all’interno della civiltà occidentale.
Interrogativi e risposte
Nei limiti così definiti, la domanda fondamentale che mi sono posto è stata la
seguente: «Chi è che aveva paura? e di che cosa?». Questo interrogativo di fondo
ha suscitato, attraverso una reazione a catena, una valanga di altre domande
particolari sulla paura della notte, del mare, degli spiriti, dei malefici,
delle stelle, delle comete, delle eclissi, della peste, del fisco, della
carestia, degli ebrei, dei turchi, dei bestemmiatori, degli eretici, degli
stregoni ecc. Avrei potuto ulteriormente allungare la lista delle paure presenti
in quell’epoca aggiungendo, per esempio, la paura della foresta o quella degli
incendi. Tuttavia il panorama preso in considerazione mi sembra sufficientemente
esteso per dimostrare che nella civiltà preindustriale la paura era
onnipresente, soprattutto nelle campagne. Ma i contadini non costituivano forse
i tre quarti della popolazione europea?
Prima di indagare sul vasto argomento della paura nella storia, non mi rendevo
conto di quanto i nostri antenati temessero il mare, né fino a che punto i
rapporti quotidiani fossero sconvolti, e addirittura annullati in una città
assediata dalla peste, e neppure avevo capito quale parte avesse la paura nelle
rivolte spontanee del passato. Vorrei brevemente insistere su quest’ultimo
punto. Lo storico non può risolvere da solo l’immenso problema delle cause della
violenza umana e stabilire se esse siano antropologiche o sociologiche e se
nell’uomo esista realmente un istinto distruttivo primario. Lo storico tuttavia
può offrire il suo contributo al dibattito e dimostrare, documenti alla mano,
che dal XIV al XVII secolo la maggior parte delle rivolte in Europa furono
reazioni difensive motivate dalla paura di un pericolo sia reale, sia
parzialmente immaginario, sia totalmente illusorio (ma non avvertito come tale).
Se questa analisi storiografica è esatta ne deriva che diminuire la paura in una
collettività equivale a disinnescare alcune cariche esplosive, e ciò vale anche
per il presente.
Le due principali cause delle rivolte spontanee del passato sono state il timore
di restare senza pane in epoca di carestia e quello di essere colpiti da un
aggravio fiscale. A livello collettivo questi due timori si congiungevano. Nella
Francia di Luigi XIV, infatti, si poteva ancora morire di fame. D’altra parte
gli inasprimenti delle imposte - e ve ne furono molti al tempo di Richelieu -
potevano far precipitare numerose famiglie nella miseria. I rivoltosi, nell’uno
e nell’altro caso, avevano la sensazione molto spesso giustificata che la loro
vita e quella delle loro famiglie fosse in pericolo. Questo spiega il fatto,
ormai ben messo in luce dalla storiografia, che il segnale della rivolta era
spesso dato dalle donne. Per prime, difatti, esse percepivano le minacce che la
carestia e gli aggravi fiscali facevano incombere sulle loro famiglie.
Compilare un inventario; sia pure incompleto, delle paure un tempo diffuse,
soprattutto fra le classi popolari, induce a considerare fino a qual punto la
scienza, la tecnica e lo spirito critico siano serviti a dissolvere queste
paure. La peste non fa più scomparire in pochi mesi la metà degli abitanti di
una città, come accadde a Milano nel 1630, a Napoli nel 1656 o a Marsiglia nel
1720. In Occidente non si soffre più la fame. Abbiamo dimenticato la paura del
lupo. Non temiamo più gli spiriti o le comete. Ci rallegriamo all’idea di fare
una crociera per mare, mentre ai nostri avi il mare appariva come un funesto
luogo di perdizione. Quando leggiamo, nei «rituali» di un tempo - e questo tempo
si spinge fino al XIX secolo -, le varie benedizioni che la Chiesa cattolica, su
richiesta delle popolazioni, soleva impartire per la protezione della vita di
tutti i giorni, possiamo misurare fino a qual punto i nostri antenati fossero
circondati dalla paura. In un testo latino del XVII secolo, ristampato a Venezia
nel 1779, figurano un buon centinaio di «assoluzioni, benedizioni ed esorcismi»
che si riferiscono alla vita quotidiana: benedizione delle greggi, del vino, del
latte, delle uova, di «ogni tipo di carne», dei bachi da seta, delle cantine,
dei granai, del letto coniugale, del pozzo nuovo, del sale che sarà dato agli
animali, dell’aria perché resti il sereno o arrivi la pioggia; scongiuri contro
la «tempesta imminente» e contro il tuono; esorcismi contro i vermi, i topi, i
serpenti, tutti gli animali nocivi e così via.
Tre conclusioni
Il primo tomo della mia indagine sulla Paura in Occidente (1978; trad. it.
Torino 1979) mi ha condotto a tre conclusioni. La prima ha messo in rilievo
quali concomitanze sono potute emergere grazie a un processo di sintesi. Un
certo numero di paure, infatti, raggiunsero il culmine tutte insieme, e mi
riferisco in particolare alla paura delle streghe, dei bestemmiatori, degli
ebrei, di Satana, della fine del mondo. Crebbero pressoché contemporaneamente a
partire dalla metà del XIV secolo, raggiungendo l’apice tra la fine del XVI e
gli inizi del XVII secolo. E questa crescita della paura ha coinciso con
pestilenze, rivolte, guerre e violenze di ogni genere. Viceversa le paure, le
pestilenze, le rivolte e le violenze si attenuarono tutte insieme a partire dal
1650. Da ciò deriva una costatazione valida anche per altre situazioni: a
livello collettivo una paura appare raramente da sola, perché ne determina
altre. Tutte insieme esse compongono un «corteo di paure» e tendono a creare
quel clima di «disagio» al quale alludevo all’inizio. In ogni caso l’aver messo
in evidenza che un gruppo di paure legate fra loro seguivano una curva dapprima
ascendente e poi discendente mi è sembrato giustificare a posteriori il quadro
cronologico (metà del XIV metà del XVII secolo) che avevo scelto fin
dall’inizio, a titolo di ipotesi, come campo privilegiato di indagine.
La seconda conclusione è stata una rilettura del Rinascimento. L’accumularsi
delle aggressioni che investirono le popolazioni dell’Occidente dal 1348 alla
metà del XVII secolo creò uno sconvolgimento profondo in tutti gli strati
sociali. Arrivò il «paese della paura» - in senso psichiatrico - all’interno del
quale la civiltà si sentì «a disagio» e produsse una quantità di morbosi
fantasmi. L’ossessione della morte, all’inizio dell’era moderna, divenne
onnipresente nelle parole e nelle immagini degli europei: nelle danze macabre
come nel Trionfo della morte di Bruegel, nei versi di Ronsard come nei processi
di stregoneria, nei Saggi di Montaigne come nel teatro elisabettiano. Dobbiamo
pertanto diffidare del termine di «Rinascimento» per quel che esso evoca di
gioioso e brillante. Esso ci fa dimenticare l’Apocalisse incisa da Dürer, il
Giudizio universale di Michelangelo, l’insistenza con la quale Leonardo da Vinci
trattò il tema del diluvio, le guerre di religione e l’ossessione della
stregoneria, che conobbe il suo culmine non nel Medioevo, ma tra il 1560 e il
1630. Il termine «Rinascimento» ha fra l’altro l’inconveniente di nascondere il
fatto che i contemporanei di Francesco I e di Carlo V non credevano
assolutamente a un progresso morale e tecnico dell’umanità, speranza che al
contrario animerà i filosofi illuministi e i positivisti del XIX secolo e degli
inizi del XX.
Queste due prime conclusioni mi hanno condotto a una riflessione di carattere
più generale sulla paura nella storia. La paura inerente alla condizione umana.
Non scomparirà mai, poiché «paura» significa fondamentalmente paura della morte.
L’uomo, che è in grado di prevedere la morte meglio degli animali, ha
inevitabilmente la paura come compagna, più o meno vicina, per tutta la durata
della vita. Inoltre, lo ripeto, la paura, come reazione di allarme davanti a un
pericolo, è sana e necessaria. Non vedo come l‘umanità avrebbe potuto progredire
senza questa lucidità accompagnata da timore, grazie alla quale le si sono
rivelati i continui pericoli esistenti sul suo cammino. Tuttavia - e questa
seconda affermazione non è in contraddizione con la precedente, o in ogni caso
va considerata contemporaneamente ad essa - individui e società devono
costantemente dominare e superare le paure ogni volta diverse che rischiano di
inibirli. La paura, insomma, resterà. È un fatto esistenziale. Ma le paure si
modificano e, soprattutto, aumentano e diminuiscono secondo i periodi. La storia
registra a questo proposito periodi di miglioramento e ondate di angoscia in
seguito all’accumularsi di stress e timori. Gli inizi dell’era moderna mi
sembrano aver coinciso con una di queste ondate: paure particolari e
congiunturali, per esempio quella della peste, si sovrapposero a paure che erano
permanenti e strutturali nella società del tempo, e le rinforzarono.
Il diavolo e i dèmoni
La terza conclusione che mi resta da indicare, anch'essa valida per altri tempi
e luoghi, è che nell'Europa occidentale e centrale, dall'inizio dei tempi
moderni, le paure delle élite sono state paradossalmente più grandi che non le
paure delle masse. Tale constatazione ha costituito per me la maggiore sorpresa
e la più importante rivelazione della mia ricerca. Tre esempi sono illuminanti
al riguardo: 1) I recenti studi di etnostoria rivelano che il demonio popolare
era molto meno inquietante che non il diavolo della Chiesa. Aveva un aspetto
bonario, possedeva perfino qualche carattere benefico e i contadini, come è
testimoniato dai racconti, riuscivano facilmente a raggirarlo. 2) I processi di
stregoneria lasciano intuire che il mondo rurale non vedeva le streghe e gli
stregoni con gli stessi occhi dei giudici civili ed ecclesiastici. Certamente i
contadini temevano i propagatori di malefici e all'occorrenza li denunciavano.
Ma per i tribunali i malefici restavano un fatto secondario. Ai giudici
interessava soprattutto ottenere la confessione, da parte degli accusati, di
aver concluso un patto con Satana e di aver partecipato ai cosiddetti sabba
diabolici. Lo stregone assumeva in tal modo una nuova statura, appariva come
l'agente privilegiato del demonio. 3) Benché vi fossero frequenti manifestazioni
locali di ostilità popolare ai danni degli ebrei nelle città del Medioevo
classico, l'antigiudaismo acquistò tutt'altra dimensione allorché, diventando
dottrinale, fu fatto proprio dai teologi e dai predicatori fin dal tempo della
seconda crociata e soprattutto dal XIV secolo. Fu allora che si moltiplicarono
le espulsioni massicce e furono creati i ghetti - questi ultimi, in particolare,
durante il XVI secolo. Queste tre serie di fatti rivelano nell'insieme una
cultura dotta più spaventata che non quella popolare di fronte all'azione
multiforme delle forze demoniache, e tutta tesa a diffondere le proprie paure
tra le masse popolari.
Della valanga di disgrazie che oppressero l'Europa a partire dal 1348, i padri
spirituali dell'occidente - essenzialmente uomini di chiesa fino al XVIII secolo
- cercarono le cause e dunque i rimedi. Ritrovarono una spiegazione tanto antica
quanto la civiltà e, in ogni caso, molto presente nella storia ebraica: la
divinità punisce le collettività colpevoli. È importante osservare che Gesù si
era opposto a questo tipo di spiegazione, a proposito sia dell'uomo cieco fin
dalla nascita (Giovanni, 9, 1-3), sia delle persone che erano perite in seguito
alla caduta della torre di Siloe (Luca, 13, 4). Ma questo aspetto così moderno
dell'insegnamento di Gesù è stato in pratica dimenticato fino ai nostri giorni.
Se tante calamità si abbattevano sul mondo cristiano, dipendeva, secondo la
Chiesa, dal fatto che i peccati si erano moltiplicati, per esempio sotto forma
di bestemmie. L'idea che l'umanità non fosse mai stata così peccatrice era, a
quel tempo, ovunque presente. La troviamo nel poeta Eustache Deschamps, vissuto
all'epoca della guerra dei cent'anni, in Lutero, in Ronsard, nel più grande
giurista francese della fine del XVI secolo, Scan Bodin, e in molti altri. Da
qui l'idea che questa moltiplicazione dei peccati costituisse un segno della
grande offensiva di Satana prima della fine del mondo. Mentre i medievalisti
hanno più o meno spazzato via la leggenda dei terrori dell'anno mille, io ho
avuto la sorpresa di scoprire nel corso delle mie indagini che all'inizio
dell'era moderna le paure - e le speranze - apocalittiche furono realmente
condivise da un largo settore dell'élite europea (mentre è difficile stabilire
in quale misura queste attese escatologiche fossero condivise dal popolo).
Non si può dunque capire la drammatica crisi della coscienza europea nei secoli
XIV-XVI se non si ha presente questa ossessione demoniaca vissuta dall'élite
religiosa del tempo. In tale contesto la Chiesa doveva assolutamente fare un
inventario delle astuzie del Maligno (donde il moltiplicarsi delle opere di
demonologia) e identificarne tutti gli agenti (turchi, ebrei, bestemmiatori,
streghe, eretici e cosi via). Queste denunce avevano un valore terapeutico.
Esse, difatti, «davano un nome» ai pericoli e dunque riuscivano a frammentare in
tante paure particolari una generale situazione di angoscia. Servivano a
designare e a stanare alcuni avversari. Non si poteva far nulla contro la peste,
le eclissi e le comete, le tempeste e le carestie. Ma i nemici della
collettività, veri responsabili di queste disgrazie, potevano essere
neutralizzati.
Certamente una cura di questo tipo non era l'unica possibile. Allorché nel 1959
si diffusero a Orléans le voci di cui ho già parlato, le autorità, i mezzi di
informazione e i commercianti coinvolti nella vicenda lottarono contro il panico
che stava crescendo e impedirono lo scatenarsi di una sommossa moltiplicando di
comune intesa gli appelli alla calma, dimostrando l'assurdità delle voci e
minacciando querele contro i propalatori di notizie false. Si impegnarono a
sgonfiare la vicenda, a sdrammatizzarla, a rassicurare la gente. I padri
spirituali dell'Europa del XIV-XVI secolo agirono in modo esattamente opposto:
drammatizzarono all'eccesso. Certo, la loro terapia ebbe un carattere
omeopatico, poiché essi combatterono il male con il male, l'angoscia con la
paura. Ma la loro omeopatia fu paradossale nel senso che, invece di utilizzare
dosi infinitesimali, essi praticarono fortissime iniezioni. Decisero di
procedere in questo modo, perché essi stessi avevano paura: paura per il loro
potere. Turchi, ebrei, streghe, bestemmiatori ed eretici apparvero loro come
agenti sovversivi al servizio di Satana: la Chiesa rischiava di essere distrutta
dall'offensiva demoniaca.
La paura di sé
Il procedimento sintetico che mi sono sforzato di applicare nelle mie indagini
mi ha condotto verso una nuova constatazione, che è all'origine del secondo
tomo, Il peccato e la paura (1983; trad. it. Bologna 1987). Si sarebbe potuto
pensare che una civiltà la quale si vedeva o si credeva assalita da tanti nemici
- turchi, idolatri, ebrei, eretici, streghe e così via non avrebbe avuto tempo
per un'analisi introspettiva. Apparentemente sarebbe stato logico. Ma accadde
proprio il contrario. La mentalità da stato di assedio che ho appena evocato era
accompagnata da un profondo senso di colpa, da un interesse senza precedenti
verso l'interiorizzazione e la coscienza morale. Robert Burton scrisse in modo
significativo nella sua Anatomia della malinconia pubblicata nel 1621, un'opera
che si occupava in particolare della «malattia dello scrupolo».
«È la coscienza che, da sola, si comporta come mille testimoni in grado di
accusarci [...] come un testimone sempre disposto a deporre, a incitare la
giuria perché ci interroghi, a tormentarci, come un persecutore pronto ad
aggredirci, come un ufficiale giudiziario con mandato di comparizione, come un
funzionario di polizia delegato a prelevarci, come un sergente pronto ad
arrestarci, come un procuratore incaricato di incolparci, come un carceriere
lieto di tormentarci, come un giudice deciso a condannarci, mai cessando di
accusare, denunziare, torturare, molestare.»
Un'angoscia globale, che riusciva a frammentarsi in tante paure alle quali era
stato dato un nome, arrivò a scoprire un nemico in ogni abitante della città
assediata; e scoprì una nuova paura: la paura di sé. Spingendo all'estremo
l'interpretazione dì un testo di San Paolo (Galati, 6, 16-24), il teologo
Lefèvre d'Etaples insegnava: «Il più grande avversario che abbia il cristiano è
se stesso. Non ha nient'altro di tanto difficile da vincere quanto la sua carne,
la sua voluttà: poiché essa, per sua natura, è incline a tutti i mali». E con lo
stesso spirito Santa Caterina da Genova (morta nel 1510) assicurava: «Se tutti
gli angeli venissero a dirmi che c'è in me qualcosa di buono non potrei
decidermi a crederlo». Il predicatore gesuita Louis Bourdaloue dichiarava a sua
volta in un sermone: «Non è affatto un paradosso ma una verità certa che non
abbiamo nessun nemico da temere più di noi stessi. Pertanto [...] io sono [...]
più temibile per me che tutto il resto del mondo, poiché dipende solo da me dare
morte alla mia anima ed escluderla dal regno di Dio». Tale affermazione
rispecchiava l'opinione generale dei padri spirituali della cristianità. In tal
modo, al «timore», all'«orrore», al «terrore», allo «spavento» suscitati da
pericoli esterni di ogni genere, provenienti dagli elementi e dagli uomini, si
aggiungevano due sentimenti non meno opprimenti e che avevano il potere di
condurre le anime sensibili a una vita ossessionata dagli scrupoli e dal senso
di colpa: l'«orrore» del peccato e l'«ossessione» della dannazione.
La storia del senso di colpa non coincide con quella del potere clericale. Le
due storie sono certamente legate fra loro, ma la prima supera i limiti della
seconda. Freud e Jung, a questo proposito, sono d'accordo nel sottolineare il
posto che qualsiasi studio sulle società dovrebbe accordare al peccato. Ora a me
sembra che mai una società abbia accordato tanto peso al senso di colpa e tanto
merito al pentimento quanto la società occidentale nei secoli XIV-XVII. Siamo
davanti a un fatto di grande importanza che non è facile chiarire. Tentare, per
uno spazio ed un tempo determinati, di scrivere la «storia del peccato», e
dunque della cattiva immagine di se stessi, vuol dire mettere in evidenza, e in
un sol colpo, tutto un insieme di relazioni e di atteggiamenti inerenti alla
mentalità collettiva. Significa riscoprire le meditazioni di una società sulla
vita e sulla morte, sull'insuccesso e sul male. Significa, entro certi limiti,
scrivere insieme una storia di Dio e una storia dell'uomo. L'uomo
dell'Occidente, dominato da un intenso senso di colpa - e si noti che questo
termine è un neologismo di data recente - fu indotto a indagare in se stesso, a
conoscere meglio il suo passato, a sviluppare la sua memoria (grazie alla
pratica della confessione), a precisare la propria identità, a misurare meglio
le proprie responsabilità. La «cattiva coscienza» si sviluppò insieme con l'arte
del ritratto. Si accompagnò all'ascesa dell'individualismo. Contribuì,
necessitandole un qualche compenso, a sviluppare il concetto delle circostanze
attenuanti.
Da questa problematica generale sono derivati, per la seconda parte della mia
indagine, molti imperativi e molte importanti conclusioni. Dobbiamo infatti
risalire a un'epoca anteriore al 1348 (peste nera) per cogliere le origini del
grande movimento che contribuì a diffondere il senso di colpa. Bisogna infatti
convincersi che la morale proposta e addirittura imposta ai laici fu elaborata
dai monaci e per i monaci. D'altra parte, in questa prospettiva, l'inizio del
XIII secolo assume un particolare rilievo dato che la nascita degli Ordini
mendicanti conferì un'importanza senza precedenti alla predicazione lo strumento
di comunicazione più importante dell'epoca e dato che il IV Concilio lateranense,
nel 1215, obbligò i fedeli a confessarsi almeno una volta l'anno. Infine,
all'altro capo della cronologia, è evidente che un prolungarsi del senso di
colpa medievale e moderno è riscontrabile anche in pieno XIX secolo. È allora
importante analizzare le sorti di una acculturazione, i successi e i limiti di
essa. La storia delle mentalità non può, in effetti, limitarsi allo studio degli
strati popolari, artificiosamente isolati dal resto: deve interessarsi alla
cultura scritta e chiarire i concetti e i fantasmi, le paure e le speranze che
facevano parte di quella cultura e che da essa furono diffusi.
Conclusioni
Alla fine di questo mio scritto, mi sembra doveroso sottolineare le tre
principali conclusioni alle quali sono giunto nello studiare la paura di se
stessi. La prima consiste in una rilettura del «macabro» nel mondo cristiano dei
secoli XIV-XVI. Si trattò di un fenomeno che finì per sfuggire parzialmente, ma
solo parzialmente, al controllo di chi lo aveva promosso. Contrariamente a certi
storici che hanno la tendenza a considerare il macabro come un fenomeno operante
in modo autonomo, al di fuori della dimensione religiosa, sono indotto a
considerarlo soprattutto come un prolungamento e un allargamento del discorso
monastico sul «disprezzo del mondo» Il macabro cristiano ha corrisposto a un
insegnamento religioso elaborato dai monaci e diffuso soprattutto dai
predicatori. Soltanto uno studio fondato su un'indagine di «lunga durata» poteva
permettere di ristabilire questi legami.
Il secondo risultato è descritto nel mio secondo libro con il titolo generale di
«Pessimismo del Rinascimento», ovvero pessimismo dell'élite. Ho qui confermato e
ampliato una delle conclusioni del primo libro. Non si può infatti comprendere
né il successo che l'astrologia ebbe allora, né l'interesse dimostrato dai
medici del tempo per la malinconia, né le paure escatologiche vissute dagli
spiriti più sensibili, né la violenza dei conflitti religiosi, né la teologia
protestante, se si mantiene l'idea che una dominante ottimistica caratterizzasse
gli inizi dell'epoca moderna. Il protestantesimo è invece nato da un'esperienza
di «disperazione» e ha spinto al limite il senso di colpa dell'uomo peccatore e
totalmente «corrotto», come disse Calvino, a causa del peccato originale.
Il terzo risultato è stato quello di mettere in evidenza il concetto, ormai
superato dalla teologia cristiana, di una punizione originale di fantastiche
dimensioni, tale da far sì che l'umanità, in seguito al peccato di Adamo ed Eva,
sarebbe condannata non solo alla sofferenza e alla morte, ma anche alle pene
dell'inferno, se non ci fosse la redenzione capace di liberare da tale castigo
un piccolo numero di eletti. La verità è che Gesù non parla mai di peccato
originale. Di esso si parla nella Genesi, ma senza far cenno a condanne
all'inferno, che non sono neppure formalmente indicate nelle epistole di San
Paolo. La dottrina tradizionale del peccato originale con le sue due maggiori
conseguenze - a) il senso di colpa per l'intera umanità, b) l'affermazione che
l'umanità costituisce una «massa di dannati» - deriva essenzialmente da Sant'Agostino.
Il fatto è che essa ha esercitato un'influenza formidabile su tutta la storia
dell'Occidente. Ha contrassegnato l'intera storia del peccato. Ha imposto
l'immagine di un Dio che punisce, ma che è pronto in seguito a riscattarci. La
rivoluzione cristiana della nostra epoca consiste nell'abbandono di questa
immagine, grazie al ritorno alle vere origini.
Noi ci siamo praticamente liberati dalla paura dell'inferno. Non abbiamo più
paura dei lupi, delle comete, delle eclissi. La peste e il colera sono scomparsi
in Occidente, dove non si muore più di tubercolosi. Abbiamo dunque fatto
arretrare molti pericoli, o li abbiamo addirittura eliminati. E tuttavia eccone
altri davanti a noi: l'insicurezza delle città, l'inquinamento, l'Aids, la
droga, il nucleare, ecc. I documenti della storia non sono privi di utilità di
fronte a tali minacce. Contengono difatti almeno due insegnamenti: a) coloro che
detengono il potere non devono abusare dell'arma della paura, che è una lama a
doppio taglio; b) la chiarezza, la pazienza e la ricerca hanno permesso già una
volta di vincere molti pericoli. Vale la pena continuare lungo questa strada,
che si è dimostrata feconda.