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Una delle passioni del nostro tempo è quella della visibilità. La prova
del tuo valore non viene tanto da ciò che tu sei, dal tuo modo di
comportarti, ma dalla tua popolarità. Dal fatto che gli altri ti conoscano.
Una passione, tuttavia, accompagnata dalla paura, altro tratto distintivo
della nostra società avanzata, ma anche insicura. In questo caso, la paura è
sia quella di perdere la visibilità ottenuta, sia quella di essere visto
“troppo”, anche quando, dove, e con chi non vorresti.
Il bisogno di visibilità deriva dal tratto narcisistico del nostro modello
di cultura: è dall’approvazione degli altri (lo specchio in cui Narciso
ricerca la propria immagine), che dipende la tua identità, della quale,
altrimenti, sei incerto, insicuro. Le società in veloce mutamento tolgono di
mezzo le strutture (la scuola, la famiglia, la religione) che
tradizionalmente “certificavano” l’identità di qualcuno, producendo così
insicurezza, e quindi anche un crescente bisogno, narcisistico, di conferma.
Nella “società della comunicazione”, dove la produzione e la diffusione di
informazioni è base perfino dell’economia, i diversi media sono, oltre che
il motore dell’economia e della politica, anche lo strumento che può
realizzare il sogno dei più: essere famosi, e possedere quindi un’identità,
nota e certificata dal sistema informativo. Il desiderio, dichiarato in ogni
sondaggio da ampie fette giovanili, di diventare veline, calciatori, o
comunque personaggi dello spettacolo deriva da questo fondamentale bisogno
di “essere qualcuno”. Che una volta poteva derivare dal 110 e lode, oggi
viene certificato dalla fama.
La costruzione e vendita di notorietà è diventata dunque, come prova anche
l’ultima inchiesta della Procura della Repubblica di Potenza, un servizio
estremamente richiesto, e molto ben pagato. Chi lavora bene con foto,
vendita di “memoriali”, e gossip, può rendere nota e popolare una persona
prima sconosciuta, che lo remunererà lautamente. Con qualche ragione: le ha
dato, infatti, un’identità. E’ una specie di secondo padre/madre sociale.
Il potere di questo servizio, la costruzione dell’immagine sociale,
prosegue, e si rovescia nel suo contrario: distruggerla. Come tutti i veri
poteri (compreso quello tradizionale dei genitori), anche quello delle
pubbliche relazioni si realizza lungo una gamma affettiva che va dalla
riconoscenza, alla paura. Come ti ho creato, posso distruggerti. Questa
alimentazione di paura è un tratto centrale della postmodernità,
riconosciuto da tutti i suoi grandi pensatori.
Una società dove tutto viene “costruito” e fabbricato, dalle identità ai
valori cui esse si riferiscono, è una società terrorizzata dal timore che
queste costruzioni si rivelino fragili, e vengano distrutte con altrettanta
rapidità. Ecco dunque gli stessi gruppi (in questo le inchieste in corso
sono davvero istruttive), specializzati nel costruire popolarità,
esercitarsi a distruggerle, le stesse, o quelle di altre persone. Il
meccanismo è molto simile. Anche qui occorre una visibilità, un potere di
qualche tipo (ma interno al sistema delle comunicazioni), che renda l’altro
interessante, e capace di suscitare l’attenzione degli altri. A quel punto
gli stessi elementi che in altri casi servono a costruire la fama (la vita
personale dell’individuo, il suo potere, il gossip sulle sue trasgressioni),
diventano invece elementi della distruzione che si abbatte sul malcapitato.
C’è una via d’uscita? Forse togliere il potere ai costruttori-distruttori di
celebrità, costruendo le proprie identità su competenze reali, e non sugli
spot della scena mediatica.