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MAGRIS CLAUDIO, DANUBIO
1990, p. 165-169
In questo Lager, non dei peggiori, sono morte più di centodiecimila persone.
L'immagine più terribile, forse più ancora della camera a gas, è la grande
piazza in cui i prigionieri venivano raccolti e inquadrati per l'appello. La
piazza è vuota, assolata e afosa. Niente più di questo vuoto rende l'irrappresentabilità
di ciò che si è svolto fra queste pietre. Come il volto della divinità per le
religioni che vietano di disegnarne l'immagine, lo sterminio e l'abiezione
assoluta non mi lasciano ritrarre, non si prestano all'arte e alla fantasia, a
differenza delle belle forme degli dèi greci. La letteratura e la poesia non
sono mai riuscite a rappresentare adeguatamente quest'orrore; anche le pagine
più alte sbiadiscono dinanzi al nudo documento di questa realtà, che sovrasta
ogni immaginazione. Nessuno scrittore, neanche grandissimo, può gareggiare a
tavolino con la testimonianza, con la trascrizione fedele e materiale dei fatti
accaduti fra le baracche e le camere a gas. Soltanto chi è stato a Mauthausen o
ad Auschwitz può i cercare di dire quell'orrore radicale; Thomas Mann o Brecht i
sono grandi scrittori, ma se avessero cercato di inventare una 1 storia di
Auschwitz le loro pagine sarebbero state edificante i letteratura d'appendice
rispetto a "Se questo è un uomo".
Forse le testimonianze più adeguate a quella realtà non le hanno scritte neppure
le vittime, bensì i carnefici, Eichmann o Rudolf Hóss, il comandante di
Auschwitz, — probabilmente perché, per dire cos'era veramente quell'inferno, lo
si i può soltanto citare alla lettera, senza commenti e senza umanità. Un uomo
che lo racconti con ira o con pietà lo abbellisce senza volerlo, trasmette alla
pagina una carica spirituale che attenua, nel lettore, lo shock di quella
mostruosità. Forse per questo è quasi imbarazzante incontrare per caso, a un
inoffensivo e amabile pranzo, un sopravvissuto dei Lager, scoprire sul braccio
del nostro gentile o antipatico vicino di tavola il numero di matricola del
campo; c'è sempre un divario paralizzante fra la sua inimmaginabile esperienza e
l'insufficienza dei gesti o delle parole con le quali egli vi accenna, facendola
apparire quasi una routine.
Il più grande libro sui Lager lo ha scritto, nelle settimane fra la condanna a
morte e l'impiccagione, Rudolf Hóss. La sua autobiografia, Comandante ad
Auschwitz, è il racconto oggettivo, imparziale e fedele di atrocità che
sconvolgono ogni metro umano, rendendo intollerabili la vita e la realtà, e che
dovrebbero sconvolgere e quindi impedire anche la loro rappresentazione, la
stessa possibilità di raccontarle. Nella pagina di Hóss lo sterminio sembra
narrato dal Dio di Spinoza, dalla natura indifferente al dolore, alla tragedia e
all'infamia; la penna registra imperturbabile ciò che accade, l'ignominia e la
viltà, gli episodi di bassezza e d'eroismo fra le vittime, le dimensioni immani
del massacro, la grottesca solidarietà automatica che si crea per un attimo,
sotto le bombe, fra carnefici e perseguitati.
Hóss non è il solito burocrate, pronto a seconda degli ordini a salvare o ad
assassinare con eguale efficienza; non è un torturatore come Mengele, non è
neppure Eichmann, che racconta e rielabora la propria vicenda perché interrogato
dagli israeliani, tentando di non pagare il fio dei suoi delitti. Hóss scrive
dopo la condanna a morte, senza che nessuno glielo chieda; la molla che lo
spinge a scrivere è oscura, non si lascia spiegare dal desiderio di nobilitare
la propria figura, perché l'autoritratto che ne risulta è certo quello di un
criminale e il libro sembra obbedire a un'imperiosa esigenza di verità, a un
bisogno di ribadire la propria vita, dopo averla vissuta, di protocollarla con
precisione, di passarla impersonalmente agli atti. Per questo il libro è un
monumento, la registrazione della barbarie, preziosa contro i reiterati e
abietti tentativi di negarla o almeno di smussarla, sfumarla. Il comandante di
Auschwitz, assassino di centinaia e centinaia di migliaia di innocenti, non è
più abnorme del professore Faurisson, che ha negato la realtà di Auschwitz.
Scendo la Scala della Morte, che conduceva alla cava di pietra di Mauthausen. Su
questi 186 alti gradini gli schiavi portavano macigni, cadevano per la fatica o
perché le SS li facevano inciampare e rotolare sotto i sassi, venivano abbattuti
a bastonate o a fucilate. I gradini sono blocchi ineguali e impervi, il sole
scotta; il massacro è ancora vicino, vengono in mente divinità arcaiche avide di
sacrifici umani, le piramidi di Teotihuacàn e idoli aztechi, anche se dèi più
moderni e civili non hanno impedito ai torturatori di torturare. Il libro di
Hòss è terribile — terribilmente istruttivo — perché la sua epica concatenazione
di fatti mostra come nella meccanica ruota delle cose si possa giungere, un
passo dopo l'altro, a diventare non solo vigili urbani o cuochi dell'esercito
del Terzo Reich, comparse dell'orrore, ma anche primattori e registi dello
sterminio, comandanti ad Auschwitz.
Gli scalini sono alti, sono stanco e sudato. Adorno ha detto che dopo i campi di
sterminio è impossibile scrivere poesia. Quella sentenza è falsa — e infatti è
stata smentita dalla poesia, per esempio da Saba, che sapeva cosa significasse
scrivere «dopo Maidanek», altro terribile Lager, ma che ha scritto «dopo
Maidanek»; è falsa anche perché non c'è stato soltanto il nazionalsocialismo, e
pure dopo i Conquistadores, la tratta dei negri, i gulag o Hiroshima la rima
fiore-amore era — è — altrettanto problematica.
La sentenza è tuttavia paradossalmente vera, perché il Lager è un esempio
estremo di annullamento dell'individuo — di quell'individualità senza la quale
non c'è poesia. Su questa scala di Mauthausen si sente, tisicamente, la
superfluità dell'individuo, il suo annichilimento, la sua sparizione; come se
egli fosse un dinosauro o un okapi, un animale estinto o in via di estinzione.
Non solo la svastica, ma la storia universale, i processi generali cospirano a
questo esautoramento. Il protocollo dell'interrogatorio di Eichmann è un
documento estremo di una parcellizzazione dell'esistenza, della persona e del
suo agire, che abolisce responsabilità e creatività. Eichmann non uccide,
provvede al convoglio e al trasporto di coloro che devono essere uccisi; la
responsabilità sembra non coinvolgere nessuno — perché ognuno, anche ad
altissimo grado, è solo anello di una catena di trasmissione di ordini — o
tutti, ad
esempio pure le organizzazioni ebraiche, che i nazisti costringono a collaborare
e a scegliere gli ebrei da deportare. Su questi scalini, il singolo si sente uno
dei grandi numeri macinati dallo Spirito del Mondo che evidentemente da segni di
squilibrio mentale, uno di quei numeri di matricola che l'ufficio competente del
Lager incideva sul braccio dei detenuti.
Ma su questi gradini l'individuo ha saputo anche rendersi unico e
incancellabile, più grande di Ettore sotto le mura di Troia. Quella giovane
donna che, sulla soglia della camera a gas di Auschwitz, si volta verso Hòss, e
gli dice, sprezzante — com'egli racconta — che non ha voluto farsi selezionare,
come avrebbe potuto, per seguire i bambini che le erano affidati, e poi entra
sicura con loro nella morte, è la prova dell'incredibile resistenza che
l'individuo può opporre a ciò che minaccia di annientare la sua dignità, il suo
significato. Nei vari Lager e anche su questa scala di Mauthausen sono avvenute
tante di queste gesta, di queste Termopili che fermano la marea dell'abiezione.
Mentre sono ancora sulla scala, ho davanti agli occhi una fotografia, fra le
tante viste poco prima nel Lager. È la fotografia di un uomo senza nome,
probabilmente, dall'aspetto, un balcanico, un europeo sudorientale. Il viso è
sfigurato dalle percosse, gli occhi sono due grumi gonfi e sanguinosi,
l'espressione è paziente, di umile e solida resistenza. Indossa una giacca
rattoppata, sui calzoni si vedono delle pezze ricucite con cura, con amore del
decoro e della pulizia. Quel rispetto di sé e della propria dignità, conservato
nel cuore dell'inferno e rivolto anche ai propri pantaloni sbrindellati, fa
apparire le uniformi delle SS, o delle autorità naziste in visita al Lager, in
tutta la loro miserabile straccioneria da carnevale, costumi presi a nolo al
monte dei pegni, con la convinzione che un bagno di sangue li potesse far durare
per un millennio. Sono durati dodici anni, meno della mia vecchia giacca a vento
che porto di solito in gita.