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ROMA - Sono dieci anni
che gli italiani la aspettano e la aspetteranno per altri due. La riforma del
Tfr, varata ieri dal governo Berlusconi, è essenziale per far decollare la
previdenza integrativa, ma il suo avvio sarà possibile solo nel 2008. Un rinvio
che ha fatto infuriare sindacati e opposizione perché - dicono loro - a pagare
il prezzo dei 48 mesi di ritardo saranno soprattutto le famiglie e i lavoratori.
Di fatto se la riforma fosse stata applicata fin dal prossimo gennaio le future
pensioni di chi oggi ha 40 o 50 anni ne avrebbero guadagnato qualcosa:
precisamente quei due anni di contributi che, così stando le cose, continueranno
- per il momento - a restare a disposizione della loro azienda. In termini
concreti, basandosi su proiezioni preparate dai tecnici dei principali istituti
di previdenza, per redditi medio-medio bassi (24.500 euro lordi annui) ciò sì
tradurrà in una perdita secca di circa 350 euro di pensione all´anno.
Ma detto questo va anche precisato che - pur se fra rinvii e polemiche non
ancora sopite - la riforma del Tfr va a colmare un "vuoto" previdenziale nato
ben dieci anni fa, quando con la riforma Dini del ´95 si passò dal sistema
retributivo a quello contributivo.
Il passaggio fu inevitabile visto che i costi del vecchio metodo di calcolo
(basato sulla media degli ultimi stipendi) era insostenibile. Ma la novità
introdotta necessitava di una "correzione" che andasse a rimpolpare le pensioni
che la previdenza tradizionale avrebbe a quel punto falcidiato. Serviva appunto
una previdenza alternativa, tanto più in previsione della ulteriore stretta
sulle pensioni introdotta dal governo Berlusconi che entrerà in vigore proprio
dal 2008 (innalzamento graduale della età anagrafica necessaria per aver diritto
all´assegno).
Ora il piano c´è e in media farà sì che le future pensioni - per chi nei
prossimi anni avrà diritto a percepirla - possano dare circa il 70 per cento
dello stipendio. Ma il fatto che le novità introdotte entrino in vigore fra due
anni fa sì che la "correzione" sia un po´ più debole di quanto previsto (il 72
).
Prendiamo per esempio il caso di un dipendente destinato ad andare in pensione
nel 2020 a 62 anni e 38 di contributi: senza la riforma del Tfr il suo assegno
sarebbe ammontato al 63,8 per cento dello stipendio. Con la riforma applicata
fin dal 2006 la quota si sarebbe alzata fino al 71 per cento. Visti i due anni
di ritardo e i rispettivi contributi non versati nel fondo, il dipendente dovrà
accontentarsi del 69,5. Questo nel caso in cui scelga un fondo «chiuso» perché
se il dipendente dovesse decidere di affidarsi ad uno «aperto» o a una polizza,
la quota percepita si abbasserebbe al 68 per cento. In questo caso infatti, il
provvedimento precisa che non entrano a far parte della quota i contributi
versati dal datore di lavoro (decisione sulla quale le assicurazioni hanno
aperto una feroce polemica).
Nel caso in cui il lavoratore sia un neo-assunto il recupero garantito dalla
riforma è ancora maggiore: più o meno dal 54, 8 al 70,3 per cento (71,9 se
applicata nel 2006 e sempre nel caso di un fondo chiuso). E il gap si colma
ulteriormente pensando a «coloro che verranno», ai giovani che saranno assunti
negli anni a venire: un dipendente messo a contratto nel 2012, senza interventi
sul trattamento di fine lavoro, sarebbe andato in pensione nel 2050 con un
reddito pari al 53 per cento. Destinando le sue quote ad un fondo chiuso
riuscirà invece a recuperare anche lui un assegno pari al 71,9.
Ora va anche detto che - grazie al rinvio di due anni nell´applicazione della
riforma - Palazzo Chigi «risparmierà» circa 700 milioni sul Fondo di garanzia
istituito per compensare le aziende «orfane» della vecchia liquidazione. Il
governo assicura di voler dare alla cifra così «liberata» una destinazione
sociale, ma in realtà, all´interno della maggioranza ci sono diverse opinioni
sul che fare.