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Le
donne tra responsabilità lavorative e familiari |
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L’Italia è uno dei paesi europei
con la più bassa occupazione femminile,
nonostante la crescita degli ultimi anni. I dati disponibili segnalano
infatti che nel periodo 1993-2001 il tasso di attività femminile è
cresciuto più di 5 punti percentuali, passando dal 41,9 al 47,3%
(mentre quella maschile risulta pressoché stabile, con qualche segnale
di diminuzione, dal 73,8% al 73,6%), restando, tuttavia, ampiamente al
di sotto della media europea e anche dell’obiettivo del 60% che tutti
i paesi membri dovrebbero raggiungere nel 2006. Lavoro e famiglia: un affare
privato Ciò è dovuto in larga misura alla bassissima
partecipazione al mercato del lavoro delle donne adulte in età matura
(ultracinquantenni), a causa non tanto dei pensionamenti precoci,
quanto della loro appartenenza a coorti per le quali il modello di
casalinga a pieno tempo e di dedizione univoca alle responsabilità
familiari ha fortemente segnato le strategie di vita adulta. Così nota
giustamente Reyneri (1), che è però troppo ottimista quando sostiene
che la differenza di partecipazione tra uomini e donne sia destinata ad
esaurirsi semplicemente con l’entrata nell’età adulta delle coorti
di donne più giovani e mediamente più istruite, con una propensione al
lavoro molto diversa dalle loro madri e nonne, e più simile a quella
dei loro coetanei. Anche tra le coorti più giovani, infatti, molte
donne continuano ad abbandonare il lavoro alla nascita del primo figlio
e talvolta anche solo dopo il matrimonio. Più che in altri paesi la
conciliazione tra responsabilità familiari e partecipazione al mercato
del lavoro continua ad essere considerata non solo un "affare di
donne", ma un "affare privato". I dati più recenti sulle Forze di
Lavoro (2) segnalano che la
quota di donne che abbandona temporaneamente o provvisoriamente il
lavoro per motivi familiari è costante da una coorte all’altra e se
tra le coorti più giovani diminuisce la motivazione del matrimonio,
rimane invece forte quella di avere figli. Ad esempio, nella coorte che
ha attualmente 30-39 anni, tra le nubili il tasso di attività è di
poco inferiore a quello dei loro coetanei: 89,7% ma diminuisce di quasi
11 punti tra le coniugate senza figli e di altri 23 punti tra le
coniugate con figli, il cui tasso di attività si abbassa al 56%. Con
tassi di attività inferiori, le donne coniugate con figli hanno
viceversa tassi di disoccupazione più alti non solo degli uomini, ma
delle stesse donne senza figli. Anche la forte femminilizzazione
dell’aumento della occupazione part-time negli ultimi anni, non è
priva di problemi. Indica infatti che da parte non solo dei policy
makers, ma anche dei datori di lavoro e dei lavoratori, la conciliazione
continua a essere un problema che riguarda esclusivamente le donne.
Benché il part-time non sia in linea di principio riservato alle donne,
lo è in pratica e tutto l’aumento riscontrato in questi cinque anni
è dovuto a loro. Non può quindi sorprendere che il genere (l’essere
donne) e lo status familiare (l’essere sposata, l’essere madre)
riducano le chances occupazionali future delle lavoratrici
part-time rispetto a lavoratori e lavoratrici a tempo pieno. Non è il
part-time di per sé che riduce queste chances, ma le specifiche
ragioni per cui lo si fa: conciliare responsabilità lavorative e
familiari. L’effetto negativo della presenza di
responsabilità familiari è più alto per le donne a bassa
qualificazione e che vivono nel Mezzogiorno rispetto a quelle con
titolo di studio medio-alto e che vivono nel Centro-Nord.
L’istruzione per le donne appare ancora più importante che per gli
uomini a fini occupazionali e come fattore di differenziazione sociale:
incide infatti non solo sul tipo di lavoro cui si può aspirare ma anche
sulla possibilità stessa di rimanere nel mercato del lavoro, a parità
di ogni altra condizione. Le donne del Centro-Nord con istruzione e
qualifiche più alte sono maggiormente in grado di rimanere nel mercato
del lavoro lungo il ciclo di vita familiare; anche se
"pagano" questa maggiore capacità di durata con differenziali
salariali rispetto agli uomini di pari livello e più ampi di quelli
che si riscontrano nelle qualifiche più basse. Conciliare responsabilità familiari e
lavorative per le donne è reso difficile non solo da orari di lavoro
poco amichevoli e dalla mancanza di servizi adeguati, ma anche, se non
soprattutto, dalle aspettative e dai comportamenti dei familiari,
innanzitutto dei mariti/padri dei loro figli. Tutte le ricerche
sull’uso del tempo segnalano che se si sommano le ore dedicate al
lavoro familiare a quelle dedicate al lavoro remunerato, le donne
occupate e con responsabilità familiari lavorano dalle 9 alle 15 ore
alla settimana in più rispetto ai loro compagni. E ciò è rimasto
costante negli ultimi 10 anni. Il maggior carico di lavoro familiare per
le donne riduce il tempo che esse possono dedicare al lavoro remunerato
e la gamma di occupazioni che possono prendere in considerazione, in
termini di distanza, orari di lavoro, ecc. Inoltre le espone al rischio
di essere viste dai datori di lavoro come lavoratrici inaffidabili e/o
più costose. Libertà per le donne e nuovi
modelli Modificare questa situazione,
aumentando i gradi di libertà per le donne e favorendo modelli di
genere, maschile e femminile, meno rigidi, richiede interventi a più
livelli: nelle forme di regolazione del mercato del lavoro, nella
offerta di servizi, nei modelli culturali e di socializzazione.
In questa prospettiva si può accogliere positivamente l’incentivo
dato alle aziende nella Finanziaria per il 2003 perché
organizzino nidi o micro-nidi aziendali. Tuttavia non va
trascurato il fatto che le giovani generazioni, quelle che in linea di
principio sono nell’età di essere genitori di bambini piccoli, sono
presenti in modo sproporzionato nei contratti di lavoro atipico, e che
le donne tendono a rimanervi più a lungo degli uomini. Perciò è
l’offerta pubblica o di mercato sociale che va innanzitutto sostenuta. Analogamente mentre va apprezzato il
carattere innovativo della legge 53/2000 (sui congedi genitoriali)
- specie là dove incentiva sia una flessibilità amichevole nei
confronti dei lavoratori e lavoratrici con responsabilità familiari,
sia una più equilibrata ripartizione delle responsabilità di cura tra
padri e madri - non ci si può nascondere che il provvedimento riguarda solo
il lavoro dipendente escludendo i vari tipi di contratto di lavoro
non standard che vedono peraltro una forte presenza di giovani uomini e
donne in età riproduttiva. Questi rapporti di lavoro o non includono
alcuna misura di protezione della maternità e di sostegno alla
conciliazione (è il caso, ad esempio, di chi ha partita IVA) o li hanno
in misura ridotta e in un contesto in cui è difficile utilizzarli. Una
giovane lavoratrice coordinata e continuativa, ad esempio, difficilmente
potrà permettersi di prendere anche solo il periodo di congedo
obbligatorio (e infatti non è obbligata), perché l’assegno di
maternità è troppo basso. Ancor meno questa giovane potrà
permettersi di stare fuori dal mercato del lavoro per un periodo più
lungo, non solo per motivi economici ma anche per salvaguardare la
propria collocazione professionale. Nelle discussioni sulla flessibilità
nel mercato del lavoro, gli effetti sulle questioni della conciliazione
tra responsabilità lavorative e familiari e la vulnerabilità
aggiuntiva che ne deriva, in particolare per le donne, meriterebbero di
essere meglio messi a fuoco da tutte le parti in causa. (1) Cfr. anche E. Reyneri, Pensioni,
fasce di età, genere e livello di istruzione, in lavoce.info,
9.1.2003 (2) Cfr. ISTAT,
Rapporto annuale 2001, Istat, Roma, 2002 |
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