PER vederci un po´ più chiaro nella discussione esplosa sul caro prezzi,
a partire da quello dei prodotti alimentari, bisognerebbe cercare di
evitare tre sbagli. Un primo sbaglio consiste nel mettersi in caccia di
quale sia la misura «vera» degli aumenti, tra il 3,2 per cento calcolato
dall´Istat, il 29 per cento denunciato dall´Eurispes in base a proprie
rilevazioni, o il 13 per cento che lo stesso istituto dice di aver
calcolato utilizzando la medesima metodologia dell´Istat. Il secondo
sbaglio sta nel pensare che esistano da qualche parte due diverse entità,
una che si chiama inflazione effettiva, e un´altra che prende invece nome
di inflazione percepita. Un terzo sbaglio da evitare consiste infine nel
credere ch,e a forza di modificare, modernizzare, ampliare il paniere, sia
possibile registrare più fedelmente l´andamento dei prezzi al consumo.
Il
paniere imperfetto e la gabbia dei bilanci familiari
Oggi si chiedono nuovi parametri di calcolo: in base al reddito, ai
consumatori e al territorio Tradurre tutto ciò in metodologie non è
semplice, ma la strada è giusta
Il sistema ottimale per capire la reale incidenza dei prezzi è studiare
un´ampia tipologia di famiglie: gli acquisti quotidiani mostrano come le
spese migliorino oppure peggiorino
Quel
che hanno in comune i tre tipi di sbaglio - che è poi la principale
ragione per sforzarsi di non caderci - risiede nell´assumere che ciò che
conta per le famiglie sia unicamente l´andamento medio dei prezzi, sia
pure differenziati per regione e per città grandi e piccole. Mentre ciò
che ancor più conta per una famiglia è la cifra che essa deve
effettivamente sborsare per procurarsi la specifica tipologia di beni e
servizi che essa desidera, in relazione al reddito ad essa disponibile.
Tale tipologia varia grandemente in funzione sia del reddito, della
condizione professionale, della composizione della famiglia, sia delle sue
particolari abitudini di consumo.
Per intanto nella discussione sul caro prezzi dei prodotti alimentari
maggiore spazio dovrebbe essere dato alla vetusta, quanto attualissima,
legge di Engel. La quale dice che maggiore è il reddito disponibile d´una
famiglia, minore è la percentuale delle spese alimentari sul totale delle
sue spese; il che implica ovviamente che, minore il reddito, maggiore sia
l´incidenza su questo delle spese alimentari. La legge di Engel fa sì
che l´aumento del medesimo prodotto di un x per cento venga quasi
inavvertito da una famiglia che destina ai prodotti alimentari solo il 15
per cento del suo reddito, mentre risulta drammatico per la famiglia che,
avendo a disposizione un reddito molto più basso, spende già in
alimentari la metà di quello che introita. Questo processo ha poco a che
fare con una sedicente «percezione» oscillante dei prezzi, e molto di più
con i ferrei meccanismi dei bilanci familiari.
I quali possono anche risultare oggettivamente disastrati, oppure no, in
rapporto alle abitudini o alle necessità di consumo. Per una famiglia di
vegetariani, ad esempio, gli aumenti dei prodotti ortofrutticoli
intervenuti negli ultimi mesi possono comportare un maggior esborso al
limite del sopportabile, mentre la famiglia accanto che preferisce una
dieta differente troverà l´aumento di quegli stessi prodotti
obiettivamente poco significante.
La strada per meglio capire come l´andamento dell´economia e dei prezzi
incida realmente sul livello di vita delle famiglie è pertanto quello
dello studio dei bilanci familiari di un´ampia tipologia di famiglie.
È dal bilancio di una famiglia, redatto giorno per giorno per parecchie
settimane, che è possibile stabilire in qual misura, e con quali modalità
di adattamento, migliorano o peggiorano le spese che essa realmente
effettua. Le indagini sui bilanci familiari non escludono certo la
rilevazione dei prezzi al consumo. Questa è necessaria sia perché su di
essa si basa in ultimo la stima del Pil, sia perché le variazioni interne
osservate nei bilanci familiari possono essere meglio spiegate quando
siano confrontate con rilevazioni di fonte esterna. E al proposito si può
affermare che è difficile che qualsiasi altro ente possa al momento far
meglio dell´Istat, non foss´altro perché solamente le dimensioni ed il
mestiere del suo apparato permettono di fare 300.000 rilevazioni al mese
in 25.000 punti di vendita differenti. Ciò che l´Istat non dovrebbe
fare, né con esso alcun ministro od organizzazione o singolo
commentatore, è lasciare intendere, o addirittura affermare
esplicitamente, che dall´andamento dei prezzi è possibile stimare
obiettivamente il maggior esborso che differenti tipi di famiglie debbono
sopportare. E non pretendere di sottrarsi alle critiche da parte di altri
istituti di ricerca.
Come si è già notato tempo fa su queste colonne, lo stesso Istat procede
annualmente a una indagine sui bilanci familiari che fornisce un quadro
molto più credibile di ciò che davvero le famiglie consumano e spendono
che non le inferenze ricavate, tramite il famoso paniere, dalle
rilevazioni dei prezzi.
Per altro tutte le parti finora intervenute nella discussione sul
caro-prezzi sembrano ignorare l´esistenza di tale indagine. Né l´Istat
ha mostrato di volerne fare buon uso per migliorare le sue stime dell´inflazione
a livello di famiglie. Ora la nuova coalizione dei consumatori ha
sollecitato l´Istat a definire panieri diversi con almeno tre tipologie,
differenziandoli cioè per famiglie, per reddito e per aree geografiche.
Tali richieste comporterebbero un grande impegno per essere tradotte in
metodologie appropriate, ferme restando le riserve sopra espresse sulla
possibilità di individuare il paniere buono in luogo di quello cattivo.
Tuttavia esse vanno nella giusta direzione, quella di osservare, accanto
all´andamento dei prezzi, l´andamento delle spese reali delle famiglie,
distinte per composizione, strati di reddito, abitudini di consumo simili,
piuttosto che pretendere di desumere le seconde dal primo.
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