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da Repubblica - 14 giugno 2005
Procreazione, quorum fallito
Al voto solo un italiano su quattro. È scontro nei due poli
il voto
Prove di dialogo su eventuali e parziali modifiche parlamentari alla legge 40
La percentuale definitiva è stata del 25,9 per cento, alle urne 12 milioni di
cittadini
Esulta il fronte astensionista. Pannella: "Ma ora temo si prepari l´affondo
sull´aborto"
GIANLUCA LUZI
ROMA
- Alla fine, a urne chiuse, il risultato è una pesantissima batosta per il
fronte referendario: ha votato solo un elettore su quattro, per l´esattezza il
25,9 per cento. Naturalmente sui quasi dodici milioni di cittadini che si sono
recati alle urne - nonostante i pesanti e pressanti appelli della Chiesa,
nonostante le dichiarazioni dei presidenti di Camera e Senato in favore
dell´astensionismo e l´indicazione antireferendaria dei partiti del
centrodestra, ma anche di personalità politiche del centrosinistra come Rutelli
- la quasi totalità ha votato per il Sì. Ma è un sì che non ha nessun valore per
abolire le norme contestate perché il quorum non è stato nemmeno lontanamente
sfiorato. A titolo puramente statistico c´è da notare che il quesito che voleva
abolire le norme sui limiti di accesso alla fecondazione medicalmente assistita
è stato quello più votato con l´89,9 per cento e oltre dieci milioni e mezzo di
Sì. Mentre il tentativo di abolire il divieto di fecondazione eterologa è stato
quello ha ottenuto meno voti favorevoli con il 78,2 per cento di Sì e il 21,8 di
No. Poco più di nove milioni contro due milioni e mezzo. Negli altri due quesiti
la percentuale dei Sì è stata dell´88,8 per cento e dell´89,2.
Berlusconi non ha votato e si è limitato a un breve commento per dire di non
buttarla troppo in politica. Anche perché la sconfitta nei referendum potrebbe
costare carissima a Fini con conseguenze destabilizzanti per l´intera
maggioranza di centrodestra. Quindi il presidente del Consiglio ha scelto un
profilo basso. «Non sono intervenuto nel dibattito e nel voto per il referendum.
- ha detto infatti il premier - Ho taciuto per non dividere il paese su un
problema di coscienza e non voglio fare commenti neppure ora, dopo che gli
elettori hanno dimostrato anche stavolta di saper giudicare in maniera
indipendente. L´Italia ha bisogno di unità ed è inutile far finire sempre tutto
in politica». Soddisfatto, ma senza squilli di tromba anche il leader dell´Udc
Follini che non aveva risparmiato critiche a Fini per aver scelto di andare a
votare. «Un risultato positivo, di buon senso, moderato. Non era e non è uno
scontro tra civiltà». E a chi gli ha chiesto se la sconfitta di Fini può aprire
problemi nella Cdl, Follini ha risposto che «oggi non è il giorno dei coltelli.
E´ il giorno, per chi ha sempre sostenuto le sue posizioni, di grande
soddisfazione. Si sono espressi tanti cittadini, oggi è il giorno da dedicare al
loro ascolto».
Nel centrosinistra vince senz´altro Rutelli che vede premiata la sua scelta
astensionista. Ma Fassino, che si è speso in campagna elettorale per i quattro
Sì, difende la sua scelta anche se Veltroni si interroga «se sia opportuno
sottoporre agli italiani quesiti su materie così delicate legate ad aspetti
etici e a risposte inevitabilmente complesse». Rutelli è soddisfatto: «Una
grande prova di buon senso degli italiani. Provo un rispetto sincero per chi ha
votato Sì, ma si conferma l´errore di avere organizzato referendum che
radicalizzano». Da domani sarà «possibile lavorare insieme per quei
miglioramenti alla legge che si possono fare, ma senza stravolgerla perché il
giudizio degli italiani è chiaro».
La sconfitta non ha sorpreso Pannella: «Non sono deluso, non mi ero illuso.
Ritenevo che il 40 per cento fosse già un obiettivo molto difficile», ha detto
il leader radicale. «Nei partiti, - osserva Pannella - tranne forse che in An e
in parte nei Ds, non è stato portato avanti alcun dibattito sul tema». Ma la
preoccupazione è che adesso si prepari l´affondo sulla legge che regola
l´interruzione di gravidanza. Stefania Prestigiacomo ne è sicura: «Non credo che
domani qualcuno farà l´autogol di chiedere modifiche alla legge sull´aborto, ma,
nel breve periodo, questo succederà sicuramente». Anche se il ministro
Giovanardi lo esclude: «Né la maggioranza né il governo intendono rivedere la
legge 194. L´argomento, usato dai referendari in campagna elettorale rimane
pretestuoso». Ma Emma Bonino non ne è affatto convinta: «Qualcuno prima o poi si
rivolgerà alla Corte Costituzionale per fare ricorso. La legge sull´aborto è in
pericolo per il clima che si è creato. Il problema è un´atmosfera preoccupante
di mancanza di laicità».
Sensazioni e umori opposti nei due comitati per il Sì e per l´astensione. «Penso
che nessuno debba gridare vittoria. - dice il senatore diessino Turci -
D´altronde sarebbe scorretto accreditarsi una vittoria elettorale grazie
all´astensione della maggioranza dei cittadini». Brindisi e urla di gioia,
invece, nel comitato "Scienza e vita" alla notizia del mancato quorum: «Ha vinto
l´astensionismo attivo e consapevole. - afferma il genetista Dallapiccola - Il
popolo italiano ha dimostrato di aver capito e, per quanto ci riguarda,
continueremo a lavorare proprio nell´interesse delle coppie con problemi di
sterilità». La legge 40 deve essere lasciata «per poterla giudicare sulla base
dei risultati: solo allora si potrà valutare quali modifiche eventualmente
apportare».
Lo evidenziano già i dati sull’afflusso alle urne. E lo confermano i risultati
del sondaggio. Gli astenuti sono presenti «trasversalmente» in tutte le
categorie socio-anagrafiche. Vi sono, com’era ragionevole aspettarsi, differenze
in relazione all’orientamento politico. Ma, ha finito con l’astenersi anche la
maggioranza assoluta degli elettori diessini. E, naturalmente, quella di chi
dichiara di non sapere cosa votare alle prossime elezioni. Ovviamente, la quota
di astenuti è massima (80%) nel sottogruppo che dichiara di recarsi a Messa una
o più volte alla settimana. Ma essa supera il 60% anche tra chi afferma di non
frequentare mai le funzioni religiose. Insomma, al di là dei suoi risvolti
politici e ideologici, la consultazione di domenica e lunedì ha confermato il
rilievo dei due fenomeni che più sembrano contraddistinguere oggi lo scenario
politico ed elettorale. 1) La frattura territoriale. Le regioni del nord si sono
recate alle urne in misura grossomodo doppia di quanto è accaduto al sud. Il
motivo sta, ovviamente, in un modo diverso di concepire le scelte politiche.
L’esistenza di «culture civiche» differenti è stata evidente sin dai tempi del
primo referendum istituzionale, nel 1946. Ma, come ha sottolineato Ilvo
Diamanti, la differenziazione territoriale delle modalità di voto si è andata in
qualche modo accentuando in quest’ultimo periodo.
2) Il progressivo disinteresse, la «smobilitazione» di una parte di elettorato.
Come si sa, i partiti tradizionali funzionavano da «facilitatori» delle scelte
elettorali e degli orientamenti politici. Chi non poteva o voleva informarsi in
dettaglio sulle varie questioni, faceva, più o meno consapevolmente, riferimento
alle posizioni del partito cui si sentiva più vicino. Con la scomparsa delle
ideologie tradizionali, questa funzione è venuta meno. Alcuni, pochi, si sono in
qualche modo «arrangiati» documentandosi da soli sulle varie tematiche. Altri,
la maggioranza, hanno ritenuto preferibile allontanarsi e disinteressarsi del
dibattito politico. Rinunciando spesso a votare. Specie nei referendum. Poiché
in questi ultimi si è spesso chiamati a pronunciarsi su argomenti ritenuti, a
torto o a ragione, troppo complessi o settoriali.
Dunque, buona parte dell’astensione rilevata in questo referendum è motivata non
tanto da una scelta politica o religiosa, quanto dal rifiuto o dalla difficoltà
di approfondire troppo la questione. E dalla correlata convinzione che, come ci
ha detto, spazientito, un intervistato «i parlamentari sono pagati apposta per
fare le leggi. Che l’aggiustassero loro una cosa così complicata».
Tra i nostri intervistati, il 35% ha dichiarato, già la mattina della domenica,
che non si sarebbe recato a votare. Tra i restanti, una parte (grossomodo il
20%) era deciso viceversa a recarsi alle urne. Gli altri si definivano invece
indecisi. La gran parte di costoro, come si sa, non è poi andata a votare. Li
abbiamo denominati astensionisti «aggiuntivi», poiché non avevano deciso (o non
avevano voluto dichiarare) il loro comportamento già all’inizio della
consultazione. Si tratta di elettori diversi dagli astenuti «convinti». Lo si
vede dalle motivazioni al non voto, ove prevale per costoro l’argomento: «Sono
talmente indeciso da preferire forse non votare». Questo astensionismo
«aggiuntivo» pare insomma suggerito più da disinteresse o difficoltà di
comprensione, che da scelta «politica» vera e propria. Per questo
l’astensionismo «aggiuntivo» è assai più diffuso nelle categorie poco o per
nulla coinvolte dalla campagna per l’astensione. Come coloro che si recano poco
o mai alla Messa, oppure votano per i partiti del centrosinistra. Tra questi
ultimi gli astensionisti aggiuntivi costituiscono addirittura la maggioranza.
Insomma, l’apporto politico all’astensione da parte della Chiesa e dei partiti
che l’hanno auspicata è stato solo una componente del risultato, valutabile in
meno della metà delle astensioni (36% dell’elettorato). Il resto, in modo
relativamente «trasversale» alle varie forze politiche, è costituito da coloro
che hanno trovato troppo difficili - e troppo impegnativi - i quesiti e che, in
generale, si interessano poco alla politica. Si tratta del segmento composto
dagli elettori cosiddetti «lontani», di cui si è discusso ancora di recente nel
dibattito sull’esistenza di un centro «consapevole».
In definitiva il connotato caratterizzante questo voto non è prevalentemente
quello politico, ma quello del disinteresse e della disinformazione, che,
peraltro, avevano caratterizzato anche diversi referendum del passato. Un quadro
assolutamente differente dal 1974. Anche a quel tempo la Chiesa si mobilitò
contro il divorzio. Ma la questione era assai più semplice da comprendere e
specialmente, funzionava il facilitatore costituito dalle forze politiche.
Quale Italia dopo
ilvoto
MIRIAM MAFAI
Solo due mesi fa, alle ultime regionali, il centrosinistra conquistava tutte le
più importanti regioni italiane, dal Piemonte alla Toscana, dalle Marche alla
Puglia, dalla Campania all´Umbria, un successo che anticipava, sembrava
garantire, una analoga vittoria alle politiche del 2006. Il risultato
referendario di domenica scorsa, la vittoria del machiavellico espediente delle
astensioni, ha provocato nelle file di Forza Italia una opposta esultanza e
un´altrettanto sicura previsione: «Noi, moderati, ormai siamo la maggioranza»,
esulta un Berlusconi che, generosamente, invita anche la Margherita di Rutelli a
trovar posto nel futuro partito unico del centrodestra.
Quale Italia dopo il voto
Un
invito che Rutelli, naturalmente non ha nessuna intenzione di accettare, ma,
intanto l´invito serve a screditare l´avversario e a insospettirne gli alleati.
Più giustificata la soddisfazione del cardinal Ruini, che, avendo messo a punto
per tempo la strategia dell´astensione, può essere considerato a pieno diritto
il vero vincitore della battaglia referendaria, una vittoria con la quale è
stata riscattata la sconfitta che la Chiesa subì nel 1974, con il referendum sul
divorzio e nel 1981 con quello sull´aborto. Una vittoria, senza dubbio.
Che tuttavia non è detto anticipi la vittoria della Casa delle Libertà (o
comunque si chiami il nuovo partito del premier) alle elezioni politiche del
prossimo anno. – Questi giudizi, quelli del centrosinistra subito dopo le
elezioni regionali e quelli del centrodestra – subito dopo l´esito referendario,
per lo meno frettolosi. E inattendibili le loro previsioni sulle elezioni
future. Tutti dovremmo fare attenzione agli abbagli, ai desideri che non sempre
si tramutano in realtà.
Ma davvero questa vittoria segna, come esulta il cardinal Ruini, la fine del
processo di secolarizzazione nel nostro Paese, il ritorno dunque ad una
cattolicità autenticamente vissuta? Ne dubita persino Giulio Andreotti, vecchio
frequentatore di parrocchie che giustamente osserva : «Vedo che a Roma domenica
si è astenuto il 63% degli elettori. Purtroppo in Chiesa ne trovo molti meno».
Il Paese che emerge dai dati di domenica è certamente un Paese diviso in due.
Ma, a ben vedere, la frattura non passa tra laici e cattolici, ma piuttosto tra
il voto del Nord e quello del Sud, e, dovunque, tra il voto delle città e quello
dell´entroterra. Anche a Roma, dove pure l´affluenza, sfiorando il 38%, è stata
nettamente superiore alla media nazionale, si è manifestata questa che potremmo
definire una nuova, imprevista frattura sociale. Più alto si è manifestato
l´interesse al problema e la partecipazione al voto nei quartieri del centro
storico, dove migliore è il livello sociale e di istruzione, mentre notevolmente
più bassa è stata la partecipazione al dibattito e al voto nei quartieri
periferici. Qui infatti sono diverse le legittime priorità e preoccupazioni:
l´insicurezza, la disoccupazione, il disagio economico e sociale. Per dirla con
Giorgio Tonini, uno dei parlamentari dei ds più attento alla questione dei
rapporti laici/cattolici «abbiamo peccato di elitarismo, sottostimando la crisi
di comunicazione tra le classi dirigenti informate e gli strati popolari più
ampi, che è una delle patologie più gravi della democrazia contemporanea».
Facendo perno su questo disagio e su questa frattura, forte dell´alleanza e del
sostegno della Chiesa Cattolica, e della sua campagna contro i valori della
laicità (contrabbandata per «relativismo etico» e permissivismo libertario)
Berlusconi può tentare una operazione simile a quella che in USA ha portato al
successo i «neo-con» e alla Casa Bianca, per la seconda volta, George W. Bush. E
tuttavia a me sembra che una operazione di questo tipo possa difficilmente avere
successo nel nostro Paese. Non riesco, ad esempio, a immaginare un nostro
Consiglio dei Ministri, pieno di divorziati (tra cui lo stesso Berlusconi), e di
laici liberali (tra cui, tanto per fare un nome il ministro Martino) aprire le
sue riunioni con la preghiera mattutina, come avviene alla Casa Bianca. Ma
l´operazione può essere tentata dalla nostra destra, con un forte richiamo ai
valori cattolici, e ad una ostentata obbedienza alle richieste delle gararchie
vaticane su temi eticamente sensibili . Non solo il sostegno alle scuole
cattoliche, ma la difesa della unità della famiglia, e dei valori della vita fin
dal suo inizio, la revisione (sia pure prudente) della legge sull´aborto. Temi,
i primi due, che in questi mesi sono stati al centro della campagna referendaria
e che hanno determinato il successo della linea «astensionistica» promossa dal
cardinal Ruini e dalla CEI.
E tuttavia, come dicevo all´inizio, l´esito di questa battaglia culturale e
politica è quanto mai incerto. A condizione che il centrosinistra, tutto il
centrosinistra, sia in grado di ridefinire la propria identità non solo sul
piano immediatamente politico ma anche sul piano culturale, riproponendo con
forza il tema della laicità e dunque della distinzione tra etica e diritto, tra
peccato e reato come l´unico terreno della possibile convivenza della nostra
comunità. Ma insieme ridefinendo le proprie posizioni su tutti quei temi di
carattere bioetico che inevitabilmente saranno materia di dibattito politico e
ideale nei prossimi anni. L´esito referendario di domenica non registra,
nonostante l´esultanza del cardinal Ruini, la fine della secolarizzazione del
nostro Paese. E´ un voto che testimonia, forse, un turbamento delle nostre
coscienze di fronte alle nuove possibilità e orizzonti della scienza, e che
richiede, quindi, una ridefinizione ed un approfondimento del principio
irrinunciabile della laicità.
Dopo il voto: l’uomo, la natura, la scienza L’ONNIPOTENZA
CHE CI FA PAURA
di CLAUDIO MAGRIS
dal Corriere - 15 giugno 2005
Al
referendum sulla legge 40 non si è votato soltanto per abrogare o mantenere
alcuni suoi precisi articoli. Si è votato anche - specialmente causa una
campagna pro o antireferendaria che ha spesso scorrettamente radicalizzato in
termini ideologici la scelta fra i sì e i no - contro o per le trasformazioni
della vita e dell’uomo stesso che la scienza e la tecnologia promettono e
permettono in una misura esaltante e inquietante, sino a ieri imprevedibile. E
in questo senso le polemiche sui quesiti dei referendum hanno ben poco in comune
con quelle sull’aborto, che pure sono state spesso evocate e sono direttamente o
indirettamente implicate in alcuni di quei quesiti. Le discussioni sull’aborto
riguardano la liceità o illiceità della soppressione di un individuo nella
primissima fase della sua esistenza e secondo alcuni, prima ancora, il momento,
il giorno o la settimana in cui un individuo possa e debba venire riconosciuto
come tale e dunque tutelato. L’aborto non pone il problema della manipolazione
dell’individuo; di per sé nemmeno il referendum ha posto tale problema, ma il
pathos con cui esso è stato vissuto deriva non solo e non tanto dalle ragionate
posizioni divergenti su un articolo o un altro della legge 40, bensì
dall’oscura, irrazionale ma non infondata sensazione che l’umanità stia vivendo,
in tempi incredibilmente e vertiginosamente veloci, una trasformazione radicale,
avvertita - con angoscia o con ebbrezza - quasi come una mutazione. Massimo
Salvadori - alieno da ogni seduzione millenarista o apocalittica e allergico a
ogni nostalgia tradizionalista e religiosizzante - ha parlato delle
«inquietudini dell’uomo onnipotente», come dice il titolo di un suo libro, e ne
ha indicato la radice: «Il sospetto che una potenza che non è mai stata così
grande generi non una maggiore sicurezza del vivere, ma al contrario una
maggiore insicurezza e un ingovernabile disordine». Il dominio sulla Terra,
assegnato all’uomo dalla Bibbia, si è realizzato, in ogni settore, in misura
inimmaginabile, facendo dell’uomo quasi un dio capace di creare la vita, ma non
ha risolto i problemi fondamentali del vivere; ha accresciuto il divario fra i
privilegiati e i dannati a condizioni subumane e dunque ha incrementato le cause
di conflitto, e sembra sfuggire al controllo dell’uomo onnipotente, distruggendo
la soggiogata madre terra e minacciando dunque di distruggere l’apprendista
stregone che di lei vive.
È soprattutto la scoperta del Dna, che permette di interferire nella creazione
delle forme viventi, che crea le inquietudini più angosciose e indistinte, ancor
più sconcertanti di quelle che accompagnarono le grandi scoperte della fisica
preludenti alla possibilità di costruire - e dunque di gettare - la bomba
atomica.
Tra le inquietudini che più insidiano l’uomo onnipotente c’è la sensazione di
manipolare la vita e la natura e quindi se stesso, alterando la propria identità
sino al punto da renderla irriconoscibile e dunque di distruggerla, nella sua
conformazione millenaria che sino a ieri sembrava immutabile. Tale inquietudine
si esprime, quasi sempre, in forme inaccettabilmente irragionevoli e
irrazionali. Non esiste, come amano credere i compiaciuti profeti di sventura
nostalgici dei bei tempi antichi in realtà mai esistiti, una Natura pura e
autentica, che il dissennato progresso tecnologico distruggerebbe. Come sapeva
Goethe, la natura - che egli ha amato e cantato più di ogni altro - è tutto;
nulla ricade fuori di essa, neanche ciò che sembra negarla e che è invece una
delle sue tante, contraddittorie e conflittuali messinscene.
Costruire case è l’istinto di una specie come costruire nidi lo è di un’altra; i
deserti gelati di Plutone sono altrettanto naturali quanto le foreste del mio
amato Monte Nevoso, i gas che escono dai tubi di scappamento sono costituiti da
sostanze chimiche ossia da elementi della natura, creati da Dio come le rose.
La manipolazione, in una certa dose, è sempre presente; una fascia che arresta
un’emorragia, una protesi dentaria, un antibiotico che uccide bacilli, una
camomilla o un tranquillante che inducono a dormire sono tutti «interventi» che
interferiscono in un presunto processo «naturale»; quantitativamente sono ben
diversi da un’operazione al cervello, dal trapianto di un organo o da una
fecondazione in provetta, ma il principio è il medesimo. Non esiste una natura
in sé, autentica incontaminata e immune da interventi, come non esiste un
individuo autonomo dalla realtà e dall’azione esterna, a cominciare dal cibo che
nutre pure il suo ragionare e dalla cottura del medesimo cibo, invenzione della
specie umana né più né meno artificiale dell’alveare o del formicaio.
La natura è appunto l’insieme di tutti questi processi, che la costituiscono
modificandola in un’incessante metamorfosi. Chi lo dimentica, la offende, come
tanta odierna paccottiglia pseudo-culturale e irrazionale che pasticcia falso
naturismo e falso misticismo, opponendosi al sapere scientifico e razionale - a
quel Logos che, dice il Vangelo, è l’essenza di Dio - e mescolando
superstizioni, attese miracolistiche, ciarpame paranormale, sentimentalismo
addominale, culti misterici avulsi dal loro contesto storico, oroscopi e
buttacarte e magiche diete. Queste artificiose fumisterie sono nemiche della
scienza come delle grandi religioni, razionali perché distinguono ciò che è
oggetto di ragione da ciò che è oggetto di fede e perché, come diceva il
cattolico Chesterton, sono permeate di genuino materialismo ossia capaci di fare
i conti con la materia di cui è fatto il mondo creato da Dio, con le sinapsi di
neuroni in cui si è incarnato il Verbo.
Se quest’ansia dell’uomo onnipotente assume spesso toni regressivi e ottusi,
essa tuttavia è, nella sua genesi, giustificata e troppo spesso molti scienziati
- anziché rispondere razionalmente alle sue domande, formulate irrazionalmente
ma obiettivamente fondate - arricciano prettamente il naso con un’aria di
superiorità e si trincerano dietro la propria regola interna, che è quella di
oltrepassare senza sosta le proprie frontiere senza preoccuparsi delle
conseguenze. Einstein, Oppenheimer o Szilard, che si sono posti angosciosamente
il problema delle conseguenze delle loro scoperte, non la pensavano così;
grandissimi scienziati, sapevano che nemmeno la scienza è un valore supremo e
fine a se stesso, indifferente come un truce dio tribale a ciò che i propri
risultati significano per l’umanità.
Ogni differenza, come s’è detto, è quantitativa, ma oltre un certo punto la
differenza di quantità diviene un salto di qualità. Tutto è manipolazione, ma la
diversità fra la piombatura di un dente e la clonazione viene legittimamente
percepita come un conturbante cambiamento che rischia di mutare il volto stesso
dell’uomo. Oggi è teoricamente e materialmente possibile che una donna abbia un
figlio da se stessa, senza il concorso di alcun partner - in una vera
partenogenesi o autoclonazione - prendendo un nucleo di una sua cellula somatica
e inserendola in un suo ovocita da cui sia stato tolto il pronucleo. Questo
comporta, potenzialmente, una mutazione antropologica e culturale radicale,
perché il sesso, la riproduzione e il loro rapporto - potremmo anche dire
l’amore - costituiscono una caratteristica fondamentale di una civiltà e anche
di una specie; fra l’accoppiamento dei pesci e l’amore cortese c’è una
differenza che noi percepiamo come qualitativa, ma anche la differenza tra una
società che pratica il sacrificio del primogenito e una che costruisce nidi ed
asili è una differenza che cambia sostanzialmente il modo di essere umani.
È comprensibile che, ad esempio, le sperimentazioni sugli embrioni sconcertino
non solo chi vuole tutelare il diritto dell’individuo nella fase iniziale della
sua esistenza, ma anche chi vede e teme l’avvio di interventi sulla vita che
potrebbero mutare il volto dell’uomo così come lo conosciamo. È stato Nietzsche
a prevedere, ben più di un secolo fa, una tale mutazione antropologica e
culturale, l’avvento di un «oltre-uomo», di un nuovo stadio dell’evoluzione
maturato non nei lentissimi tempi del passato, ma a velocità insostenibile. Pure
chi sa di essere ben diverso dai propri lontanissimi avi di epoche remote, dai
nostri trisavoli scimmieschi o roditori o creature ancor più primordiali,
rilutta a pensare che i suoi pronipoti possano essere un giorno altrettanto
diversi da lui.
Queste sono prospettive fantascientifiche, delle quali è facile e giusto
sorridere. Ma alcuni cambiamenti già in atto ed alcune ventilate possibilità
sono già abbastanza destabilizzanti. Ed è inutile assicurare che, anche quando
ad esempio la clonazione umana fosse possibile, non la si farà, perché tutto ciò
che è possibile viene, prima o dopo, messo in atto, come dimostrano Hiroshima o
Nagasaki. C’è sempre la tentazione di credere che ciò che è materialmente
fattibile sia anche sempre moralmente lecito.
Non è la natura a essere in pericolo, come vociferano gli ecologisti; i gas
inquinanti, il virus dell'Aids o i terremoti non minacciano la natura, bensì la
nostra specie, alla quale la natura non è certo più interessata che agli estinti
dinosauri. Se la nostra specie si estinguesse, non sarebbe uno scandalo cosmico,
tuttavia è spiegabile che noi ce ne preoccupiamo, più di quanto ci preoccupi la
scomparsa dell’okapi o la disintegrazione di un meteorite. Non è nemmeno la
religione a essere minacciata, perché l’infinito abisso di Dio, in cui tutto
fiorisce precipita e ritorna e in cui ogni rosa sta nella eternità, abbraccia la
clonata pecora Dolly come il susseguirsi delle ere geologiche e i gigli dei
campi. A sentirsi minacciato è qualcosa di più modesto, ma per noi
insostituibile: l’umanesimo, il volto e il posto dell’uomo. La nostra etica, la
nostra visione del mondo, il senso della nostra vita si fondano su un
presupposto che probabilmente non regge, ma a cui non possiamo rinunciare, ossia
sulla distinzione qualitativa, assoluta fra l’uomo e il resto del creato.
L’uomo, così come da millenni e millenni è stato formato dall’evoluzione, è per
noi qualcosa di radicalmente altro dal resto dell’evoluzione, qualcosa di
assoluto. Questo postulato, se andiamo a ritroso nella storia fino alle origini
della vita, probabilmente non tiene, ma non ne possiamo fare a meno. Può darsi
che, dal punto di vista cosmico, lo sterminio di un popolo non sia troppo
diverso da quello di una specie animale, ma per noi, anche se amiamo gli animali
e aborriamo le loro sofferenze, quella differenza è una frontiera invalicabile.
Quando pensiamo all’uomo, lo pensiamo come lo conosciamo - e come si è
riprodotto - da millenni e millenni. Se abbiamo, a torto o a ragione,
l’impressione che qualcosa possa cambiare in quest’ambito essenziale della
nostra umanità, ne siamo sgomenti.
Nella campagna referendaria è risuonata forse un po’ troppo reboante la tromba
del Progresso. Come ha scritto Salvadori, non è la fede in un infinito Progresso
- aberrante come ogni fede dogmatica - che può confortarci, bensì la fede,
umanistica e illuminista, in tanti piccoli, diversi progressi possibili, che
possono aiutarci a vivere un po’ meglio; a essere, con più giustizia, quello che
siamo.
Claudio Magris