Nella società della solitudine globale,
nella quale i legami si formano e si sciolgono senza lasciar
tracce, lasciando la persona disorientata e priva di identità e
appartenenze, gli italiani sono un po’ meno soli. Qui da noi va
in aria un matrimonio su sette (negli Stati Uniti, o in Francia,
uno su due), aumentano le coppie che tornano insieme, magari in
modo informale, quelle che non spezzano completamente il
rapporto, i papà che tengono ottimi rapporti con gli ex suoceri.
Mentre leggi prevedono l’abolizione (a scelta) del nome del
padre, molte donne insistono, nel divorzio, a mantenere il nome
del marito. E molti mariti insistono per onorare quello della
discendenza materna, dandone al figlio il nome. La dura realtà
del conflitto e dell’abolizione dell’altro, lascito delle
(anche) spietate lotte tra uomini e donne del secolo scorso, e
dei mutamenti all’interno della famiglia, si interfaccia da noi
con la consapevolezza dell’enorme valore rappresentato, per ogni
persona e per la società, dalla ricca trama degli affetti
costituiti, delle esperienze, delle solidarietà cresciute
all’interno dell’esperienza famigliare.
Si tratta di una consapevolezza profonda, trasversale alle
organizzazioni politiche. Quando la senatrice Anna Serafini (il
cui marito, Pietro Fassino, è segretario dei Democratici di
sinistra), dichiara di condividere la richiesta di «politiche
audaci a favore della famiglia», contenuta nel manifesto dei
promotori del Family day, esprime (al di là delle ovvie
opportunità politiche), esattamente questa stessa realtà.
Qualsiasi persona che conosca la società italiana conosce il
valore specifico in essa rappresentato dai legami affettivi
tradizionali, ormai persi in molte società contemporanee. Che
infatti presentano livelli di solitudine individuale e
disgregazione affettiva maggiori che da noi.
Naturalmente, anche l’Italia condivide con le altre società
occidentali il tratto narcisistico di fondo, derivante dal
tentativo di separare identità e appartenenze individuali dalle
strutture di formazione tradizionale (famiglia, scuola, culture
di gruppo), e dall’insicurezza identitaria che esso provoca
nelle persone. Anche da noi, dunque, fiorisce la proclamazione
dell’onnipotenza: tutto è possibile all’individuo, non vincolato
e superiore ad ogni appartenenza, che è solo una momentanea
costruzione culturale, e/o politica.
Questa posizione tuttavia, che esprime un’affettività ancora
infantile, si afferma soprattutto nell’età delle proteste
adolescenziali, ma non conquista veramente il cuore delle
persone, consapevoli della fragilità della vita e dell’enorme
valore degli affetti nel tesserne una trama che duri nel tempo.
La società nel suo insieme rimane dunque attenta ai legami,
impegnata nel ritrovare una cultura degli affetti che le
semplificazioni degli anni ’70 hanno altrove devastato.
In questa particolarità italiana ci sono anche, come sempre
nelle faccende umane, aspetti poco generosi. I vecchi tenuti in
casa per utilizzarne le pensioni, o i giovani che vi rimangono
per non prendersi responsabilità personali e continuare a
scaricare sulla madre la fatica di accudirli, sono esempi tutt’altro
che infrequenti, di questo lato interessato del conservatorismo
familiare italiano. Che ha ricadute importanti, e negative,
sulla società, dove si traduce in minor passione per il rischio,
l’invenzione, l’innovazione. Ed un senso attenuato della
responsabilità personale, che tende ad essere scaricata il più a
lungo possibile sul gruppo familiare di appartenenza. Non c’è
rosa senza spine. Ma quel che conta è la rosa.