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BASTA CHE PARLI
Lettera a una professoressa è un testo che mi ha
diviso l'anima: nel '68 è stato quasi una bibbia per me studentessa
universitaria e poi giovane insegnante, l'ho successivamente rifiutato negli
anni del femminismo e della Pedagogia della differenza, perché dedicava in tutto
nove righe alle bambine e l'emblema della cattiva scuola era una professoressa.
La Lettera, pubblicata nel '67 dalla Libreria Editrice Fiorentina, è stata
scritta da un autore collettivo: Scuola di barbiana, cioè dagli allievi assieme
al loro maestro don Lorenzo Milani, in un piccolissimo paese toscano. Destinata
a insegnanti e genitori, è organizzata in forma di brevi capitoletti,
accompagnati da parole o frasi guida sul margine laterale, ed è divisa in due
parti: La scuola dell'obbligo non può bocciare e Alle magistrali bocciate pure,
ma...; segue una Documentazione costituita da repertori statistici sulle
ripetenze dal '54 al '65.
IL PUNTO DI VISTA DEI POVERI
Il grande fascino che la Lettera ancora esercita su
di me è un fascino simbolico, perché mostra la presa di coscienza e di parola di
un mondo - il mondo dei poveri - che fino a quel momento era muto. In quanto
incapace di una parola propria il mondo dei poveri era raccontato da chi sapeva
parlare, con giudizi, misure, punti di vista che pesavano sui giovani contadini
e operai con la forza dei luoghi comuni e del pregiudizio. In quel momento
storico l'essere senza parola toglieva ai poveri la possibilità di esserci nella
società nonostante il diritto di voto.
Negli anni '50, in Italia esisteva una povertà che oggi si stenta a immaginare.
Nel '54 Barbiana era una frazione montana minuscola, nel Mugello, sul fianco
nord del monte Giovi; quando don Milani vi venne trasferito perché era un
parroco scomodo e vi apr" la sua scuola, in tutto vi abitavano 39 famiglie di
contadini poverissimi che non avevano né la luce elettrica, né l'acqua. Ma
Barbiana in quegli anni non era un'eccezione: non erano solo poche famiglie di
montanari ad essere povere ma intere classi sociali, i contadini, gli operai
erano poveri.
Vivevano in forti ristrettezze materiali e tutti gli scritti di don Milani ce ne
danno immagini vivide: bambini che per letto avevano il tavolo da cucina,
ragazzi di 14 anni che lavoravano di notte.
Di questa situazione di sofferenze materiali, Lettera a una professoressa coglie
e mette a fuoco l'aspetto soggettivo, che si presenta come una malattia
simbolica che pesa più della miseria. La Lettera parla prima di tutto della
timidezza contadina. E' la timidezza del ragazzo contadino che a "scuola
striscia lungo le pareti", della sua mamma che si "intimidisce davanti a un
modulo di telegramma", del suo babbo che "osserva ascolta ma non parla" (pag.
9). Nel testo la timidezza contadina non è un aspetto del carattere, è un fatto
politico. Don Milani lo ritiene importante tanto da scrivere in una lettera a
Elena Brambilla: "Io so che la tragedia dei contadini è tutta nella solitudine,
che tutti i loro mali sono nati dal piccolo numero dei loro incontri umani".
Nei ragazzi di Barbiana, nel rapporto assiduo con il loro maestro, si fa strada
la consapevolezza che l'esclusione dalla cultura, l'isolamento, la mancanza di
incontri, il non saper parlare l'italiano costituivano una barriera che metteva
le classi povere in uno stato di inferiorità sociale e umana e che per loro la
scuola creata da don Milani significava uscirne. Così di fronte al disquisire
degli esperti che criticano i metodi pedagogici della scuola di Barbiana perché
i ragazzi non fanno sport, prende la parola Lucio: "Lucio che aveva 36 mucche
nella stalla disse 'la scuola sarà sempre meglio della merda'. Questa frase va
scolpita sulla porta delle vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini sono
pronti a sottoscriverla." (pag. 13)
Lettera ad una professoressa è molto di più di un testo sulla scuola. Sono i
ragazzi poveri che prendono la parola. La Lettera è da leggere come
un'operazione simbolica con cui don Milani dà voce a chi non ce l'ha e del punto
di vista dei poveri fa un punto di vista sul mondo. Al cuore del testo è il
capovolgimento della gerarchia dei valori, dei criteri di giudizio, del senso
delle cose.
Le bocciature nella scuola dell'obbligo sono il "fatto" su cui avviene il
capovolgimento di prospettiva: "Voi dite di aver bocciato i cretini e gli
svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle
case dei poveri ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. E' più facile che i
dispettosi siate voi". (pag. 60)
I Gianni, i ragazzi poveri, che la scuola considera cretini e svogliati, si
fanno avanti nella Lettera e si propongono come "la parte migliore
dell'umanità". Si pongono come portatori di una cultura, che è un dono, che
porta "un po' di vita nell'arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto
solo libri". (pag. 115)
Nel rovesciamento simbolico operato nella Lettera sono invece i Pierini, i
ragazzi ricchi, che "a 6 anni parlano come un libro stampato", e che sono già
segnati anche loro, ma dal "marchio della razza pregiata", a pagar caro il loro
privilegio. Pierino sì non ha perso classi, anzi è un anno avanti, ma è
"deformato dalla specializzazione, dai libri, dal contatto con gente tutta
uguale". Pierino non è timido, anzi è disinvolto con la professoressa, ma non è
per niente maturo, si è solo "allenato ad affrontare adulti". Pierino nel
capovolgimento del punto di vista risulta simbolicamente mancante e ai Gianni fa
quasi compassione, tanto che a un certo punto lo invitano ad abbandonare il suo
mondo e unirsi a loro. (pag. 96)
IL TESTO NEL '68 E LA SUA CRITICA AL CLASSISMO
Il passaggio ulteriore che i ragazzi di Barbiana
fanno fare a chi legge è comprendere che se le cose sono invece percepite a
scuola in modo differente -bravo e intelligente Pierino, cretino e svogliato
Gianni- è perché la cultura che vi si insegna è quella che appartiene alla sola
classe privilegiata. "Tutta la cultura è costruita così. Come se il mondo foste
voi". I ragazzi di Barbiana sostengono che la scuola è di classe.
Lo svelamento della natura classista della cultura è quello che più ha
determinato la popolarità del testo tra noi giovani del '68. Ricordo che era
diventato slogan da gridare nelle manifestazioni. Lettera a una professoressa
portava le ragioni dei ragazzi poveri con tanta forza che le abbiamo fatte
nostre, dava anche a noi del movimento studentesco delle università delle
ragioni per dire l'antipatia che nutrivamo per la scuola che avevamo
frequentato. Ne avevamo sentito il peso, la noia, il fastidio e non ne sapevamo
il perché. Noi studentesse poi, da poco entrate in massa nell'istruzione
superiore, che era un essere ammesse a una cultura che non ci comprendeva e che
cancellava il femminile, avevamo ben più forti ragioni nostre da esprimere, ma
in quegli anni tutto si riassunse, o si semplificò, nella funzione selettiva e
classista della scuola. Soprattutto l'insegnamento del latino nella scuola
dell'obbligo era sotto accusa perché, dicevamo allora, tagliava fuori chi in
casa non aveva il sostegno di un ambiente colto.
Quando venne scritta la Lettera c'era stata da pochi anni ('62) l'attuazione
della media unificata che aveva abolito la divisione tra avviamento e scuola
media e prolungato l'obbligo a 14 anni. Il latino era diventato facoltativo, ma
evidentemente in troppi luoghi la scuola dell'obbligo continuava a impartire una
cultura di stampo gentiliano, con modalità che ne facevano un insieme di nozioni
e di atteggiamenti per riprodurre la classe dominante e mantenere la funzione di
criterio di inclusione/esclusione sociale.
Rileggendo il testo mi sono chiesta quale sia stata la radice della critica al
classismo, che lo percorre tutto e che in un passo si rispecchia in un fine
lavoro sul significato stesso delle parole classismo, anticlassismo,
interclassismo: "La mattina e d'inverno la scuola la farà lo Stato. E seguiterà
a farla 'interclassista' (attenzione ai vocaboli: il classismo dei ricchi si
chiama interclassismo). Nel pomeriggio e d'estate bisogna che la faccia qualcun
altro e che la faccia anticlassista (attenzione ai vocaboli: l'anticlassismo i
ricchi lo chiamano classismo)." (pag. 89) Per passi del genere Don Milani,
soprattutto dalla stampa di destra, è stato accusato di essere un prete rosso,
di essere in combutta con i comunisti, ma niente è più lontano da lui del
comunismo. Non è un prete operaio, come ce ne sono stati in quegli anni, anzi si
rincresceva delle possibili strumentalizzazioni da parte dei comunisti,
possibili soprattutto per l'incomprensione del suo operato da parte della
gerarchia ecclesiastica che gli poneva a ogni piŽ sospinto dei veti a cui lui
-ribelle obbedientissimo- immediatamente si sottoponeva.
La sua era una intransigente applicazione del vangelo, che aveva conosciuto e
abbracciato già grande, era una ricerca di giustizia universale. Del vangelo di
Luca applicava alla lettera: "Preparate la via del Signore, fate retti i suoi
sentieri. Ogni valle sarà colmata, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le
vie torte diventeranno una via dritta e le vie scabrose vie piane; e ogni uomo
vedrà la salvezza in Dio". E' sempre il vangelo ad ispirargli atteggiamenti di
classismo all'incontrario che lui sosteneva essere da sempre della chiesa:
"Anche alla distribuzione della minestra ai poveri i ricchi non sono ammessi. Il
classismo in questo senso non è dunque una novità per la chiesa". Crede solo -
così dice - ai 10 comandamenti e in nome del vangelo rifiuta un'idea di amore
universale. Si rifiutava per es. di "perder tempo" con persone che avendo letto
i suoi libri lo andavano a trovare a Barbiana e così lo motivava: "Se
rispondessi loro con pazienza e se credessi al comandamento che essi
continuamente mi rinfacciano e cioè che bisogna amare tutti, mi ridurrei in
pochi giorni un prete da salotto cioè da cenacolo mistico-intellettual-ascetico
e smetterei di essere quello che sono cioè un parroco di montagna che non vede
al di là dei suoi parrocchiani".
Don Milani non vuol essere un prete da salotto che usa la parola tra pochi
intellettuali, ma ha accettato una situazione che non aveva neanche scelto e di
quello che gli era stato imposto è riuscito a fare la sua scelta. La segue con
rigore, rimanendo tra i suoi parrocchiani poveri e in questo esserci in mezzo a
loro agisce anche con la parola.
Dalla mia frequentazione del femminismo della differenza so che le operazioni
simboliche sono sì affidate alla parola capace di ribaltare i significati, ma
ciò che risulta decisivo è la capacità di inventare delle pratiche di
modificazione di sé, di modificazione degli atteggiamenti e delle relazioni
private e sociali. Questo mi permette di dire che quegli atteggiamenti rigorosi
con cui Don Milani sostanziava il suo classismo all'incontrario e che gli hanno
creato più di un nemico, sono da leggere come pratiche, e infatti sono per me il
principale segnale che la sua sia stata un'operazione simbolica.
Per esempio, alle conferenze del venerd" che organizzava a Calenzano
intellettuali e studenti dovevano stare in fondo e zitti, solo gli operai
avevano la parola. In una lettera a Mario Lodi , Don Milani spiega la sua
intenzione: "Quando ho davanti uno studente o un cittadino faccio di tutto per
umiliarlo, levargli un po' di sicurezza di sé. Quando ho un contadino o un
operaio cerco proprio il contrario: di dargli un po' di sicurezza di sé". Don
Milani fugava la malattia simbolica della timidezza dei suoi ragazzi con
pratiche robuste mirate ad essere quotidianamente "inezioni di superbia ai
poveri e iniezioni di umiltà ai ricchi".
Per modificare i comportamenti delle classi subalterne, per un certo periodo
pensò anche di scrivere un "galateo sborghesito" per far acquisire "l'abitudine
a forme esterne coerenti con il nostro modo di pensare". Poi non ne fece niente
ma alla sua sensibilità strideva troppo vedere i sindacalisti operai della CISL
o della CGIL mettersi la cravatta per incontrare i padroni e cedergli il passo
nell'attraversare una porta oppure vedere il popolo rincorrere la borghesia
nello sfarzo delle feste di matrimonio.
Per amore di verità dico che le ragazze e le donne non potevano neppure
partecipare alle conferenze del venerd" a Calenzano, ma questo, sembra, per
esplicito divieto del proposto. Non può bastare, però, il divieto a spiegare: un
uomo giusto non si adatta a condizione ingiuste e don Milani l'ha mostrato con
tutta la sua vita. In questo caso invece rinuncia e accetta una palese
ingiustizia, e questo è una spia di qualcos'altro e va interrogato più a fondo.
UN'OPERAZIONE SIMBOLICA A META'
Ho cercato di mostrare come Lettera a una
professoressa abbia nella sua radice più intima e evangelica una ricerca di
giustizia universale, ideale che ho condiviso negli anni '70, ma su cui non sono
più d'accordo. Con gli anni mi sono resa conto che proprio rispetto a questo
ideale la mia esperienza umana femminile mi ha fatto segnare un distacco: me ne
sono discostata quando sono diventata consapevole che questa ricerca ha agito
come mascheramento della contraddizione di sesso. Ancora oggi tornare a
rileggere la Lettera e trovarvi in tutto nove righe dedicate alle ragazze, mi fa
vedere ciò che le manca. Manca l'altra storia, quella, combattuta,
dell'istruzione femminile. Lo sguardo che vuole essere universale, si mostra
portatore di una giustizia a metà, unilaterale, solo per i maschi poveri.
Certo, oggi è facile sostenere questa mia posizione perché poco dopo la Lettera
è scoppiato il femminismo ed è diventato agevole conoscere la storia
dell'istruzione femminile, grazie soprattutto a donne che si sono dedicate a
indagarla, farla emergere e a tenerla ben presente in mente nel ragionare.
Io stessa, leggendo questi studi, sono arrivata alla conclusione che
l'istruzione femminile superiore sia stato un esito imprevisto della scuola di
massa e ho avuto l'impressione di un amore o di un'aspirazione femminile
all'istruzione che percorre tutte le epoche e viene ricacciata più volte
indietro.
La media unica era stata in realtà pensata per dare una possibilità di
istruzione ai ragazzi delle classi popolari, proprio per i Gianni di cui parla
la Lettera, ma è capitato che ragazze di ogni ceto sociale ne abbiano
approfittato per il loro desiderio di imparare e di inserirsi nel lavoro con un
titolo di studio. La scuola di massa senza tanto clamore ha posto fine a
un'esclusione sottilmente misogina basata sul pregiudizio che le donne non
dovessero acquisire il sapere. La versione popolare di questo pregiudizio
compare anche nel breve frammento della Lettera dedicato alle bambine, e
riferito ai genitori: "Credono che una donna possa vivere anche con un cervello
di gallina" (pag. 16), pregiudizio che insieme al matrimonio, ha pesato per
secoli su donne di tutte le classi sociali, ad esclusione di poche "donne
eccezionali".
Il giudizio sulle professoresse che emerge dalla Lettera è perlomeno ingeneroso,
se non animato da disprezzo misogino: mamme a mezzo servizio, mogliettine
incoscienti di uomini di sinistra. C'è in don Milani anche un intento
esplicitamente provocatorio. In una lettera a Gaetano Arfé chiede di controllare
se nel dibattito parlamentare sia sfuggita a un ministro qualche parola
dichiaratamente classista e lo scopo è "far rabbia a quella professoressa che ha
bocciato credendo di far opera di giustizia e incosciente di essere sicario del
padrone."
L'acredine antifemminile non permette a don Milani di vedere come invece esista
un nesso tra scuola "dei padroni", giustizia che vi si opera, e il suo essere
una struttura pensata da maschi per maschi. Il problema della professoressa è
piuttosto quello di aver fatto come Malcom X quando si scoloriva e si lisciava i
capelli per assomigliare a un bianco. Si è mimetizzata aderendo a una cultura
che non la comprendeva e ne ha assunto le modalità dominanti. D'altra parte mi è
chiarissimo che una professoressa che si fosse scolorita i capelli per
assomigliare a don Milani, come hanno fatto in seguito tante insegnanti di
sinistra, a lui sarebbe andata bene, a me no.
Dunque il mio problema di fondo è rendere parlante la libertà femminile, facendo
tramontare il mimetismo, che è un prezzo che in molte abbiamo inconsapevolmente
pagato per la nostra emancipazione, e da cui deriva spesso una mancanza di
capacità di critica radicale, un conformismo che asfissia ancora le nostre
scuole, anche se oggi non ce n'è ragione.
Oggi che le donne vanno a scuola, anzi la scuola stessa si è femminilizzata, il
punto di vista dei poveri dice troppo poco, per una più profonda contraddizione
che si è aperta.
Come ai tempi di Don Milani l'entrata dei poveri nella scuola media unificata ha
fatto vedere ai ragazzi di Barbiana quanto era elitaria la cultura che vi si
insegnava, così la storia a lieto fine dell'istruzione femminile fa oggi vedere
che più che una scuola senz'anima, come dice spesso Umberto Galimberti, ci
troviamo di fronte a una scuola pensata e rappresentata con un'anima solo
maschile.
Quest'altra antica storia di pregiudizio che non è raccontata nella Lettera a
una professoressa è gravida di conseguenze che ci riguardano da vicino nella
scuola. Il discredito nei confronti del femminile ha fatto da ponte per
formulare criteri epistemologici e educativi che ancora oggi stanno a fondamento
della nostra scuola e fanno apparire la scuola e la cultura che insegniamo
mancante e fasulla. La scuola nella sua struttura profonda ancora si fonda su
una razionalità che invece è razionalismo, su un rigore che in realtà è
mutilazione di tante parti dell'esperienza umana, su una disciplina - che adesso
è completamente crollata - che si ispirava a modelli militareschi e non teneva
conto delle capacità femminili di tener assieme una pluralità di persone. Sono
criteri che si basano sull'assenza del femminile e non possono essere
radicalmente messi in discussione se non si attua un riequilibrio del punto di
vista, assumendo fino in fondo la presenza dei due sessi nel pensare
l'istruzione e l'educazione.
LA SCUOLA DELL'INVENZIONE
La precisazione di questi aspetti mi permette di
capire e dire meglio che cosa posso (possiamo) imparare da Lettera a una
professoressa, e da che cosa voglio prendere decisamente le distanze, mettendomi
così in condizione di ragionare alla luce di una consapevolezza femminile.
A riconsiderare oggi le questioni poste dai ragazzi di Barbiana, mi sono accorta
che la Lettera è rimasta sostanzialmente incompresa e che nella scuola italiana
sono entrati principalmente gli aspetti più meccanici e caduchi. Per es., negli
anni '70 il non bocciare, invece di essere una sfida per riuscire ad insegnare
agli ultimi, è diventato l'appiattimento del 6 politico e l'idea di dare più
scuola ai Gianni perché i Pierini ce l'hanno già a casa 24 ore su 24, è
diventata un'enfasi sul tempo scuola che in alcuni casi ha creato orari peggiori
di quelli delle fabbriche fordiste, oppure ha dato vita a doposcuola oratoriali
o di sinistra che non fanno che prolungare l'agonia di una scuola insensata che
dà compiti su compiti. Anche l'argomento forte, perché inusitato e trasgressivo,
di lavorare su repertori statistici per documentare la "piramide scolastica",
larga alla base (le elementari) e via via più stretta per l'espulsione dei
poveri con "la strage dei vecchi", cioè dei ripetenti che hanno il lavoro
minorile in nero a portata di mano, è diventato il prevalere di criteri
quantitativi nel ragionare di scuola. L'essenziale invece di quella scuola è
stata la capacità di dare forza simbolica ai poveri. Don Milani conosceva il
segreto della soggettività, della passione, infatti sosteneva che "Barbiana non
è esportabile" e quando gli amici insistevano perché scrivesse il metodo, i
programmi, la tecnica didattica, rispondeva: "sbagliano la domanda, non
dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna
essere per poter fare scuola". Da quella piccola scuola di montagna viene un
insegnamento per la grande capacità di don Milani di inventare pratiche, alcune
sono straordinarie. Nascono da tutto il modo di essere di don Lorenzo,
dall'amore che ha per i suoi ragazzi, nel testamento dice: "Ho voluto più bene a
voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e
abbia scritto tutto sul suo conto".
La lezione da trarne consiste non nel rifare quelle stesse cose, ma nel
ricominciare a inventare pratiche, per le esigenze del nostro tempo che non può
più prescindere dalla differenza femminile. Le pratiche che più mi piacciono
nella Lettera hanno tutte a che fare con la sua idea di una cultura viva e che
serve alla vita. Per esempio il viaggio all'estero che è l'esame vero: "Nella
nostra scuola l'andare all'estero equivale ai vostri esami. Ma è esame e scuola
insieme. Si prova la cultura al vaglio della vita. In conclusione è un esame più
severo dei vostri, ma almeno non si perde tempo sulle cose morte". (pag. 101)
Oppure la lettura dei giornali per 500 ore l'anno o l'idea, scaturita dalla
necessità, di mettere i più grandi a insegnare ai più piccoli.
LA SCOMMESSA SULLA LINGUA
Dalla Lettera arriva ai nostri giorni una lezione
più profonda da riconsiderare: tutte le invenzioni di don Milani ruotano attorno
al perno centrale del simbolico, che fa da bussola, orienta la scelta di cosa
fare o non fare nella sua scuola, e il simbolico stesso - imparare a parlare - è
messo a tema come insegnamento principale da impartire. Ciò di cui i poveri
hanno bisogno è la lingua, è l'italiano. Dicono nel testo: "noi che non si parla
e s'ha bisogno di lingua d'oggi e non di ieri, di lingua e non di
specializzazioni". (pag. 96)
Negli anni 50/60 la società italiana era molto più nettamente di oggi divisa in
classi sociali rigide e uno dei aspetti era la contraddizione linguistica che
vedeva le classi privilegiate usare correntemente l'italiano e le classi povere
parlare e intendere prevalentemente il dialetto. Sono anni in cui attorno alla
questione della lingua c'è un grande dibattito intellettuale a cui partecipa
anche la gente comune. Ho cercato di farmene un'idea attraverso Le belle
bandiere, la raccolta delle lettere a Pasolini che teneva una rubrica su Vie
Nuove in quegli stessi anni. Molte lettere riguardano questa questione e sono
scritte da minatori, professoresse, casalinghe, giovani operai.
Sono gli anni dell'"impegno", della letteratura neorealista, che cerca anche
soluzioni linguistiche creative sul rapporto lingua nazionale-dialetti, come si
vede dagli stessi romanzi di Pasolini o nella Storia di Elsa Morante. Sono gli
anni di riscoperta delle tradizioni popolari, di cui basta ricordare la
minuziosa ricerca di Italo Calvino che porterà alla pubblicazione di Fiabe
italiane. C'è una scommessa politica sulla lingua che è -lo dico con le parole
di Pasolini- "una strada di rinnovamento dell'italiano dal basso, di
italianizzazione dell'Italia attraverso la presenza rivoluzionaria del popolo, e
attraverso un'idea gramscianamente nazional-popolare della letteratura."
Don Milani fa parte di questa temperie culturale con una sua caratterizzazione
specifica: don Milani è un inventore di lingua. E' a mio parere questa la
soluzione che dà alla complessa questione del rapporto tra la lingua, povera,
lessicalmente scorretta, frammista al dialetto dei suoi allievi ( scrivevano
"ito" per "andato", "enno" per "sono", "unguanno" per "quest'anno") e la lingua
nazionale colta. Fa un'opzione decisa per l'italiano, ma come lingua viva. Ne fa
una lingua asciutta, scarna, di una chiarezza cristallina. Le regole dello
scrivere in Lettera a una professoressa sono: "Aver qualcosa di importante da
dire e che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive.
Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo.
Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo
parlando. Non porsi limiti di tempo." (pag. 20) La Lettera stessa ne è un
esempio. Le frasi sono brevi o brevissime, poche le subordinate. Lo stile è
antiretorico. Non ci sono parole di difficile comprensione. Il testo una volta
finito è stato fatto leggere a contadini e operai e ogni parola che risultava
troppo difficile è stata sostituita con una di uso più corrente. La lingua ne
esce completamente rivoluzionata.
In quegli anni io ero una giovane studentessa e ricordo che invece a scuola,
nell'insegnamento dell'italiano, si privilegiava in prevalenza una prosa
enfatica, di cui il modello era il periodare ciceroniano e lo scrivere era
spesso un esercizio fine a se stesso, se non peggio un addestramento a fingere,
sostenendo idee scopiazzate per compiacere l'insegnante. Nella Lettera temi come
"Parlano le carrozze ferroviarie" vengono definiti "gli scritti dei vostri
signorini esperti nel frigger aria e nel rifrigger luoghi comuni". (pag. 21)
Dalle testimonianze dei suoi allievi emerge con vivezza come le lezioni di don
Milani fossero essenzialmente centrate sulla lingua. Adesso, un quindicinale di
impegno cristiano, in quegli anni riportò varie testimonianze di suoi allievi
tra cui quella di Benito Ferrini. Il suo allievo a S.Donato descrive bene come
all'inizio loro stessi non capissero "la vecchia idea fissa di don Milani, cioè
che a noi poveri ci manca solo l'italiano" e chiedevano invece per es. disegno
tecnico se erano meccanici, o stenografia per trovare più facilmente lavoro. Ma
inevitabilmente anche se la lezione cominciava con matematica finiva sempre che
ci si fermava su una parola, ci si stava su un'ora buona, sviscerandola,
scomponendola e ricomponendola, "finché s'era fatta mezzanotte e le penne erano
ancora da intingere e i quaderni bianchi e la radice quadrata vi prometto che si
farà domani".
I ragazzi di Barbiana attraverso la padronanza della lingua ponevano una
questione di sovranità: la lingua fa uguali, la lingua dà dignità, il dominio
della parola dà potere alle classi subalterne nella neonata democrazia. "Perché
è solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende
l'espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli." e
poche righe oltre "Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione.
Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere." (pag. 96)
Per don Milani la questione della lingua è legata alla ricerca di uguaglianza,
di una maggiore giustizia sociale attraverso il potere della parola. Lo esprime
chiaramente in una lettera al direttore del Mattino pubblicata nel '56 con il
titolo Giovani di montagna e giovani di città. La parola è "la chiave fatata che
apre ogni porta" e non permette solo di capire il libro sul motore per la
patente o il giornale del proprio partito, soprattutto permette di capire quello
che si dicono il dottore e il farmacista sulla piazza del paese quando discutono
"a voce alta pieni di boria" e di rendersi conto che "esprimono un pensiero che
non vale poi tanto quanto pareva ieri". Il suo ideale sociale è portare i poveri
attraverso il dominio della parola ad essere a pari dei ricchi. Infatti la
questione è impadronirsi della lingua perché dà potere. Don Milani fa l'esempio
di un medico che quando parla con un ingegnere o un avvocato discute da pari a
pari, "ma questo non perché ne sappia quanto loro di ingegneria o di diritto.
Parla da pari a pari perché ha in comune con loro il dominio della parola".
LA CONTRADDIZIONE LINGUISTICA OGGI
Sono passati più di quarant'anni dai tempi della
scuola di Barbiana e la contraddizione linguistica in Italia, forse in tutto
l'occidente, è ancora più viva, e si presenta con tutt'altra configurazione.
Oggi si è aperta una crisi del linguaggio che ha relativamente a che fare con il
conoscere molte e poche parole, con il saper usare il registro colto o
eslusivamente quello comune. Il cambiamento in corso investe profondamente il
come parliamo, le strutture stesse del discorso e le forme della comunicazione.
Io insegno lettere nella scuola media - sono proprio nel posto di quella
professoressa contro cui don Milani si scagliava - e quest'anno ho preso una
nuova prima. All'inizio sono rimasta sconcertata dal fatto che non rispondevano
alle comunicazioni considerate più ovvie a scuola, come "prendete il quaderno di
italiano", oppure "domani portate il libro di storia". Non succedeva niente
neppure quando dicevo: "E' ora di andare a casa!". Alla prima impressione i
ragazzini e le ragazzine di oggi appaiono come individualità chiuse all'esterno,
mute e sorde. Non ascoltano, non comunicano.
Se a questa situazione si guarda con gli occhi rivolti all'indietro, facendo il
confronto con il passato, la si può ritenere pericolosamente inquietante e
temere per il futuro. Lo fanno alcuni autorevoli studiosi, tra cui Raffaele
Simone, per il quale i giovani sono "poco articolati" in quanto non strutturano
più i discorsi, non accedono alla teoria, e per il futuro teme la formazione di
una vera e propria "casta" dal linguaggio strutturato e per il resto "una massa
di senza parola" (Unità 17 marzo 98). Così, purtroppo la stanno guardando anche
alcune mie colleghe, che però rimangono con un grande senso di frustrazione per
non riuscire a insegnare. Ma non a caso le bocciature sono in forte ripresa
nella scuola dell'obbligo.
E' vero, le nuove generazioni danno l'impressione di essere afasiche, ma, detto
questo, il problema è sentirsi chiamata(o) dentro la contraddizione. Aprirsi
alla questione che pongono. Sono le persone giovani o è la lingua e la
comunicazione ad essere inadeguate? E' una generazione persa alla lingua o
mutezza e sordità sono sintomo di qualcosa di più profondo che è andato in
crisi, sintomo di un cambiamento che investe anche me in prima persona?
E' comprensibile che la contraddizione linguistica appaia molto evidente con
l'inizio della scuola media, perché le medie segnano un passaggio di ampie
proporzioni. Mentre alle maestre è ancora riconosciuta la possibilità di
rimanere vicine alla lingua materna e di insegnare intrecciando conoscenza e
affetti, alle medie, e sempre di più alle superiori, si indeboliscono questi
legami. Al posto della relazione è la campanella a scandire, spesso
freneticamente, l'alternarsi delle conoscenze da apprendere, si moltiplicano gli
insegnamenti e ognuno si autonobilita con il tecnicismo e lo specialismo. Ogni
giorno crescono i muri che separano linguaggi tecnico-specialistici e linguaggi
della vita quotidiana e degli affetti. La cultura non arriva a "toccare" le loro
giovani vite e assieme alle parole sensate spariscono i loro giovani corpi e la
loro possibilità di esserci nel discorso con il proprio sentire. Sara in un
testo ha usato la parola labirinto per descrivere la sua condizione di
studentessa. Frastornati, confuse, i ragazzini e le ragazzine sentono
oscuramente di non esserci nei sentieri di parole tracciati dalle generazioni
precedenti e di stare da un'altra parte. Sentono che si chiede loro di adeguarsi
a qualcosa, e non sanno neppure a che cosa.
Io guardo con più fiducia ai cambiamenti in corso e penso che aprano anche
impreviste possibilità perché nel mio rapporto quotidiano con adolescenti,
constato il loro grande bisogno di esserci nel mondo. Percepisco anche quanto
sia importante per loro esserci con un sentire proprio, con una parola diversa,
per esempio, da quella della mia generazione del '68.
Di recente parecchi segnali hanno consolidato questa mia intuizione che tra le
ultime generazioni, nell'apparente afasia, sia in atto una ricerca di altre
forme espressive, di altri modi di comunicare e di stare assieme. Provengono da
ragazzi e ragazze più grandi, delle superiori e dell'università, che stanno
imprimendo al loro esserci un segno diverso dai movimenti degli anni '70. Prendo
dall'Unità del 24 novembre 2001 le impressioni di Piero Sansonetti, che ha
rivolto domande a ragazze e ragazzi del liceo Tasso di Roma. E' stato occupato
ed è finito sul giornale per uno sciopero della fame, attuato per poter parlare
con la ministra Moratti. "L'impressione che ho avuto è che siano meno informati
sulla politica e sulle ideologie ma (forse proprio per questo) molto più liberi
di testa, più "pensanti", come dimostra il fatto che hanno idee assai diverse
tra loro su alcune questioni fondamentali. E usano pochi luoghi comuni e questa
è una sorpresa.".
Il cambiamento che posso cominciare a fare io è lasciarmi sorprendere da ciò che
capita e dare fiducia alle parole di chi prova a raccontare la sua sorpresa
invece di riassumere gli avvenimenti nella sua ottica consolidata. Ho ben
presente in mente l'infinità di sondaggi e di analisi sociologiche di adulti che
descrivevano queste ultime generazioni come indifferenti, interessate solo al
denaro, alla carriera e alla prestanza fisica. Analisi tutte smentite
dall'improvvisa nascita in Italia, in occasione della riunione del G8 a Genova
nel luglio del 2001, di un movimento, ampio e multicolore, fatto in prevalenza
di giovani, e capace di parlare all'intera società di "un altro mondo
possibile".
RELAZIONI SENZA NOME
Nei decenni che ci separano da don Milani ci sono
stati radicali cambiamenti, tra cui uno che si rischia di perdere di vista o
d'interpretare in maniera riduttiva: il cambiamento del rapporto tra i sessi,
per l'avvenimento della libertà femminile.
Con la libertà femminile è cambiato, sta profondamente cambiando, il modo di
concepire il rapporto con l'altro, che era (è) in primis la donna. Prima l'uno
acquistava valore basandosi sul disvalore dell'altro. Ora il rapporto non si
riesce più a ordinare pacificamente nel senso superiore/inferiore, che sfocia
nella gerarchia, o nel siamo pari, che sfocia nella competizione. Ora l'altro
sta in un luogo simbolico non collocato in nessuno schema determinato per cui
spesso sta a ingombrare il nostro interno, a ingigantire le nostre paure. Ora la
relazione di alterità è diventata più vera e difficile, per cui la tentazione di
omologare l'altro è sempre più forte. Ora è possibile un senso libero della
differenza.
La lingua rispecchia tutte le contraddizioni di questo cambiamento. La potenza
del linguaggio è straordinaria: non dice solo quello che dice, ma dice anche in
quale posizione si mette chi parla, quale relazione sta instaurando con l'altro
e con il mondo. La crisi, il collasso dell'ordine simbolico tradizionale è l",
nel livello profondo del linguaggio.
Ogni momento sulle parole nasce un problema linguistico e politico. Così per
esempio dopo la tragedia dell'11 settembre a New York, alla comunità
internazionale è apparso quasi indecente che il capo del governo italiano abbia
parlato di "superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica" e
lo ha invitato immediatamente a ritrattare. Tre secoli di colonialismo avevano
fatto una bandiera di frasi di quel tipo, ma oggi non è più possibile.
Simili frasi esprimevano il sistema relazionale che organizzava la comunicazione
in uno stretto intreccio tra linguaggio e potere: quell'intreccio mortifero è
andato in crisi. Le nuove generazioni sono lo specchio migliore di questo
cambiamento, ma io stessa sono in grado di vederlo in quanto ne faccio parte per
la mia storia di donna che ha vissuto in prima persona con altre donne il
cambiamento del rapporto tra i sessi nella società.
Nel mondo pubblico e privato sono venuti avanti altri tipi di rapporti, maturati
tra donne, e altri tipi di rapporto tra donna e uomo. Sono allo stato nascente e
mancano le parole che li descrivano. In Comporre una vita Mary Caterine Bateson
scrive: "Quando cerco una parola che definisca il mio rapporto con le donne
descritte in questo libro, sento il bisogno di un termine che affermi sia la
collegialità sia il fatto che il processo è reso possibile dalle differenze che
ci caratterizzano. Ma il dizionario mi tradisce, negandomi un termine che
affermi al tempo stesso la simmetria e la complementarità. Questo vuoto nel
linguaggio corrisponde a un vuoto nella cultura. Siamo ricche di parole che
descrivono rapporti simmetrici, dall'amicone, al rivale, al collega. Siamo anche
ricchi di parole che descrivono rapporti fortemente asimmetrici, molti dei quali
implicano una gerarchia e hanno curiose sfumature che rimandano a rapporti di
sfruttamento e di dominanza. Ma una parola che corrisponda ai miei bisogni non
riesco a trovarla".
A causa della libertà femminile nella società vivono e si diffondono sempre più,
soprattutto tra le persone giovani, relazioni ancora senza nome che aprono altri
giochi.
Delle relazioni senza nome che anche io per prima sto vivendo qualcosa posso
dire: si reggono sulla fiducia negli scambi umani. Attingono e fanno rivivere
nella vita adulta un'attribuzione di fiducia che ciascuna, ciascuno ha vissuto
nella prima infanzia, quando ha imparato a parlare, nei confronti della madre:
"Da lei abbiamo imparato a parlare e lei allora ha garantito per la lingua e la
sua capacità di dire quello che è". Per la creatura piccola è la fiducia nella
madre che fa sì che "casa" possa dire molto di tutto quello che significa la
casa, e che ci sia, in generale, l'aspettativa di una corrispondenza tra parole
(segni arbitrari) e realtà.
La relazione con la madre, idealizzata e non valorizzata nella cultura
occidentale, è di tipo speciale: tiene assieme emozioni elementari e linguaggio
e si presenta in una relazione comunicativa che non è certamente pari, anzi è di
squilibrio massimo. Pure non può essere catalogata come superiore/inferiore in
quanto si regge su un elemento amoroso che viene liberamente messo in circolo.
LA LINGUA COME STRADA DI LIBERTA'
Leggendo le annate della rubrica di Pasolini su Vie
Nuove ho anche visto come negli anni '60 quella scommessa politica e culturale
di "italianizzazione dell'italiano dal basso" venga sostanzialmente sconfitta.
Pasolini segnala più volte che si sta creando sì un italiano nazionale ma
orientato non dalle classi popolari, bensì dalla classe industriale del nord.
Con le aziende di Milano e Torino come "nuove corti", ha "come principio
unificatore il principio 'segnaletico' più che comunicativo del linguaggio
tecnologico.".
Questa tendenza col passare del tempo è diventata ancora più accentuata e
pervasiva, in un regime sempre più metaforico in cui l'azienda stessa è
diventata una metafora universale, applicabile indifferentemente a scuole,
università, ospedali, ferrovie, amministrazioni comunali, parlamenti. Nella
scuola per es. con i processi riformatori di questi ultimi anni è entrato un
linguaggio pieno di metafore economicistiche (cliente, risorse umane, funzioni
obiettivo, griglie, indicatori, criteri ecc.) che rende quasi indicibile
l'esperienza di insegnare. D'altra parte l'innovazione tecnologica procede con
tale rapidità che è esperienza comune e quotidiana a qualunque età essere in una
situazione di continuo apprendimento di nomi segnaletici, vuoi per usare il
nuovo modello di ferro da stiro o di cellulare, vuoi per imparare ad usare
internet, il computer e gli altri aggeggi elettronici che riempono le nostre
case. In questo tipo di apprendimento la comunicazione si riduce a scambi veloci
e formali. Io certe volte mi sento quasi ridotta a una scimmia ammaestrata:
imparo parole che mi addestrano a compiere procedure di cui in realtà non
capisco il senso.
Tutte e tutti soffriamo di un grave impoverimento del linguaggio, di una
banalizzazione degli scambi umani, di una frantumazione linguistica in linguaggi
tecnici e specialistici che producono perdita di senso.
Se l'afasia è la malattia simbolica del nostro tempo, essa colpisce soprattutto
le persone più giovani: la lingua che è ciò che ci fa umani, viene percepita
come una sorta di strumento inservibile per entrare in rapporto con il mondo. Le
persone giovani sono, però, anche quelle che più fortemente portano il bisogno
di esserci nel discorso con la loro soggettività, di potersi esprimere in modo
significativo, in quanto ai loro occhi è già tramontato l'intreccio tra
linguaggio e relazioni di potere. Non capiscono neppure la logica del comando,
del vincere o perdere con le parole, non hanno neppure idea che ci si può
mimetizzare dietro parole altrui e fingere di parlare. Non si adeguano a queste
logiche ormai in crisi e se ne stanno fuori, senza parola.
La lingua - e il suo insegnamento nelle scuole - mi sembra un vero e proprio
campo di battaglia. E' di nuovo attualissima una scommessa politica sulla
lingua. A differenza dei tempi di don Milani, nel padroneggiare la parola non è
più in gioco la sovranità come uguale, o il potere in democrazia, di cui parlano
i ragazzi di Barbiana; in gioco oggi è la libertà, trovare la strada di una
parola che non si uniformi nel già pensato, nel già detto, ma sappia rimanere
presso di sé, intessi un andirivieni tra parola ed esperienza, e sappia
collocarsi in uno scambio più libero con gli altri e le altre.
Ora che sono saltati gli automatismi delle relazioni complementari e
simmetriche, nella frantumazione e nell'alienazione linguistica che caratterizza
la nostra epoca, avanza la possibilità di pratiche linguistiche più libere. E'
come dire reimparare a parlare.
Il primo passo è la rinuncia a dire tutto, per dire "qualcosa", che faccia corpo
vivo con la propria vita, con la propria esperienza, con il proprio sentire
emozionale. E per il resto affidarsi alla potenza della lingua negli scambi
umani. Comunicare è una danza complicata che si svolge nel tempo, fatta non solo
di parole. Gesti, risposte mancate, spiazzamenti, ripensamenti, avvicinamenti e
allontanamenti, ambiguità, intoppo che fanno capire, conflitti, sono solo alcuni
degli infiniti passi di relazioni più libere.
In questo passaggio che avviene dentro a ciascuna, ciascuno di noi, la mutezza,
il silenzio è una risorsa, come invita a considerare Luisa Muraro nell'Allegoria
della lingua materna. Veniamo dal silenzio, dice, ciascuno, ciascuna ha
cominciato essendo una creatura piccola che non sapeva parlare e attivava tutto
il suo essere per poter comunicare. Il silenzio è "la segreta risorsa di tutti i
discorsi e di tutte le parole, attingibile grazie alla prima lingua, quella con
cui abbiamo imparato a parlare". Abbiamo per leva la grande risorsa della lingua
materna che è sempre pronta a riaprirsi, rimane vicina alla "sostanza corporea"
finché è viva.
Anche a scuola è possibile andare a un rapporto più libero tra la lingua che
parliamo e le emozioni che viviamo e aprire per noi e per i nostri studenti e le
nostre studentesse spazi di libertà e di soggettività nel discorso. Posso
cominciare io a cambiare il modo di entrare in comunicazione con loro. Se sono
consapevole che le frasi che pronuncio o che scrivo dicono qualcosa di chi
parla, questo aspetto è, in relazione, una possibilità illimitata di cambiamento
del proprio modo di parlare. Offre anche la possibilità di dialogare su quei
tratti che emergono dal parlare e dallo scrivere dei ragazzi e delle ragazze. Se
è tramontata in me l'idea del comando e del controllo, l'aver a cuore la
relazione con l'altro, fa da mediazione interiore per cambiare lo sguardo sulla
realtà. Si apre una ricerca di parole che non umilino, non chiudano in gabbie ma
creino le circostanze per lasciar esprimere una parola propria.
LA SOGGETTIVITA' RELAZIONALE
Lettera a una professoressa è scritta in prima
persona. Nella premessa si legge: "A prima vista sembra scritta da un ragazzo
solo. Invece gli autori siamo otto ragazzi. Altri nostri compagni che sono a
lavorare ci hanno aiutato la domenica." L'arte dello scrivere per i ragazzi di
Barbiana coincide con la "scrittura collettiva". Procedono così: tengono sempre
in tasca un notes e appena viene un'idea prendono un appunto su un foglietto
scritto da una parte sola. Poi mettono tutti i foglietti sul tavolo, scartano i
doppioni e fanno dei monti (capitoli) e monticelli (paragrafi) e nasce una
schema, provano varie stesure con forbici e colla e poi comincia la gara per
togliere parole difficili, bugie, frasi troppo lunghe. Infine fanno leggere il
testo a varie persone e si modifica ancora fino alla stesura definitiva.
L'idea della scrittura collettiva nasce a don Milani dall'incontro con Mario
Lodi che andò a trovarlo a Barbiana e infatti il primo tentativo fu proprio una
lettera indirizzata ai suoi allievi. Nella lettera di accompagnamento don Milani
racconta gli effetti straordinari della scrittura collettiva in quanto il testo
definitivo supera per maturità quella dei singoli partecipanti. Ne scaturisce un
testo che è "al livello culturale dell'orecchio di questi ragazzi, non a livello
della loro penna o della loro bocca". Capisco che con questo tipo di scrittura
don Milani ottiene un potenziamento e un rafforzamento di soggettività,
attraverso un processo per cui chi parla perde la sua differenza individuale a
favore della costruzione di un io collettivo che è più della somma dei singoli
io. Capisco anche che il prodotto finale interessa a don Milani più di quello
che accade nello scambio tra i soggetti singoli.
Pur ritenendola una bella pratica di scrittura, dal punto di vista simbolico
questa operazione mi suscita forti perplessità e mi sono domandata perché
sentano il bisogno di un rafforzamento enfatico del soggetto. In una lettera a
Giorgio Pecorini proprio sulla pubblicazione della Lettera si trova un possibile
movente: vincere in una sorta di competizione linguistica con le classi
privilegiate. Don Milani scrive: "Tutti sanno scrivere purché lo vogliano. E'
solo un problema di non pigrizia. Così la classe operaia saprà scrivere meglio
di quella borghese. E' per questo che io ho speso la mia vita e non per farmi
incensare dai borghesi come uno di loro.". In effetti, se questo è il movente,
solo un soggetto rafforzato è in grado di competere e vincere nella gara con la
classe borghese. Una simile gara è una delle molle profonde nella stesura del
testo, se ne sente l'eco anche in un'altra lettera di don Milani a due ragazzi
all'estero in cui racconta dell'incontro con gli statistici per la parte che
riguarda le bocciature e si compiace dello spettacolo di Tranquillo -così era
soprannominato il ragazzo- che "si mangia gli statistici come panini".
Da questi indizi capisco che sottostanno alla Lettera tipi di relazioni
caratteristici del rapporto intramaschile, dove c'è sempre una rivalità in
gioco, che è la traduzione della rivalità simbolica tra padre e figlio, dove la
stessa idea del tempo fa parte di una catena in cui si prevale sia nei riguardi
di chi viene prima che di chi viene dopo.
Don Milani la interpreta nel modo più generoso. E' stato infatti spesso accusato
di essere autoritario con i suoi ragazzi, ma forse questo non è vero; è vero
piuttosto che ha una concezione del rapporto pedagogico fortemente
caratterizzata dai tratti del rapporto tra maschi. In un'intervista di Neera
Fallaci al prof. Agostino Ammannati sul tema dell'autoritarismo, il professore,
che fu l'aiutante numero uno del priore nella scuola di Barbiana, ricorda che
don Milani diceva: "Il fine ultimo di ogni scuola è tirar su dei figlioli più
grandi di lei, così grandi che la possano deridere."
Leggendo questa frase e rileggendo la Lettera sento una più profonda assenza
delle ragazze dalla scuola di Barbiana, anche se tre ragazze la frequentarono,
ed è un'assenza simbolica. E' un orizzonte da cui manca quasi tutto quello che
ho cercato per me nell'ordine simbolico della madre: la riconoscenza, la
contiguità, il sorriso.
Io - e sono una donna - mi trovo molto a disagio nelle gare per la supremazia.
Il mio desiderio più vivo è poter esserci nel mondo e nella parola con la mia
singolarità, ma non da sola, dentro a una trama di relazioni, che vivono dentro
e fuori di me e che mi orientano. Così come è la vita stessa di noi esseri
umani, una specie che non sopravvive e non impara a parlare se privata di
rapporti nella primissima infanzia.
Sulla scelta di scrivere con un io collettivo misuro la distanza più grande che
mi separa oggi da don Milani, per le implicazioni che ne vedo nella formazione
della soggettività di persone più giovani. La soggettività è un processo
relazionale e avviene nel linguaggio. L'io, il soggetto del discorso, si
costituisce in relazione a un tu, è intrinsecamente relazionale, non è un
soggetto collettivo e neppure solipsistico. L'altro, l'altra, anche se creatura
piccola, è uno sconosciuto, una sconosciuta irriducibile a sé e alla propria
esperienza. Quello che più mi preme quando sono in classe con ragazzi e ragazze
è ritessere il filo tra ciò che sono e le infinite risorse della lingua, perché
ne diventino abitanti ciascuna, ciascuno con il suo proprio nome. Poter parlare,
tenendo conto di ciò che ci muove dentro, dei fatti, del mondo, delle parole
altrui, dona una libertà che non può essere portata via.
Le ragazze e i ragazzi di oggi crescono e imparano a comunicare in un mondo
occidentale basato sull'avere più che sull'essere, in cui sembra che la
soddisfazione maggiore sia possedere oggetti, consumare oggetti. Nell'occidente
privilegiato manteniamo uno stile di vita ricco al prezzo altissimo della guerra
endemica, della povertà di intere popolazioni, di malattie che non si debellano,
della mortalità infantile nel terzo mondo. Dopo la tragedia delle torri
newyorchesi alla mia coscienza diventa ogni giorno più insostenibile la
consapevolezza di questo squilibrio e sono alla ricerca di qualcosa che abbia la
forza e la potenza del denaro. E interrogando la mia vita e il mio cuore trovo
che solo la parola ha questa forza. Esserci nel discorso è un modo grande di
stare al mondo, un modo che è anche alla portata di tutti, non ha un prezzo, ma
soddisfa più dell'ultimo inarrivabile oggetto sfornato dall'industria di
consumo. Esserci nel discorso è un modo di comprendere meglio sé e il mondo, e
scoprire che siamo differenti e scoprire perfino che ciò che ci fa differenti è
anche il meglio che abbiamo da darci.