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Umberto Galimberti:
Dr. Sergio e Mr. Cofferati Tratto
da “L’espresso”, n.44, 2005
l problema non è
di stabilire se la legalità è un valore di destra o di sinistra, e nemmeno
quello di schierarsi pro o contro Cofferati, ma di vedere che tipo di problemi
sollevano le ordinanze del sindaco di Bologna alle nostre coscienze beate, use
ad assopirsi nelle visioni del mondo che le ideologie offrono con generosità,
impedendoci di vedere come è davvero il mondo, come cambia, e che posizione
dobbiamo assumere di fronte ai suoi radicali mutamenti.
Una prima contraddizione in cui tutti ci veniamo a trovare, e che le ordinanze
di Cofferati evidenziano, è quella tra "il mondo della vita" e "il mondo della
legge". Tutti stiamo dalla parte del mondo della vita perché è bello, perché a
regolarlo è l'anarchia del desiderio che conosce solo il principio del piacere,
dove basta desiderare per avere. Memoria infantile. Fissazione a un'età da cui,
se non ci fossimo evoluti, non saremmo divenuti adulti.
È bello bere tutti insieme la birra in piazza facendo tutto il rumore che ci
piace, lasciando le lattine e quant'altro sul selciato. È bello. Non si può
negare. Così come non si può negare che è bello e anche facile occupare una casa
abusiva semplicemente perché se ne ha bisogno, trascurando in pari tempo chi,
come noi, ne ha altrettanto bisogno, ma non ne ha la forza. È bello vivere tutti
assieme tra occupanti, tra gente che si sente dalla stessa parte, come i bambini
quando fanno banda o gruppo. È bello. Ma non è adulto.
Il mondo della vita ti porta anche gli immigrati in casa. E siccome gli
immigrati valgono meno della merce che producono e comunque hanno minor
possibilità di circolazione di quanta non ne abbiano i beni da loro prodotti,
con loro si può fare ciò che si vuole. Li si può impiegare regolarmente, oppure
in nero, li si può cooptare nelle forme del caporalato che li assolda a
giornata, oppure per altri mestieri che vanno racket allo spaccio. Il mondo
della vita è che questo ed è per vivere che gli immigrati si adattano a questo.
Dietro le loro facce che sembrano icone della sofferenza, c'è chi
nell'illegalità li usa per fare gli affari suoi, sporchi o puliti che siano.
Il mondo della vita è variopinto e ricco ospita tutte le forme dell'esistenza
che riescono a trovare espressione, ma senza regole è possibile la loro
convivenza? Non dimentichiamo che la regola è l'unico argine al sopruso, che
tale rimane anche quando si presenta sotto le forme del bisogno, della
necessità, o addirittura della carità. Anche la mafia, fuori dalla legalità, dà
lavoro ai figli della sua terra, viene incontro al bisogno, alla necessità, e se
volete anche alla carità.
Oltre alla contraddizione tra il mondo della vita e il mondo della legge, le
ordinanze di Cofferati mettono opportunamente in luce la stridente
contraddizione, che la nostra assopita coscienza fatica ad avvertire, tra il
"mondo delle idee" e le nostre "pratiche di vita". Davvero riusciamo a
sopportare tutto quello che le nostre idee predicano? La loro predica la
conosciamo: dobbiamo assistere con piacere ai giovani che bevono la birra in
piazza fino a tarda ora perché è segno di socializzazione, dobbiamo capire
quelli che occupano la case perché gli affitti sono troppo elevati, dobbiamo
accogliere gli immigrati, trovar loro un lavoro e una sistemazione, e tollerare
che nel frattempo ci lavino i vetri puliti delle nostre automobili per consentir
loro di sbarcare il lunario. Tutto giusto, tutto bello, tutto vero. Ma ce la
facciamo? Davvero le nostre forze di sopportazione sono all'altezza delle nostre
idee, o abbiamo posto l'asticella delle nostre idee troppo in alto per sentirci
nobili, elevati e soprattutto giusti, ma assolutamente inadeguati per quanto
riguarda i margini di tolleranza che la nostra vita vissuta ci concede? Certo è
bello sentir parlare per strada l'arabo, il cinese, il bengalese, mescolati al
bolognese, come si mescolano i colori differenti della pelle e degli occhi che
si incrociano. Si ha la sensazione tangibile di essere entrati davvero nella
modernità, nella società complessa, nella globalizzazione che non è solo
Internet o movimento di capitali, ma incrocio di lingue, mescolanze di odori,
facce diverse da quelle patinate della pubblicità.
Ma poi quando ci capita di storcere il naso perché nauseati dall'aroma che
proviene dal ristorante cinese sotto casa, quando esitiamo a salire in ascensore
con due nigeriani per altro gentili, quando imprechiamo per la scarsa igiene e
il degrado delle nostre vie lastricate di lattine di birra e mozziconi di
sigarette con espressioni più vicine al razzismo che al semplice disagio, non ci
viene il sospetto che le nostre idee siano troppo accoglienti e filantropiche
rispetto alla nostra capacità di sopportazione, quasi che il nostro corpo si
rifiutasse alla generosità delle nostre idee?
Non abbiamo alle volte concepito idee troppo grandi rispetto alle nostre
capacità? E queste idee non ci piombano addosso per sconfiggerci intimamente?
Non è meglio che un po' di legalità abbassi l'asticella dove abbiamo collocato
le nostre idee filantropiche per renderle compatibili col grado di tolleranza di
cui siamo di fatto capaci, ma non oltre?
Le ordinanze di Cofferati hanno dunque messo in evidenza due contraddizioni
rimosse dalle nostre coscienze beate e assopite, due limiti che il mondo della
legge pone opportunamente al mondo della vita per renderla praticabile, e che le
pratiche di vita pongono al mondo delle nostre idee che sono tanto più
filantropiche e generose quanto più siamo certi che nessuno ce ne chiede
l'attuazione. Ma c'è un terzo elemento che non è una contraddizione, ma un
rischio da cui le ordinanze di Cofferati tentano di metterci al riparo: il
rischio della "deterritorializzazione" come risvolto negativo della
globalizzazione. Per deterritorializzazione intendo quel processo (accompagnato
dalla percezione diffusa che siamo solo all'inizio) che traduce le grandi città
in agglomerati di sconosciuti, senza più quel tessuto sociale che creava quel
rapporto fiduciario tra gli abitanti del territorio i quali, se anche non si
conoscevano, sapevano di sottostare a quella legge non scritta che era l'uso e
il costume degli abitanti di quella città. Già da vent'anni i demografi che, al
pari dei geologi nessuno ascolta perché gli uni e gli altri parlano di tempi che
non sono l'oggi e il domani, avevano annunciato che nel 2030 i quattro quinti
dell'umanità si sarebbero raccolti in 30 città. E questo cosa significa?
Significa che le città avrebbero perso i loro connotati e sarebbero diventate
pure estensioni di uomini, concentrati l'uno a fianco dell'altro, con l'unico
vincolo che è il procacciamento del denaro. Non più un denaro prodotto dalle
arti e dai mestieri del territorio, ma un denaro da tutto sradicato, che ha nei
confini del territorio il suo maggior ostacolo.
Già oggi merci e denaro percorrono le vie del mondo più liberi dell'uomo, e
rispetto a loro l'uomo trova il proprio riconoscimento solo come funzionario
delle merci e funzionario del denaro. Funzionari legali come tutti quelli che
vanno in fabbrica o in ufficio, funzionari illegali come quelli che, ai bordi
della città, premono con le loro pratiche di capitalizzazione selvaggia che da
sempre sono la prostituzione, l'usura, il commercio della droga e delle armi.
Ma quando il denaro legale o illegale che sia, diventa l'unico vincolo di
convivenza di quegli agglomerati di varia umanità che, senza più usi, costumi e
tradizioni comuni, solo per pigrizia mentale continuiamo a chiamare "città",
allora è prevedibile che il tessuto di convivenza si dissolva e l'azione
criminale, se non gesto quotidiano, rischia di diventare gesto frequente.
Forse le ordinanze di Cofferati tentano un'estrema difesa del territorio con la
specificità dei suoi usi, costumi e rapporti fiduciari, contro il processo di
deterritorializzazione che diventa irreversibile quando il denaro, e solo il
denaro, assurge a unico generatore simbolico di comportamenti, mentalità,
relazione fra gli uomini. E tutto ciò nel tentativo, non si sa quanto utopico o
realistico, di consentire a chi viene dopo di noi di riconoscersi ancora nella
specificità di una città, e non nell'anonimato di un amorfo agglomerato umano,
dove non solo gli immigrati, ma gli stessi abitanti della città faticheranno a
reperire la loro identità e la loro appartenenza.