MICHELE AINIS Welby: se il medico sostituisce
il giudice
LA STAMPA 2 FEBBRAIO 2007
Sicché l’Ordine dei medici di Cremona ha infine assolto Mario
Riccio, l’anestesista che nel dicembre scorso aiutò Welby a porre
termine alle proprie sofferenze. Quale lezione se ne deve trarre? E
che significati assume questa decisione per i molti casi analoghi
che s’annidano in ogni angolo d’Italia, e che silenziosamente
reclamano giustizia, fuori dai riflettori dei mass media?
In primo luogo che la giustizia non sempre coincide con un giudice:
può ben essere un medico, un ordine professionale, a decretarne il
responso. E non è detto che sia un male, tanto più quando i giudici
- come ha fatto a suo tempo il giudice di Roma - se ne lavano le
mani, invocando un vuoto di diritto. Ma il diritto invece esiste,
benché nella fattispecie non coincida con la legge dello Stato; e
anche questo non è affatto un male, nella società delle 50 mila
leggi che frugano in ogni cassetto delle nostre private abitazioni.
Perché è un diritto frutto del consenso, dell’autoregolamentazione
dei soggetti cui esso stesso si rivolge. È il codice deontologico
dei medici italiani, approvato nell’ottobre del 1998: sono 79
articoli che evidentemente dettano una precisa soluzione ai dubbi
artificiali dei quali spesso si nutre la politica. E che a loro
volta s’ispirano a un sentimento di pietà, al rispetto per la
dignità dei malati terminali, nonché alla massima attribuita ad
Esculapio: «Non si deve curare, come persona non utile né a sé né
allo Stato, chi non può vivere il tempo fissatogli dalla natura».
È il caso dell’articolo 37, che censura ogni terapia tesa a
procurare sofferenze inutili e strazianti. Dell’articolo 34, secondo
cui il medico ha il dovere d’attenersi alla volontà del malato.
Dell’articolo 14, che vieta l’accanimento terapeutico. Dell’articolo
32, che reclama il consenso informato del paziente, e obbliga ogni
medico a interrompere le cure in caso di rifiuto. E infine
dell’articolo 36, che proibisce qualsiasi trattamento sui malati
orientato a provocarne «direttamente» la morte.
Ma nella vicenda di Piergiorgio Welby non c’è stata eutanasia, ha
stabilito - unanime - il collegio di Cremona. C’è stata viceversa
interruzione del trattamento sanitario: un’interruzione lecita e
anche doverosa, quando a richiederla sia il paziente stesso.
Definizione corretta, e tuttavia a suo modo edulcorata. Perché nel
linguaggio tecnico l’eutanasia si declina in una doppia direzione:
c’è quella attiva, e c’è quella passiva. E quest’ultima consiste per
l’appunto nella sospensione dei trattamenti medici che tenevano il
paziente in vita. Da oggi sappiamo che è possibile. |