Fatti e commenti - marzo 2007
Decisioni di fine vita
Sul contributo del card. Martini
in Aggiornamenti sociali n. 3 2007
Carlo Casalone S.I.
di «Aggiornamenti Sociali»
In occasione del suo ottantesimo compleanno il
card. Carlo Maria Martini ha consegnato alcune riflessioni sulla
fine della vita a un articolo pubblicato sul supplemento domenicale
de Il Sole 24 Ore con il titolo «Io, Welby e la morte»1.
Il testo ha sollevato diverse reazioni, rimbalzate anche sulle
pagine dei quotidiani. Il dibattito ha messo in evidenza che
l'argomento è lontano dal ricevere una interpretazione univoca: le
posizioni sul tema sono ricche di sfumature, che toccano però realtà
umane fondamentali. Il testo integrale dell'articolo è reperibile
nella rubrica «Documenti» in questo stesso numero di
Aggiornamenti Sociali (pp. 227-229). Per aiutarne la lettura e
contestualizzarne le affermazioni, data la molteplicità delle
opinioni, esaminiamo alcuni snodi problematici.
1. Temi dibattuti
Nella prima parte dell'intervento il cardinale manifesta la propria
gratitudine per le cure mediche che, con sollecitudine e competenza,
ha ricevuto nel corso della propria malattia. Constata però che,
purtroppo, questa non è l'esperienza di tutti, poiché esiste una
disparità nell'accesso alle prestazioni sanitarie. Si pone
quindi un problema di tipo organizzativo per superare questa
discriminazione, in cui giocano motivi di convenienza economica.
Certo la sanità non può prescindere dagli aspetti economici, ma non
può neanche lasciar prevalere al suo interno la sola logica del
mercato, basata sul vantaggio remunerativo e non sulla
corrispondenza ai bisogni effettivi né sulla centralità del bene del
malato. Dopo questa premessa l'articolo affronta alcuni problemi
riguardanti le decisioni alla fine della vita: tre i punti che sono
stati sottoposti a più intensa discussione.
a) Eutanasia e limitazione delle terapie
La distinzione tra eutanasia e rinuncia a terapie sproporzionate,
cioè la loro non attivazione o sospensione, costituisce un primo
nodo da chiarire. Pur nella brevità di un testo destinato al
supplemento di un quotidiano, notiamo la precisione della formula
utilizzata dal cardinale: eutanasia è «un gesto che intende
abbreviare la vita, causando positivamente la morte». Si evocano in
sintesi i due capisaldi irrinunciabili perché si possa parlare di
eutanasia. Da una parte l'intenzione, incorporata nell'agire.
Senza questa componente l'atto non può neanche essere qualificato
come morale. È atto pienamente umano solo quello compiuto in modo
consapevole, libero, responsabile e pertanto sorretto
dall'intenzione: se manca uno di questi elementi l'agire non attiene
alla sfera morale. Risulta allora secondario se l'intenzione di
abbreviare la vita si realizzi tramite un'azione o tramite
un'omissione, tenuto conto che entrambe discendono da una decisione,
di intervenire o di astenersi, posta dal soggetto. È questa
scelta positivamente attuata, nel suo esprimersi operativo
effettivamente capace di abbreviare la vita, che costituisce il
secondo caposaldo. Pertanto l'eutanasia e la rinuncia a trattamenti
per ragioni legittime hanno materialmente un identico risultato dal
punto di vista esteriore, ma possiedono un significato completamente
differente sotto il profilo etico. La ferma determinazione che
l'eutanasia così precisata è sempre illecita - inclusa quindi la
modalità «omissiva», cioè ottenuta sospendendo o non iniziando una
terapia proporzionata (o dovuta) - percorre tutto lo svolgimento del
testo del cardinale.
Inoltre il testo sembra rinviare alla distinzione tra uccidere e
lasciar morire, una differenza che non è da tutti riconosciuta
come moralmente rilevante. Per esempio nella prospettiva
dell'utilitarismo - che valuta l'agire solo in base agli effetti
procurati e per questo definita consequenzialista - si considerano
moralmente equivalenti due ordini di causalità, uno che fa capo
all'agire umano e l'altro che dipende dal naturale decorso della
malattia. La distinzione è invece da considerarsi discriminante,
poiché la sospensione delle cure non provoca la morte, ma smette
piuttosto di combattere i fattori che ne sono causa. Il che non
significa che l'omissione delle terapie non possa configurarsi in
talune situazioni come eutanasia, ma questo si dà precisamente
qualora la sospensione riguardasse mezzi appropriati (o
proporzionati).
b) Fino a quando curare?
Ecco allora il successivo punto controverso: quali sono i criteri
che consentono di giudicare la proporzionalità delle terapie? Qui la
discussione si svolge su due versanti: uno relativo alle
caratteristiche dei mezzi terapeutici, l'altro riguardante il
soggetto abilitato a esprimere il giudizio definitivo nelle
delicate situazioni di fine vita. È soprattutto a questo secondo
aspetto che si rivolge l'attenzione del cardinale.
La Dichiarazione sull'eutanasia (DE) della Congregazione per
la dottrina della fede (1980), confermando una lunga tradizione
ribadita già da Pio XII, ha chiaramente attribuito il compito di
prendere decisioni «alla coscienza del malato o delle persone
qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici» (DE, n.
4). Il malato ha quindi un ruolo di primo piano nelle scelte
riguardanti le cure. Egli non deve però essere lasciato
nell'isolamento, ma accompagnato nel contesto della relazione tra
medico e paziente intesa come alleanza terapeutica. Il richiamo al
discernimento fatto dal card. Martini sembra inscriversi esattamente
in questa linea. Rimane inoltre il problema di come far fronte alle
situazioni in cui il malato non è più in grado di esprimersi, in
quanto privo di coscienza. Si pone la questione di come accedere
alle volontà di un paziente che non può più manifestare le proprie
preferenze quanto a trattamenti sanitari e di come metterle in opera
da parte del medico senza essere ingiustamente sanzionato. È a
proposito del rilievo da attribuirsi alla coscienza e alla
volontà del malato, nel suo manifestarsi attuale o previo alla
perdita di competenza, che emerge l'accenno del cardinale alla legge
francese, come esempio da prendere in considerazione.
c) Il riferimento alla legge francese
Pur non esente da ambiguità, la legge francese del 22 aprile 2005 è
stata considerata, anche da esponenti ecclesiali, condivisibile
negli obiettivi ed espressione di una sintesi interessante per una
società in cui è necessario comporre vedute molto diverse2.
In questo il card. Martini riecheggia la posizione della
Conferenza Episcopale Francese, espressa nel comunicato stampa
del 13 aprile 2005, a firma del suo presidente mons. Jean-Pierre
Ricard3. Qui si affermava, a proposito della sospensione
delle cure, che nel caso il malato rifiuti ogni intervento, salvo le
cure palliative, i medici dovranno sottomettersi a tale diniego,
dopo aver percorso fino in fondo la via del dialogo. Negli altri
casi andranno mantenute le cure ordinarie, con particolare
riferimento all'alimentazione (cfr il riquadro a p. 225).
2. Vita umana e libertà
La discussione sul tema specifico della fine della vita viene posto
dal card. Martini nella più ampia prospettiva del senso
dell'intera esistenza, richiamata alla conclusione del suo
intervento. Qui si rinvia alla concezione della vita umana che è
propria del credente e che egli aveva già esplicitata nel dialogo
con il prof. Marino, pubblicato su L'Espresso4.
In quella sede il cardinale aveva affermato: «la prosecuzione della
vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto.
Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che
nella visione cristiana e di molte religioni comporta una apertura
alla vita eterna che Dio promette all'uomo. Possiamo dire che sta
qui la definitiva dignità della persona. [...] La vita fisica va
dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto.
Nel vangelo secondo Giovanni Gesù proclama: "Io sono la risurrezione
e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà" (Giovanni
6, 25)». Si tratta peraltro di una impostazione tradizionale nel
pensiero della Chiesa. Già Pio XII affermava: «La vita, la salute,
tutta l'attività temporale sono infatti subordinate a fini
spirituali»5. E Giovanni Paolo II - dopo aver ricordato
che «L'uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le
dimensioni della sua esistenza terrena, perché consiste nella
partecipazione alla vita stessa di Dio» - ribadiva la «relatività
della vita terrena», precisando che essa «non è realtà "ultima", ma
"penultima"»6. Il rispetto per la vita umana non è quindi
dovuto a una sacralizzazione della sua dimensione biologica, ma alla
relazione d'amore con Dio che la vita testimonia e rende possibile e
alla sua capacità di anticipare simbolicamente la pienezza della
vita eterna, che sola vale incondizionatamente.
Questa relazione con Dio ci viene concretamente mediata nelle
relazioni interpersonali. Riflettendo sull'esperienza della propria
vita, in quanto ricevuta da altri e non frutto di una decisione
autonoma, emerge l'originaria passività che la contraddistingue e
l'esigenza di tenere conto delle relazioni che ci legano agli altri:
la nostra identità personale è costitutivamente relazionale7.
La nostra vita non è pertanto riducibile solamente a oggetto di una
decisione individuale e autoreferenziale, poiché ne siamo
responsabili anche nei confronti degli altri. Il principio di
autonomia è irrinunciabile, ma relativo - anzi relazionale - e
non assoluto. La libertà umana è sempre situata e condizionata: non
si è messa al mondo da sola, ma trova negli altri esseri umani la
propria origine e il proprio compimento. Sotto questo profilo, i
vincoli e le condizioni che ci collegano agli altri, anche se
talvolta - quando contrastano la spontanea esuberanza dell'io - sono
percepiti come ostacolo o impedimento, sono componente fondamentale
della struttura del soggetto: in loro assenza la libertà non
potrebbe attuarsi né, addirittura, esistere. Per esercitarsi
correttamente, essa deve quindi assumere i presupposti che le hanno
consentito di emergere e di operare: in quanto preceduta da altri è
responsabile di fronte a essi e chiamata a divenire capace di
convivenza e collaborazione.
Alla luce di questi riferimenti ci sembra possibile cercare e
raggiungere un'intesa sulle pratiche che il diritto sarà
chiamato a regolare. Si tratta di trovare le vie per facilitare al
morente l'incontro e l'accettazione della morte, non «di collaborare
alla sua realizzazione», di fornire un accompagnamento e «un
aiuto nel morire, non un aiuto per morire»8.
NOTE
1 MARTINI C. M., «Io, Welby e la morte», in Il Sole
24 Ore - Domenica, 21 gennaio 2007.
2 Cfr VERSPIEREN P., «La legge francese sulla fine
della vita», in La Civiltà Cattolica, 4 (2005) 353-365.
L'ambiguità riguarda il tentativo di regolamentare per via
legislativa una materia complessa che altri strumenti del diritto
avrebbero consentito di affrontare meglio. In particolare risultano
imprecisi alcuni riferimenti al mantenimento artificiale della vita
e alla sospensione dell'alimentazione e idratazione artificiali in
situazione di stato vegetativo permanente. Per la trattazione di
questo tema cfr CASALONE C., «Come decidere sulla fine della vita?
Considerazioni etiche sul "testamento biologico"», in
Aggiornamenti Sociali, 12 (2006) 811-822 (reperibile anche
all'interno del
dossier «Eutanasia»).
3 Cfr http://www.cef.fr/catho/espacepresse/communiques/2005/
commu20050413droits_malades.php
4 Cfr MARTINI C. M. - MARINO I., «Dialogo sulla vita»,
in L'Espresso, 27 aprile 2006, 52-61.
5 PIO XII, «Problemi religiosi e morali della
rianimazione» (24 novembre 1957), in VERSPIEREN P. (ed.),
Biologia, medicina ed etica, Queriniana, Brescia 1990, 432.
6 GIOVANNI PAOLO II, Evangelium vitae (1995),
n. 2.
7 Cfr CHIODI M., Etica della vita, Glossa,
Milano 2006, 42 ss.
8 VESCOVI DI FRIBURGO, STRASBURGO E BASILEA,
«Accettare la sfida della morte», in il Regno - Documenti, 1
(2007) 29.
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