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IL BARATTO DELLE ISTITUZIONI
ANDREA MANZELLA
 

 
da Repubblica - 26 marzo 2004

 
L´11 MARZO 1947 all´Assemblea costituente Benedetto Croce parlò sul progetto di Costituzione. E pronunciò la famosa esortazione: «Ciascuno di noi si ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi, col suo voto poco meditato, un pungente e vergognoso rimorso». Chissà quanti dei 156 senatori che ieri hanno votato la greve revisione di quella stessa Costituzione sentiranno un "rimorso" di quel tipo. Pochi, è da credere. Perché il dato forse più grave di questa decisione di maggioranza è stata la banalizzazione della Costituzione. La sua riduzione a oggetto di un baratto esclusivo al gruppo di governo. Un mercanteggiamento con poste che non erano idee e tesi sul costituzionalismo, ma assestamenti interni alla coalizione prevalente: con un fortissimo potere di ricatto da parte del piccolo partito di "governo e di secessione".

Il baratto delle istituzioni

Così è mancato quel respiro organico che rende una riforma degna di tal nome. Si è proceduto a pezzi e bocconi. Ora, in questo disegno appena approvato, non è che la Costituzione abbia un´altra faccia. Ha solo una faccia butterata.
Le finalità di partenza, su cui anche l´opposizione conveniva, erano quelle di completamento e di riequilibrio. Ci sono state due grandi rotture nella continuità del nostro sviluppo costituzionale. Nel 1993, la nuova legge elettorale maggioritaria; nel 2001, la nuova configurazione del rapporto tra lo Stato e le regioni. Queste due rotture richiedevano, e ancora richiedono, misure rivolte, da un lato, a moderarne gli eccessi (lo scompenso tra poteri della maggioranza e poteri dell´opposizione; le esigenze di unitarietà nell´arcipelago delle competenze tra Stato, regioni, autonomie locali). Misure, d´altro lato, di completamento (la razionalizzazione dei poteri di governo in capo al primo ministro; la trasformazione del Senato in luogo di armonizzazione degli interessi regionali). Nessuna di queste misure è stata attuata. Al contrario, si è operata una accumulazione di formule e di omissioni la cui combinazione risulta perversa. Vediamo.
L´attuale rapporto maggioranza-opposizione, il cui sbandamento è stato il più vistoso effetto della nuova legge elettorale, non è stato minimamente corretto. Sono state respinte tutte le proposte che cercavano di sottrarre, al dominio incontrollato della maggioranza le decisioni: sulle incompatibilità elettorali, sulle commissioni d´inchiesta, sulla stessa composizione delle Assemblee. Né sono state accolte le proposte sulla possibilità di ricorso di minoranze parlamentari alla Corte costituzionale, sulle garanzie ai pubblici impiegati oggetto di spoils system, sulla costituzionalizzazione di grandi aree "non maggioritarie" da affidare ad Autorità indipendenti. Tutto questo mentre, nell´altro ramo del Parlamento, s´approvava la legge di sistema radiotelevisivo che consacra la condizione di disuguaglianza dell´attuale opposizione nell´accesso alla comunicazione di massa, determinante nelle campagne elettorali.
Il riequilibrio istituzionale del rapporto maggioranza-opposizione è, insomma, ancora affidato a quello stesso regolamento parlamentare che ha consentito, a maggioranza, il "contingentamento" dei tempi di parola per una revisione costituzionale di questo tipo...
È in questo squilibrio assoluto che si devono leggere e interpretare le norme che trasformano il nostro regime parlamentare in regime elettorale del primo ministro. Qui non è la prevalenza del premier in Consiglio dei ministri il punto decisivo (anche se la formula di cipiglio adoperata per descrivere la sua funzione ha un lessico rivelatore: "determina" la politica nazionale, anziché "dirige"...). Il punto è che il sistema parlamentare è svuotato d´ogni flessibilità e viene consegnato, letteralmente, nelle mani del primo ministro. Il passaggio del potere di scioglimento della Camera dalle mani del presidente della Repubblica a quelle del premier, in un contesto di delegittimazione di contropoteri e d´assoluto sovranismo elettorale, non è tanto un rafforzamento e una stabilizzazione dei poteri di governo, quanto un impoverimento delle risorse e delle garanzie istituzionali del sistema. La lacrimosa mistica contro i "ribaltoni" è stata adoperata in eccesso: per impedire, tra un´elezione e l´altra, il potere di moderazione, di discussione, di confronto, di controllo in cui è la perdurante necessità dei parlamenti. Il capo dello Stato è ristretto "espressamente" (è detto proprio così) a un piccolo catalogo di competenze, proprio per vietargli la specifica missione - che la nostra storia costituzionale da sempre gli assegna - di alto arbitrato politico costituzionale tra governo, Parlamento, corpo elettorale.
Di fronte a questo sistema centrale così irrigidito, a un primo ministro che, tra un´elezione e l´altra, può vivere di rendita, senza Parlamento né presidente della Repubblica cui veramente rispondere, v´è il sistema regionale. Il Senato dovrebbe essere il naturale raccordo tra l´uno e l´altro sistema. Così non è. Per comporre i conflitti tra Stato e regioni - che dovrebbe essere la principale vocazione di questa Assemblea con radici territoriali - è stato ripescato il concetto d´"interesse nazionale". Ripescato, però, nella stessa errata formula, genericamente politica, con cui era stato affossato nel 2001. Allora s´era buttata l´acqua sporca (fu giusto) con la categoria giuridica (che si doveva, invece, salvare). Per dare un senso nuovo alla cosa, sarebbe stato possibile, come proposto dalle regioni, come proposto dall´opposizione, "estrarre" dall´attuale testo della Costituzione i veri contenuti dell´"interesse nazionale". Sono questi: i livelli essenziali dei diritti civili e sociali, da garantire in ogni parte del territorio della Repubblica; l´unità giuridica e l´unità economica dell´ordinamento; il riequilibrio delle risorse finanziarie. Vuota com´è, la formula è pericolosa: il nuovo Senato non riuscirà mai a utilizzarla. Ovvero, come temono le regioni, diventerà il loro "controllore".
Posto in condizioni sbagliate rispetto al suo fine principale, il Senato viene però a complicare terribilmente l´ordine delle fonti legislative della Repubblica. Un gran numero di competenze legislative, a toppe e rammendi, gli sono state via via addossate, in un confusissimo dibattito. Alle già difficili operazioni di confine nel catalogo di competenze tra Stato e regioni, s´aggiunge ora, a incrocio, quella della distribuzione di primogeniture legislative tra Camera e Senato...
È in questa incerta geografia legislativa che s´inserisce il mito della devolution. È difficile capire in questo contesto, quel che significhi giuridicamente l´aggettivo "esclusiva" usato per la legislazione regionale in materia di sanità, istruzione, polizia. Quello che si percepisce fin troppo bene è il tentativo di forzare la mano sui grandi sistemi nazionali. D´operare una secessione di fatto nelle zone costituzionali di uguaglianza: l´apparato sanitario, i programmi scolastici, i corpi di polizia. Il tutto accompagnato da grumi di "libera determinazione" di popoli e nazioni (che sarebbero oppressi dall´Italia). Come si può leggere in quello che dovrebbe essere il nuovo articolo 67 sul libero mandato parlamentare. "Ogni deputato e ogni senatore rappresenta la Nazione e la Repubblica": quasi che non vi fosse più coincidenza tra l´una e l´altra. Come si può leggere in una disgraziata norma transitoria che concede una sanatoria di 5 anni per poter frantumare le regioni esistenti senza il requisito costituzionale del referendum tra tutti i cittadini coinvolti nella separazione territoriale.
Croce, davanti all´Assemblea attonita, concluse quel discorso del marzo di 57 anni fa, «raccogliendo tutti quanti a intonare le parole dell´inno sublime: Veni, creator Spiritus, Mentes tuorum visita...». Altri tempi. Non c´era traccia di quello Spirito a Palazzo Madama, quando, trascorsi gli ultimi minuti del tempo "contingentato", l´opposizione se n´è uscita, dato che non poteva più parlare. Da qualche parte si dice ch´è stata avviata una riforma. Costituzionale.