Non sono pochi i Paesi d´Europa dove ci sono partiti indipendentisti.
Partiti che vogliono separare una o più regioni dal tessuto nazionale e
farne una entità statale a sé. Solo in Italia, però, un partito di
questo tipo è al governo. E il suo capo vi ha, ufficialmente, la carica
di «ministro per le riforme istituzionali e devoluzione». Di tutte le
anomalie italiane che questo periodo concentra, questa è certo la più
stupefacente.
Il fenomeno della nascita di partiti indipendentisti all´interno degli
Stati europei è, di per sé, abbastanza comprensibile nelle sue origini.
La storica affermazione dei grandi Stati nazionali è stata legata, si sa,
a necessità di sicurezza e di sviluppo economico e politico che
superavano le possibilità degli "staterelli" (come furono
chiamati nel nostro Risorgimento).
La
Costituzione in mano al ministro secessionista
Quando
queste necessità pratiche di confini più larghi si sono accompagnate
alle lotte per l´autogoverno contro dominanze straniere, l´idea di
nazione è divenuta mito fondativo di Stati che assorbivano in sé le
antiche partizioni territoriali.
Quando i confini degli Stati nazionali sono a loro volta divenuti troppo
stretti per il mercato e per la sicurezza, si è progressivamente definita
una linea di frontiera unica europea. E le antiche tradizioni regionali e
locali hanno ritrovato, nel più vasto spazio giuridico, una loro ragione
di nuova autonomia. Il processo federativo europeo, prima ancora di
compiersi tra gli Stati dell´Unione, ha provocato così uno straordinario
fenomeno federativo al loro interno. Negli ultimi anni è tramontato
dappertutto l´antico assetto centralista degli Stati per lasciare il
posto a forme diffuse di pluralismo territoriale. È addirittura venuto,
poco tempo fa, il momento dell´incontro a Poitiers, per un programma
comune, tra gli antichi Lander della Repubblica federale tedesca e le
nuove regioni di quella Francia da secoli modello, sia nel sistema
politico sia in quello amministrativo, di Stato accentrato. Un momento che
fa capire, meglio di cento teorie, che una ridistribuzione profonda del
potere pubblico è avvenuta, sta avvenendo in Europa.
L´Unione europea naturalmente non è estranea a tutto questo. Prima con
la sua politica di coesione territoriale che è basata precisamente sul
dialogo con i soggetti locali. Poi con la forza costituente dei suoi
principi di prossimità e di sussidiarietà che rompono la vecchia rigidità
delle competenze e creano circuiti di reciproca sostituibilità tra
governi centrali e governi periferici. Infine, con la linea di politica
normativa contenuta nei protocolli del progetto di costituzione dell´Unione,
che pone, come condizione preliminare della stessa iniziativa legislativa
europea, la valutazione del suo impatto amministrativo e finanziario sugli
enti regionali e locali.
Attenzione, però. Il processo federativo che in maniera così ampia e
varia interessa ormai le realtà sub-nazionali di tutti gli Stati d´Europa,
non è volto a ferirne l´intima unità. L´articolo 5 del progetto
costituzionale europeo usa una formula che precisa benissimo il quadro
delle relazioni tra l´Unione, gli Stati membri e le comunità
sub-statali.. «L´Unione - vi è scritto - rispetta l´identità
nazionale degli Stati membri legata alla loro struttura fondamentale,
politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie regionali e
locali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le
funzioni di salvaguardia dell´integrità territoriale».
Insomma, l´evoluzione federativa in corso non cancella né le storie né
la necessità, né le attuali dimensioni territoriali degli Stati
nazionali. Al contrario, nel grande sistema a rete che è il sistema
istituzionale europeo, gli Stati che l´hanno costruito, ne rimangono i
pilastri essenziali, i responsabili esclusivi delle reciproche
obbligazioni. Sono il punto di sintesi delle autonomie territoriali
subnazionali e, insieme, il punto di sutura con gli altri ordinamenti
statali.
Era inevitabile, tuttavia, che accanto alla giusta valorizzazione del
patrimonio regionale e locale si manifestassero anche fenomeni
indipendentistici e tentativi di frattura dell´unità storica conseguita
con la fondazione degli Stati nazionali. Le «piccole patrie» hanno così
ereditato artificiosamente, in un contesto etico e geo-politico
assolutamente mutato, le retoriche delle «nazionalità oppresse» e del
diritto all´autodeterminazione dei popoli. Sotto la spinta
autoreferenziale dei partiti regionali, si è così travestita da «causa
nazionale» qualsiasi malessere locale. E si è concepita la separazione
dello Stato come unico rimedio, anche alla più larga delle autonomie.
Ognuno può vedere da questo percorso come i partiti indipendentisti non
sono effetto del processo federativo o della regionalizzazione. Ne sono,
invece, la degenerazione o, meglio ancora, la negazione. Perché i
processi europei di autonomia territoriale sono stati concepiti per
liberalizzare forme di governo e sistemi amministrativi, mantenendo però
un raccordo moderno di funzionalità tra i mondi del locale, del
nazionale, del sovrastatuale. L´indipendentismo, la secessione, il
separatismo rappresentano la chiusura fra quei mondi, l´impossibile
autarchia, la creazione artificiosa di etnie. La "balcanizzazione"
per dirla con una parola di per sé offensiva verso nazioni amiche: qui
però riassuntiva dei disastri cui una certa ideologia di "terra e
sangue" può condurre...
Ecco perché, in nessuna parte d´Europa, è legittimato a governare, nel
governo centrale, un partito del tipo «Lega per l´indipendenza della
padania». Ecco perché un delicato processo federativo - come quello
italiano di scomposizione di competenze e di loro ricomposizione intorno
al concetto unitario di interesse nazionale - rischia ad ogni passo di
deragliare posto com´è nelle mani di tale Lega e del suo leader. E
questo non perché l´onorevole Bossi sia un incompetente o uno
sprovveduto. Ma precisamente per il contrario. Perché il ministro Bossi
fa benissimo il suo lavoro, secondo il mandato ricevuto dai suoi elettori,
cioè mai rinunciando alla effettiva secessione, ma mascherandola e
graduandola con formule dettate dalle circostanze politiche.
Chi grossolanamente tradisce i propri elettori sono semmai gli alleati
della «Lega per l´indipendenza della Padania». I collaborazionisti che
ne assecondano i disegni, minimizzandone la portata, banalizzandone gli
eccessi. O dicendo che la colpa di tutto è di chi ha dato avvio ad un
processo federativo di tipo europeo. Come se i nazionalisti corsi
potessero decidere della regionalizzazione francese, o i baschi di Herri
Batasuna di quella spagnola, o gli irlandesi del Sinn Fein, della
devolution nel Regno Unito...
È per questo che la scombinata revisione costituzionale che è davanti al
Senato - 35 articoli della Costituzione accatastati alla rinfusa - ha un
solo filo che sciaguratamente la percorre. La miccia a fuoco lento per
provocare una frattura irreparabile in tutto quello che è ancora la
struttura portante della Repubblica. Il sistema sanitario nazionale, la
scuola uguale per tutti, i corpi nazionali di polizia, la solidarietà fra
i territori a diversa capacità contributiva, lo stato di cittadinanza
sociale, la rappresentanza parlamentare unitaria: tutto questo è divenuto
relativo o incerto o negato.
Ecco perché questa cosiddetta riforma costituzionale pone - ben al di là
del bicameralismo senza Senato di raccordo, del premierato senza freni,
del maggioritario senza garanzie - una grande questione nazionale. È,
anzi, la vera questione nazionale che il berlusconismo non potrà evitare.
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