CORTE DEI CONTI
RELAZIONE
AL PARLAMENTO SUI RISULTATI DELL'ESAME DELLA
GESTIONE FINANZIARIA E DELL'ATTIVITA' DEGLI ENTI LOCALI PER L'ESERCIZIO 2000
INDICE DEL VOLUME PRIMO
Deliberazione n. 3/2002
pag. IX
RELAZIONE
Sintesi e conclusioni
pag. XI
PARTE I
Analisi generale della finanza locale
1
L’evoluzione del sistema normativo
pag. 5
1.1
1.1 L’esercizio delle funzioni amministrative nella legge costituzionale
n.3
del 2001
pag. 5
1.2 Il sistema dei controlli
pag. 6
1.3 L’ordinamento degli enti locali e la
recente riforma costituzionale
pag. 11
1.4 L’evoluzione della contabilità
pubblica
pag. 14
2
Linee di sviluppo della finanza locale
pag. 21
2.1 Le innovazioni al sistema di
finanziamento delle funzioni
pag. 22
2.2 Il federalismo fiscale
pag. 23
2.4 Il coordinamento della finanza
pubblica
pag. 27
3
Analisi dei flussi di cassa delle
amministrazioni comunali - esercizio 2001 pag.
29
3.1 Le misure incidenti sulla cassa
pag. 29
3.2 I risultati di cassa del 2001
pag. 30
4
Il patto di stabilità interno
pag. 37
4.2
Patto di
stabilità interno: la riduzione del rapporto tra il debito ed il PIL
pag.
67
4.3 Conclusioni
pag. 75
5
Le entrate correnti: il sistema delle norme
pag. 77
5.1. Linee generali
pag. 77
5.2 Quadro complessivo delle entrate
correnti
pag. 80
6
I Tributi propri: ICI e TARSU
pag. 100
6.1 L’imposta comunale sugli
immobili (ICI)
pag. 100
6.2 Tassa per lo smaltimento dei
rifiuti solidi urbani (TARSU)
pag. 109
7
La gestione delle spese di parte corrente
pag. 120
7.1 Riferimenti economico –
finanziari
pag. 120
7.2 Quadro complessivo delle spese
correnti
pag. 122
7.3 Amministrazioni provinciali
pag. 124
7.4 Amministrazioni comunali
pag. 128
7.5 Comunità montane
pag. 131
7.6 Brevi considerazioni conclusive
pag. 134
8
Struttura, movimenti e spese del personale
pag. 135
8.1 Metodo dell’indagine
pag. 135
8.3 Tendenze evolutive in tema di
assetto del personale
pag. 140
8.4 Dati di struttura e consistenza
del personale
pag. 144
8.5 Contrattazione
collettiva - Retribuzioni, costo del personale e del lavoro
pag. 150
9
La Gestione delle Entrate e delle Spese in c/capitale
pag. 167
9.1 Il quadro generale
pag. 167
9.2 Entrata
pag. 170
9.3 Spesa
pag. 175
9.4 I Risultati finanziari della
gestione
pag. 180
10.1 I risultati delle contabilità delle
autonomie locali
pag. 183
10.2 La rilevazione della Sezione
pag. 184
10.3 Considerazioni conclusive
pag. 187
11
La verifica dei risultati nelle relazioni delle giunte sui rendiconti
pag. 257
11.1
11.1 La
programmazione e la verifica dei risultati nell’ordinamento
degli enti locali
pag.
257
11.2 L’indagine della Sezione
pag. 257
11.3 I risultati dell’indagine
pag. 258
11.4 Considerazioni conclusive
pag. 269
12
Il conto del patrimonio
pag. 270
12.1 Problemi generali
pag. 271
12.3 I dati del conto
pag. 276
12.4 Considerazioni conclusive
pag. 287
PARTE II
fenomeni incidenti sugli
equilibri di bilancio
1
1
Le situazioni debitorie fuori bilancio
pag. 291
2
Le gestioni in disavanzo
pag.
310
2.1
La rilevazione degli enti in disavanzo
pag. 310
2.3
Considerazioni finali sulle gestioni in disavanzo
pag. 488
3.
Il fenomeno dei dissesti
pag. 490
3.1
3.1
Evoluzione della normativa sulle gestioni di
liquidazione
pag. 491
3.2
Il risanamento finanziario degli enti locali
pag. 493
3.3
Indagine sulle gestioni straordinarie di liquidazione
pag. 494
*****
Elenco degli enti che, alla data di approvazione della
relazione, non
avevano inviato il rendiconto
pag. 533
Come è noto, la legge costituzionale 18 ottobre 2001,
n. 3, ha apportato numerose modifiche al titolo V della parte seconda della
Costituzione; modifiche non di poco conto, ma che incidono profondamente nel
sistema disegnato dal costituente del 1947, tanto che oggi risulta addirittura
difficile –contrariamente a quanto avveniva prima– usare con il medesimo
significato i termini Stato e Repubblica, ostando al riguardo la formulazione
del nuovo art. 114 della
Costituzione.
Attualmente, infatti, lo Stato
non è più, nella misura di un tempo, l’ente pubblico esponenziale
dell’ordinamento repubblicano, ma uno dei cinque soggetti pubblici
territoriali, elencati, appunto, nel medesimo art. 114, nel quale figurano anche
i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni, nei cui confronti lo Stato si trova in un rapporto di sostanziale
equiordinazione.
Ciò posto, è da rilevare che una delle innovazioni
di maggior rilievo della legge in questione è costituita dal rovesciamento del
principio enumerativo circa le materie di competenza dello Stato e delle
regioni, nel senso che è sancita l’attribuzione alle regioni della potestà
legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione statale (commi II e IV dell’art.
117 novellato).
Sul versante delle funzioni
amministrative, sono i comuni gli enti che hanno acquisito una posizione di
marcato rilievo; e ciò principalmente perché essi sono diventati titolari, in
via generale, di tutte le funzioni di amministrazione attiva, salvo che, per
assicurarne l’esercizio unitario, le funzioni medesime non debbano essere
conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei
principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza (art.
118, I comma).
Di tali principi, quello di “sussidiarietà” è
connesso alle dimensioni territoriali, associative e organizzative dell’ente
agente, avendo comunque come elemento peculiare la più stretta vicinanza ai
cittadini interessati.
Siffatto principio opera e in senso “verticale”, e
in senso “orizzontale”, ed è temperato da quello dell’adeguatezza.
Nella prima ipotesi esso si muove sia dall’alto
verso il basso -nel senso che tutte le funzioni amministrative vanno ad
addensarsi tendenzialmente in testa al comune-, sia dal basso verso l’alto
-quando, per assicurare l’esercizio unitario delle funzioni medesime, si rende
necessario conferirle agli enti territoriali via via più grandi e meglio
attrezzati-.
Nella seconda ipotesi -relativa al principio della
sussidiarietà orizzontale- lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le
province ed i comuni devono favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini,
singoli ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale
(comma IV dell’art. 118 novellato).
Ovviamente, l’attivazione della sussidiarietà
orizzontale –vale a dire l’assegnazione dell’esercizio di funzioni
amministrative a cittadini da parte dei predetti enti territoriali- occorre che
sia preceduta da un’operazione d’intestazione delle funzioni stesse a tali
enti, sulla base della sussidiarietà verticale.
Il “principio di differenziazione” riguarda
l’allocazione delle funzioni, prendendo in considerazione le differenti
caratteristiche territoriali, demografiche, strutturali e associative degli enti
chiamati a svolgerle.
Infine, il “principio di adeguatezza” fa
riferimento all’idoneità organizzativa e strutturale dell’ente a garantire,
anche in forma associativa, l’esercizio delle funzioni.
Da quanto sopra emerge che il Comune, oggi, si trova
collocato, almeno formalmente, in una posizione operativa di privilegio rispetto
agli altri enti territoriali, presentandosi in prima istanza tutta
l’amministrazione pubblica come amministrazione comunale e derogatoria degli altri
soggetti. Bisogna risalire al 1183 – quando l’imperatore Federico I
Hohenstaufen (Rotbart) e la Lega lombarda firmarono a Costanza la Magna Charta
delle autonomie comunali – per riscontrare un riconoscimento di un così
elevato grado di dignità attribuito al più piccolo degli enti locali.
Continuando in ordine all’allocazione delle
funzioni, si osserva che il comma II dell’art.118 (novellato) attribuisce ai
comuni, alle province e alle città metropolitane la titolarità di funzioni
amministrative “proprie” e di quelle “conferite” con legge statale o
regionale, secondo le rispettive competenze.
Giova precisare che, nell’ambito delle le
“funzioni proprie”, quelle fondamentali rappresentano il nucleo essenziale
dell’ente e spetta esclusivamente allo Stato, ai sensi dell’art.117 –
comma II lettera p) – Cost., individuarle con legge.
Le “funzioni conferite” sono quelle la cui
“titolarità” nasce da leggi statali o regionali mediante specifica
attribuzione. E, trattandosi di “titolarità”, non può esservi inclusa la
“delega” –contrariamente a quanto è avvenuto con il “conferimento” di
cui alla legge n.59 del marzo 1997– atteso che, come è noto, nella delega la
“titolarità” della competenza è del delegante, il quale rimane sempre il
“dominus” della materia.
Con la conseguenza che essa delega può essere sempre
revocata.
Tra le tante modifiche arrecate al titolo V della
Costituzione dalla citata legge n.3 del 2001 c’è l’abrogazione dell’art.
125, I comma, e dell’art. 130.
Trattasi, come è noto, delle norme relative ai
controlli esterni sugli atti amministrativi, rispettivamente, delle regioni (ad
opera delle commissioni statali di controllo) e degli enti locali (ad opera dei
comitati regionali di controllo).
Le due norme in questione lasciavano al Parlamento il
compito di disciplinare i predetti controlli sia sotto il profilo della
legittimità, sia sotto il profilo del merito. E il Parlamento vi provvide
emanando nel corso del tempo diversi plessi normativi, finché, da ultimo,
abrogate le disposizioni concernenti il merito, appuntò la propria attenzione
al solo profilo della legittimità, peraltro riducendo drasticamente il numero
degli atti da sottoporre al controllo.
Ciò è avvenuto nella considerazione che il controllo
esterno di merito avrebbe finito per colpire al cuore l’essenza stessa
dell’agire autonomo.
Al riguardo, devesi sottolineare
che anche la Carta europea dell’autonomia locale – ratificata dal Parlamento
italiano con la legge 30 dicembre 1989, n.439 – è nella stessa linea. Infatti,
essa prevede soltanto il controllo di legittimità sugli enti locali, atteso che
esso non incide sull’esercizio del potere discrezionale (e, quindi, sulle
scelte operate dagli enti medesimi), ma prende in considerazione i soli
parametri di tipo giuridico.
Orbene, è in tale situazione che è venuta ad
impingere la più volte citata legge costituzionale n.3 del 2001, la quale ha
tagliato in radice le due predette disposizioni contenute nella Costituzione del
1948. Per cui, si è determinato un vuoto nel sistema dei controlli esterni
previsti dagli artt. 125, comma I, e 130 della stessa Costituzione,che erano le
sole norme legittimanti, in via diretta, le disposizioni normative di grado
inferiore regolatrici dei controlli esterni degli atti amministrativi di regioni
ed enti locali.
Per vero, deve convenirsi che l’abrogazione di tali
norme si appalesa coerente con la ridefinizione di autonomia degli enti
territoriali minori, la cui accentuazione è stata chiaramente voluta dal
legislatore costituzionale del 2001.
Del resto, da tempo ormai il legislatore ordinario e,
per certi versi, la stessa Corte costituzionale avevano intrapreso un indirizzo
che, mentre evidenziava la scarsa congruità di un sistema di controlli esterni
orientati all’accertamento della legittimità dei singoli atti, privilegiava
un sistema di controlli interni a ciascun ente pubblico in cui avessero adeguato
rilievo i profili dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità
dell’attività amministrativa, la quale, peraltro, è, come è noto, una
coordinazione funzionale di atti singoli, oltre che di attività materiali e di
comportamenti vari.
Non pare esistano dubbi circa la permanenza dei
controlli interni, i quali sono svolti nell’interesse delle amministrazioni
pubbliche interessate. Essi non hanno alcun aggancio diretto a norme
costituzionali, ma rispondono all’esigenza che ogni ente pubblico avverte di
autocontrollarsi e, quindi, di creare a tale scopo una serie di sensori interni
per correggere da sé, eventualmente, le proprie disfunzioni.
Il problema, invece, si pone a proposito dei controlli
esterni, che, come è noto, sono svolti nell’interesse dell’ordinamento
generale.
Al riguardo, due pare siano le ipotesi in campo. Una,
che vuole che, una volta venute meno le norme legittimanti di livello
costituzionale (artt. 125 e 130), anche quelle di grado inferiore debbano essere
considerate caducate in via derivata.
L’altra, che considera ancora in vita le norme di
settore pur essendo venuto meno l’appoggio diretto alla Costituzione.
Comunque, la prima ipotesi fa anche leva sul fatto che
la Corte costituzionale (sentenza n.62 del 1973) ha considerato di carattere
generale e tipico i controlli di cui agli abrogati artt. 125 e 130, “i quali
sono, anche per la coscienza comune e per la pratica amministrativa, i controlli
quasi per antonomasia, che, con la loro presenza, le loro modalità di
applicazione e le varie intensità di cui sono di volta in volta dotati,
condizionano nel loro complesso le autonomie degli enti territoriali e
concorrono a definirne la posizione nell’ordinamento giuridico”.
Di conseguenza, venuta meno la
copertura costituzionale, taluni ritengono che le norme regolatrici di rango
inferiore abbiano perso la loro legittimazione, anche in quanto non coerenti con
l’ormai rafforzata condizione di autonomia degli enti nei cui confronti
dovrebbero essere applicate.
Per altro verso, si può obiettare che tale
circostanza attenuerebbe l’accertamento del rispetto della legalità
nell’esplicazione dell’attività amministrativa di regioni ed enti locali;
legalità che è immanente in tutto l’ordito costituzionale.
Si determinerebbe, inoltre, un’ingiustificabile
asimmetria con il sistema dei controlli esterni (che rimangono pienamente in
vita) concernenti lo Stato (art. 100 Cost. e legge 14 gennaio 1994, n.20).
Non pare dubbio, comunque, che i controlli
amministrativi sugli enti territoriali richiedano una copertura costituzionale,
la quale, anche se non specifica – come quella di cui agli abrogati artt. 125
e 130 – può esserlo a cagione del collegamento ad esigenze pubbliche
costituzionalmente tutelate anche in via generale, così come potrebbe avvenire,
ad esempio, con riferimento al “principio di imparzialità” contenuto
nell’art. 97 della Costituzione.
Del resto, con la sentenza n.29 del 1995 la stessa
Corte costituzionale ha seguito tale criterio quando ha ritenuto legittimo
l’art. 3 della citata legge n.20 del 1994, istitutiva del controllo sulla
gestione di tutte le amministrazioni pubbliche.
Il giudice delle leggi, infatti, nella sua diffusa
motivazione ha fatto riferimento ai principi di cui agli artt. 28, 81, 97 e 119
della Costituzione, pur nella considerazione che le relative disposizioni non
avessero una specifica e diretta attinenza al controllo sulla gestione.
Occorre ancora osservare che il legislatore
costituzionale del 2001, abrogando gli artt. 125, I° comma, e 130 Cost., non può
ritenersi che abbia inteso eliminare dallo scenario della gestione della cosa
pubblica il profilo della legittimità dell’azione amministrativa e, quindi,
il principio di legalità. Non poteva (né voleva) farlo, poichè tale principio
– come avanti evidenziato – oltre a permeare di sé la maggior parte delle
disposizioni costituzionali, rappresenta sempre un “prius” rispetto ad ogni
altro profilo dell’attività amministrativa.
Invero, con la predetta
abrogazione si ha ragione di ritenere che lo stesso legislatore costituzionale
abbia inteso soprattutto cancellare gli organi esercitanti il controllo. E lo ha
fatto per il rispetto dovuto al principio di autonomia degli enti territoriali
specificatamente previsti in Costituzione; principio di autonomia consacrato
dagli artt. 5 e 114 della Costituzione medesima e coerentemente considerato
negli articoli successivi, ora riformati, contenenti altri principi di non
minore rilievo.
Tali principi possono agevolmente essere individuati (a)
nelle norme costituzionali in materia di “coordinamento della finanza
pubblica” (art. 117, terzo comma, e art. 119, secondo comma , nuovo testo); (b)
nella norma che, nell’istituire un “fondo perequativo” per i territori con
minore capacità fiscale per abitante (art. 119, terzo comma) richiede il
riscontro dell’efficiente impiego delle risorse affluenti alle regioni meno
dotate, contribuendo, anche queste ultime risorse, a “finanziare integralmente
le funzioni pubbliche” attribuite agli enti medesimi (art. 119, quarto comma);
(c) nella norma che prevede la destinazione di risorse aggiuntive e
l’effettuazione di interventi speciali a favore delle aree sottosviluppate del
Paese (art. 119, quinto comma).
In definitiva, il rispetto del nuovo regime
costituzionale, men che impedire, sembra addirittura imporre, nell’ambito del
coordinamento della finanza pubblica, il sindacato, oltre che sulla sana
gestione finanziaria (controllo, quest’ultimo, intestato alle sezioni
regionali della Corte dei conti già dalla legge 20/1994), anche sui bilanci e
sui rendiconti degli enti locali. A ciò si aggiunga che il controllo sul
rispetto degli equilibri di bilancio è indispensabile anche al fine della
verifica circa l’osservanza, da parte di ciascun ente locale, dei vincoli che
derivano dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.
Un tale sindacato, peraltro, per essere conforme al
dettato costituzionale dovrà avere una valenza assolutamente non coercitiva,
bensì ausiliaria alle autonome attribuzioni dell’organo consiliare; né
sarebbe, forse, costituzionalmente corretto affidarlo alle regioni o ad organi
governativi, stante il regime di pariordinazione tra tutti i soggetti che
compongono la Repubblica (art. 114 Cost.).
L’autonomia organizzativa riconosciuta nel nuovo
assetto costituzionale a Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni (cfr.
gli artt. 114 comma 2, 117 comma 6 e 123 comma 1 della Costituzione) comprende
certo anche la disciplina di quei controlli che gli stessi enti istituiscono, in
ragione del proprio interesse al miglior andamento dell’azione amministrativa.
Le brevi considerazioni che seguono riguardano invece
i controlli del tutto esterni - nell’attuale momento storico la nozione di
“controllo” tende peraltro ad assumere significati nuovi e più ampi di
quelli tradizionali (v. infra) - ovverosia quei “controlli” che in
posizione di assoluta autonomia e indipendenza perseguono interessi ulteriori,
diversi da quelli propri di uno specifico ente e in definitiva di portata più
generale.
A questo proposito, va fatta peraltro subito una
chiara precisazione: questa materia non può essere oggetto dell’autonomia
statutaria delle Regioni.
In effetti, sulla questione va non solo richiamato il
principio di equiordinazione tra gli enti territoriali chiaramente posto dal
nuovo testo dell’art. 114 comma 1 della Costituzione - per cui una Regione non
potrebbe certo prevedere propri controlli su Province e Comuni - ma va anche
ricordato che per l’art. 123 comma 1, nel testo modificato dalla legge
costituzionale n.1 del 1999, ciascuna Regione ha “uno statuto che, in armonia
con la Costituzione, ne determina la forma di governo e i principi fondamentali
di organizzazione e funzionamento”: ove per “organizzazione” si fa
evidentemente riferimento agli organi della stessa Regione[1][1].
In sostanza, resta ferma e impregiudicata l’esigenza
di analisi e valutazioni obiettive e imparziali da parte di un soggetto in
posizione neutra, esterno agli enti interessati e da questi del tutto
indipendente: analisi e valutazioni che invero sembrano necessarie per almeno
cinque aspetti fondamentali.
Per la tenuta del complesso e delicato sistema
delineato dalla riforma costituzionale, è certo necessario un incisivo
“coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (art.117
comma 3). Inoltre, occorre il rispetto, tra l’altro, dei “vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario” (art. 117 comma 1), vincoli tra i quali
rientrano indubbiamente anche gli obiettivi per la finanza pubblica assunti
dall’Italia con l’adesione al Trattato di Maastricht e al Patto di stabilità
e crescita.
Controlli esterni indipendenti ed imparziali
s’impongono quindi in primo luogo con riferimento a questi aspetti
fondamentali del sistema.
Come è stato già ricordato, il nuovo art. 119 della
Costituzione stabilisce che per “finanziare integralmente le funzioni
pubbliche loro attribuite”, Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni
“stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri” e “dispongono di
compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro
territorio” (commi 2 e 4).
Ma lo stesso art. 119 prevede anche assegnazioni a
valere su un “fondo perequativo istituito con legge dello Stato”, “senza
vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per
abitante” (comma 3); ed inoltre “risorse aggiuntive” ed “interventi
speciali” in favore di enti territoriali determinati “per promuovere lo
sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per favorire
l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi
diversi dal normale esercizio delle loro funzioni” (comma 5).
Orbene, per il corretto funzionamento di questo
meccanismo sembra in effetti indubitabile che le valutazioni sulle reali
necessità finanziarie - al netto cioè di sprechi e inefficienze - e sulle
effettive “capacità fiscali”, sulla corretta utilizzazione delle “risorse
aggiuntive” e sulla regolare attuazione degli “interventi speciali”, non
possono essere rimesse solo alle dichiarazioni e richieste degli stessi enti
interessati e debbono invece avvalersi anche delle analisi e valutazioni di un
soggetto effettivamente autonomo e indipendente.
Solo in tal modo potranno essere infatti realmente
tutelati tutti i soggetti interessati: sia gli enti che tendono
comprensibilmente a massimizzare le perequazioni e le risorse aggiuntive cui
aspirano, sia gli enti - le autonomie territoriali più ricche e lo stesso Stato
- che aspirano invece a contenere i finanziamenti in questione nei limiti delle
effettive necessità.
La determinazione dei “livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale” è demandata com’è noto alla potestà
legislativa esclusiva dello Stato dall’art. 117 comma 2 lettera m: può
essere considerata come il fondamento della coesione nazionale e la base
dell’attuazione degli stessi principi di solidarietà e uguaglianza tuttora
richiamati dagli artt. 2 e 3 della nostra Costituzione.[2][2]
Sennonché, sembra doversi ritenere che questa
determinazione dei livelli delle prestazioni non possa essere effettuata solo
sulla base di quel che appare astrattamente “giusto” in un determinato
momento storico, e debba invece considerare in qualche modo anche le prestazioni
per così dire concretamente in atto nei vari territori della Repubblica.
Vi è altrimenti il grave rischio che i “livelli”
in astratto previsti risultino inattuati; o magari vengano in qualche modo anche
raggiunti, ma a prezzo di gravi o irreparabili dissesti per tutta la finanza
pubblica.
In definitiva, appare necessario un controllo, da
parte di un soggetto in posizione indipendente e neutrale, sulle prestazioni
concretamente erogate.
Il nuovo testo dell’art. 118 comma 1 della
Costituzione stabilisce che “le funzioni amministrative sono attribuite ai
Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a
Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.
Il comma successivo precisa che “i Comuni, le
Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative
proprie” -secondo alcuni si tratta delle funzioni “fondamentali” cui si
richiama l’art. 117 comma 2 lettera p- “e di quelle conferite con
legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.
Orbene, appare evidente che il sistema in questione
non è del tutto predefinito e rigido, e richiede invece anche valutazioni in
qualche misura discrezionali sull’idoneità degli enti territoriali minori ad
assumersi proficuamente il carico di nuove funzioni: fondare queste valutazioni
“politiche” sull’esito di controlli sul buon andamento delle gestioni
effettuati da un soggetto autonomo e distinto dagli enti interessati appare in
effetti necessario.
L’art. 117 comma 2 lettera r attribuisce alla
legislazione esclusiva dello Stato, tra l’altro, il “coordinamento
informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale,
regionale e locale”. E in effetti, in un sistema istituzionale articolato in
più enti autonomi e in qualche misura equiordinati un congruo flusso delle
informazioni assicura quella reale comunicazione che è condizione
imprescindibile per la tenuta del sistema stesso.
In questa prospettiva, già nel capitolo che precede
si è ritenuto di sottolineare come un unico linguaggio contabile sia a sua
volta necessario per l’analisi, la valutazione e la comparazione delle
contabilità e in definitiva delle stesse concrete gestioni.
Ciò posto, si vuole qui sottolineare anche che le
connessioni informatiche e le rilevazioni statistiche danno luogo a vere e
proprie informazioni utilizzabili per il coordinamento della finanza pubblica
solamente quando i dati finanziari e amministrativi sono adeguatamente valutati
e analizzati, anche alla luce dell’esito di approfonditi controlli sulle
gestioni, da parte di un soggetto realmente autonomo e indipendente.
L’espressione “controllo” può evocare ancora,
per alcuni, una funzione contrassegnata da un carattere in qualche modo
autoritativo e sovraordinato. E in effetti, per lunghissimo tempo il controllo
per antonomasia è stato quello, a carattere impeditivo, di legittimità sugli
atti.
In realtà già da tempo, e in particolare con la
sentenza n.29 del 1995, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha chiarito
che il controllo sulle gestioni affidato alla Corte dei conti dalla legge n.20
del 1994 non è espressione di un potere che si contrappone alle amministrazioni
interessate, e in particolare alle autonomie regionali, e costituisce invece una
funzione che si risolve in un rapporto collaborativo, al fine di stimolare
processi di autocorrezione sul piano decisionale, gestionale e organizzativo.
Ma accanto a questo aspetto collaborativo,
certamente essenziale e imprescindibile, appare necessario sottolineare anche un
altro aspetto della funzione della Corte, a ben vedere non incompatibile ed anzi
strettamente connesso con il primo: la valenza informativa che questa
funzione inevitabilmente assume.
Come la stessa Corte
costituzionale ha a suo tempo riconosciuto con la sentenza n.961 del 1998, vi è
un’attività di referto che non ha una vera e propria finalità di controllo,
almeno nell’accezione tradizionale del termine, ma risponde piuttosto allo
scopo di informare sia il Parlamento (ovverosia lo Stato) che le stesse
autonomie territoriali sulla situazione della finanza locale -la sentenza si
riferiva all’esame dei conti consuntivi di Province e Comuni previsto dal d.l.
n.786 del 1981 convertito nella legge n.51 del 1982- e sulle eventuali
disfunzioni delle gestioni finanziarie.
Si potrebbe sinteticamente affermare: la Corte dei
conti collabora con tutte le articolazioni della Repubblica - Comuni, Province,
Regioni e Stato - in primo luogo informando “tutti” sull’andamento delle
gestioni finanziarie e amministrative.
Per inciso: non sembra che l’aspetto finanziario e
quello di gestione amministrativa possano essere drasticamente e
artificiosamente separati. Poiché infatti la finanza pubblica e la stessa
esistenza delle amministrazioni pubbliche sono giustificate solo dalle
prestazioni che concretamente vengono rese alla collettività e dai risultati
amministrativi effettivamente raggiunti, l’analisi finanziaria e quella
gestionale risultano in definitiva strettamente congiunte.
Va solo rilevato che per il nuovo testo dell’art.
114 della Costituzione “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle
Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, enti in
qualche modo equiordinati nel nuovo assetto istituzionale.
Per conseguenza, la Corte dei conti va indubbiamente
considerata -la questione appare invero della massima importanza- come organo
non dello Stato ma della Repubblica, in posizione di assoluta indipendenza ed
equidistanza da tutte le già ricordate articolazioni di questa: Comuni,
Province, Città metropolitane, Regioni e lo stesso Stato.
Un’adeguata consapevolezza di questa precisa
configurazione della Corte è in effetti già ampiamente diffusa nell’ambito
dell’Istituto: sarebbe auspicabile che lo divenisse presto anche presso tutte
le componenti della Repubblica.
In definitiva, sembrano necessarie una
puntualizzazione e una valorizzazione del ruolo della Corte dei conti nel
contesto del nuovo assetto costituzionale.
La materia rientra certo nell’ambito del
“coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (artt. 117
comma 3 e 119).
Ma come si è visto, i controlli sulle gestioni sono
anche strumentali e strettamente connessi, tra l’altro, alla “determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni”, alla “perequazione delle risorse
finanziarie” e al “coordinamento informativo statistico ed informatico dei
dati dell’amministrazione statale, regionale e locale”: tutte materie,
queste, affidate alla “legislazione esclusiva” dello Stato dal comma 2 del
nuovo art. 117.
Comunque sia, una matura consapevolezza, in tutte le
componenti della Repubblica, dell’importanza delle funzioni della Corte dei
conti nel nuovo assetto costituzionale non può che giovare all’efficacia del
lavoro dell’Istituto, nell’interesse della stessa comunità nazionale.
Come è noto, la Costituzione sancisce, all’art. 5,
il principio fondamentale dell’autonomia e del decentramento, per la cui
attuazione la Repubblica deve adeguare “i principi e i metodi della sua
legislazione”.
Lo stesso art. 5, dopo aver consacrato
l’indivisibilità della Repubblica, afferma che questa “riconosce e promuove
le autonomie locali”.
Tale riconoscimento, oltre ad esaltare il valore
storico, politico e sociale dell’ente locale – che, si badi bene, preesiste
alla stessa Repubblica, tanto è vero che questa non lo “istituisce”, ma lo
“riconosce” (in quanto già esistente), utilizzando la medesima formulazione
lessicale che nel successivo art. 29 adopererà con riferimento ai diritti di
famiglia – è in perfetta coerenza con l’art. 114 novellato, che colloca
Comuni, Province e Città metropolitane allo stesso livello delle Regione e
dello Stato nella composizione della base territoriale della Repubblica
medesima.
Ciò posto, e dopo che nel paragrafo precedente si è
trattato di taluni aspetti della nuova disciplina sugli enti territoriali minori
recata dalla legge costituzionale n.3 del 2001 occorre ora fare qualche
riflessione sul testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali,
approvato con il decreto legislativo 18 agosto 2000, n.267.
Quest’anno esso viene qui brevemente esaminato nelle
sue linee generali, salvo che per la parte relativa al sistema della contabilità,
la quale, invece, forma oggetto di una più attenta considerazione, data la sua
particolare complessità ontologica e d’applicazione pratica, per non tacere
dei diversi problemi che ne sono derivati.
Si provvederà negli anni a
venire a sviluppare altre tematiche man mano che si renderà necessario.
Intanto, in prima approssimazione si può affermare
che il testo unico in questione “codifica” le norme che in materia di enti
locali si erano stratificate nel tempo, anche se le sue fondamenta erano già
state gettate con la legge 8 giugno 1990, n.142.
Il predetto testo unico trova il suo momento genetico
nell’art. 31 della legge 3 agosto 1999, n.265 (c.d. legge Napoletano-Vigneri),
che conteneva la delega al Governo per l’emanazione, appunto, di un testo
unico in cui riunire e, soprattutto, coordinare le disposizioni
sull’ordinamento in senso proprio, sul sistema elettorale, ivi comprese
l’ineleggibilità e l’incompatibilità, sullo stato giuridico degli
amministratori, sul sistema finanziario e contabile, sui controlli, nonché
sulle norme fondamentali sull’organizzazione degli uffici e del personale, ivi
compresi i segretari comunali.
Il plesso normativo che ne è derivato è articolato
in quattro parti.
La Parte I reca l’ordinamento istituzionale ed è
distinta in sei titoli, che trattano, rispettivamente:
-
- delle disposizioni generali;
-
- dei soggetti;
-
- degli organi;
-
- dell’organizzazione e del personale;
-
- dei servizi e degli interventi pubblici locali;
-
- dei controlli.
La Parte II disciplina l’ordinamento finanziario e
contabile ed è suddivisa in numerosi titoli, che riguardano:
-
- disposizioni generali;
-
- programmazione e bilanci;
-
- investimenti;
-
- tesoreria;
-
- rilevazione e dimostrazione dei risultati di gestione;
-
- revisione economico-finanziaria;
-
- enti locali o dissestati.
La Parte III disciplina le associazioni degli enti
locali.
La Parte IV riguarda le disposizioni transitorie e le
abrogazioni.
Già dalla scelta delle norme da
tener in vita e quelle da abrogare emerge una caratteristica di fondo del testo
unico, che è stato costruito quale legge generale degli enti locali, con una
propria sistematicità.
E non basta. Esso non costituisce
un plesso normativo avente disposizioni riguardanti soltanto il medesimo
oggetto, legate insieme sulla base di una semplice ricognizione di norme. Questo
testo unico ha una “forza normativa” propria, nel senso che è uno
“strumento di novazione”delle disposizioni normative raccolte, formante, perciò
stesso, un “testo unico-fonte”.
La sua orditura si caratterizza, oltre che per la
semplificazione e lo snellimento della struttura, anche per la semplicità del
linguaggio, meglio calibrato sulla scia della dottrina e, soprattutto, della
giurisprudenza.
Le grandi linee lungo le quali esso si muove hanno
riguardo:
-
- a rinvii soltanto generici a fonti regolamentari allo scopo di non
ingabbiare queste ultime entro limiti molto rigidi;
-
- al recepimento degli indirizzi consolidati dei diversi plessi
giurisdizionali;
-
- all’osservanza dei principi affermati dalla Corte costituzionale;
-
- ad un più ampio uso della terminologia giuridica delle norme ai fini di
migliore leggibilità e chiarezza delle stesse.
Il testo unico delle leggi sull?ordinamento degli enti
locali approvato con il d.lgs. n.267 del 2000 va peraltro ora raffrontato con la
già citata riforma del titolo V della parte II della Costituzione. Occorre
infatti domandarsi, in sostanza, se tutti “i principi e le disposizioni
in materia di ordinamento locale” - per questa dicotomia cfr. l’art. 1 dello
stesso d.lgs. n.267 - risultino ora pienamente coerenti con il nuovo assetto
costituzionale delle competenze.
Evidentemente, il compito di un eventuale adeguamento
ai nuovi principi costituzionali di tutta la legislazione statale sugli enti
locali al momento vigente spetterà al Parlamento della Repubblica, come spetterà
solo alla Corte costituzionale dirimere eventuali incertezze.
In questa sede – ma considerazioni de iure
condendo verranno formulate nelle pagine che seguono anche sulla necessaria
armonizzazione delle contabilità e sulle prospettive dei controlli esterni
sulle gestioni dopo la recente riforma costituzionale – ci si limita pertanto
a formulare, nell’ovvio rispetto della diversità dei ruoli istituzionali,
alcune brevi considerazioni di carattere generale che potranno essere
eventualmente tenute presenti nelle debite sedi.
Ciò premesso, si rileva in primo luogo che la parte
prima del testo unico in questione riguarda “l’ordinamento istituzionale”
degli “enti locali”: caratteri dell’autonomia degli enti, funzioni,
organizzazione politica e burocratica, espletamento dei servizi, controlli etc.
Orbene, poiché l’art. 117 comma 2 lettera p)
inserisce tra le materie per le quali “lo Stato ha legislazione esclusiva”
solo la materia “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni
fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”, sembra in definitiva
doversi ritenere che almeno parte “dell’ordinamento istituzionale” del
d.lgs. n.267 sia suscettibile di una qualche rivisitazione alla luce nei nuovi
principi costituzionali.
Per la parte seconda del testo unico, che ha per
oggetto “l’ordinamento finanziario e contabile”, il parametro di raffronto
è invece costituito ora dal nuovo testo dell’art. 117 comma 2 della
Costituzione, che tra le materie di “legislazione concorrente”, per le quali
spetta allo Stato “la determinazione dei principi fondamentali”, inserisce
anche la materia “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario”.
In realtà, anche l’art. 150 comma 1 del d.lgs.
n.267 si richiama ai “principi”, quando afferma che “l’ordinamento
finanziario e contabile degli enti locali è riservato alla legge dello Stato e
stabilito dalle disposizioni di principio del presente testo unico”. E
il comma 4 dell’art.152 precisa che “i regolamenti di contabilità” degli
enti locali “sono approvati nel rispetto delle norme della parte seconda del
presente testo unico, da considerarsi come principi generali con valore di
limite inderogabile, con eccezione” delle specifiche norme che vengono poi
nella stessa disposizione elencate, le quali invece “non si applicano qualora
il regolamento di contabilità dell’ente rechi una differente disciplina”.
Sennonché, non sembra in realtà che questi
“principi” del d.lgs. n.267 siano pienamente assimilabili ai “principi
fondamentali” cui fa riferimento il sopra ricordato testo del nuovo art.117
comma 2 della Costituzione.
In effetti, appare dubbio per un verso che le
disposizioni in questione assicurino realmente, con riferimento agli enti
territoriali minori, l’”armonizzazione dei bilanci pubblici” e il
“coordinamento della finanza pubblica” (sulla diversità dei sistemi
contabili, v. infra al capitolo 3), e per altro verso che le disposizioni
stesse siano tutte teleologicamente giustificate da questa certo grave e
pressante esigenza di armonizzazione e coordinamento.
In definitiva, la materia potrebbe essere
riconsiderata nell’ambito di una nuova legge di contabilità valida per tutti
gli enti pubblici (sul punto, v. comunque al capitolo seguente).
L’amministrazione pubblica italiana è stata spesso
considerata, nel suo complesso, non come un essenziale fattore di
modernizzazione del sistema socio-economico, quale certo dovrebbe essere, ma
come un duplice handicap. Funzioni e servizi pubblici costosi e
insufficienti comportano infatti non solo un onere inaccettabile per la finanza
pubblica - anche in relazione agli impegni assunti dall’Italia con
l’adesione al Trattato di Maastricht e al Patto di stabilità e crescita - ma
altresì una perdita di competitività, in un contesto in cui l’integrazione
europea e lo stesso processo di globalizzazione inducono sempre più a comparare
le funzioni e i servizi pubblici offerti dai vari paesi.
Orbene, per realizzare
l’auspicato rinnovamento dell’amministrazione pubblica, negli ultimi anni è
stata in primo luogo attuata un’ampia e profonda revisione degli assetti
organizzativi e funzionali: con le leggi n.142 e n.241 del 1990, rispettivamente
sull’ordinamento degli enti locali e sul procedimento amministrativo; con il
d.lgs. n.29 del 1993, e successive modificazioni, sull’organizzazione delle
amministrazioni pubbliche e sul rapporto di impiego pubblico; con le c.d. leggi
Bassanini n.59 e n.127 del 1997, n.191 del 1998 e n.50 del 1999, per la riforma
della pubblica amministrazione e la semplificazione dell’attività
amministrativa; con i decreti legislativi n.112 del 1998, sul decentramento di
funzioni a regioni ed enti locali, e n.300 e n.303 del 1999, sulla
riforma dei ministeri e della presidenza del consiglio dei ministri, etc. etc.
Inoltre, sono stati riformati i sistemi contabili
pubblici: con il d.lgs. n.77 del 1995 sull’ordinamento finanziario e contabile
degli enti locali; con la legge n.94 del 1997, e il conseguente d.lgs. n.279
dello stesso anno, sul bilancio dello Stato; con la legge n.208 del 1999
sull’armonizzazione delle contabilità pubbliche.
Infine, sono stati ridefiniti i controlli, interni ed
esterni, sull’operato delle pubbliche amministrazioni: prima con il già
citato d.lgs. n.29 del 1993, poi con la legge n.20 del 1994 sui controlli di
questa Corte, infine con il d.lgs. n.286 del 1999 sui controlli interni.
Questa compresenza nel processo di riforma di più
aspetti - amministrazione contabilità controllo - diversi ma strettamente
connessi e in definitiva ugualmente essenziali per l’auspicata modernizzazione
delle amministrazioni, risulta ad esempio molto evidente con riferimento alla
distinzione tra indirizzo politico e gestione amministrativa, prevista per la
prima volta dalla legge n.142 del 1990 per gli enti locali, e poi dal d.lgs.
n.29 del 1993 e da varie norme successive per tutte le amministrazioni
pubbliche: si tratta infatti di una distinzione che acquista una sua concreta
operatività solo se si riflette in una corretta dialettica contabile
programmazione-gestione delle risorse (d.lgs. n.77 del 1995, legge n.94 e d.lgs.
n.279 del 1997) e in adeguati e incisivi controlli (d.lgs. n.286 del 1999).
In questo contesto in evoluzione si è poi inserita,
con un potenziale di rinnovamento ancora da definire compiutamente ma certo
comunque radicale, la già ricordata riforma del titolo V della parte II della
Costituzione disposta con la legge costituzionale n.3 del 2001.
Ma prima di accennare alle ricadute della riforma
costituzionale sulle contabilità pubbliche -argomento che qui particolarmente
rileva- appare necessario soffermarsi brevemente sull’evoluzione di queste
stesse contabilità negli ultimi anni.
In occasione delle riforme attuate con la legge n.468
del 1978 prima e con la legge n.362 del 1988 poi, l’esigenza di una più
moderna e funzionale articolazione del bilancio dello Stato, che pure nei vari
progetti era considerata come un aspetto essenziale delle auspicate riforme, era
rimasta alla fine ambedue le volte non soddisfatta. Si era infatti ritenuto che
fosse più urgente cercare di contenere con altri strumenti - legge finanziaria,
fondi speciali, provvedimenti collegati, documento di programmazione
economico-finanziaria, saldi di bilancio, copertura finanziaria delle leggi - la
lievitazione della spesa pubblica nel suo complesso.
Ma in tal modo restava ancora da risolvere il problema
della leggibilità di un bilancio articolato in migliaia di capitoli e quindi,
in definitiva, ben poco comprensibile e significativo.
La legge n.94 del 1997 si proponeva invece proprio
l’obiettivo di “consentire, al Governo prima e al Parlamento poi, una
selezione e, quindi, una decisione più trasparente e responsabile sulle priorità
e sulle scelte allocative, nonché di rendere il bilancio più chiaro e
leggibile, oltre che per l’autorità politica, per gli stessi
cittadini-contribuenti”.
Orbene, con la citata legge n.94 si individuava un
nuovo livello decisionale nelle unità
previsionali di base, articolate in più livelli, “stabilite in modo
che a ciascuna unità corrisponda un unico centro di responsabilità
amministrativa, cui è affidata la relativa gestione”, e “determinate con
riferimento ad aree omogenee di attività, anche a carattere strumentale, in cui
si articolano le competenze istituzionali di ciascun Ministero”.
In appositi allegati al disegno di legge di bilancio,
e divise per stati di previsione, dovevano poi essere indicate, oltre alle unità
previsionali di base, le “funzioni, individuate con riferimento agli obiettivi
generali perseguiti dalle politiche pubbliche di settore ed all’esigenza di
verificare la congruenza delle attività amministrative agli obiettivi medesimi,
anche in termini di servizi finali resi ai cittadini”.[3][3]
Con decreto del Ministro del tesoro, del bilancio e
della programmazione economica - ora dell’economia e delle finanze - le unità
previsionali di base in questione dovevano essere poi ripartite “in capitoli,
ai fini della gestione e della rendicontazione”.[4][4]
La riforma del 1997 non si è limitata a rinnovare la
contabilità finanziaria dello Stato - peraltro ancora strutturata
secondo criteri di competenza (giuridica) e di cassa - e ha invece anche
introdotto una contabilità
economica.
In attuazione della delega contenuta nella legge n.94
del 1997, il d.lgs. n.279 dello stesso anno ha infatti stabilito che “al fine
di consentire la valutazione economica dei servizi e delle attività prodotte”
le pubbliche amministrazioni sono tenute ad adottare “un sistema di contabilità
economica fondato su rilevazioni analitiche per centri di costo”. Questi
centri di costo sono poi “individuati in coerenza con il sistema dei centri di
responsabilità dell’amministrazione” e “ne rilevano i risultati
economici”, secondo un “piano dei conti” che classifica i costi secondo la
loro natura e diversi livelli di dettaglio.
Va sottolineato che di per sé questa nuova contabilità
economica è solo una “contabilità analitica per centri di costo”: non è
infatti espressamente prevista l’elaborazione di un conto economico,
preventivo o successivo, a carattere per così dire generale. Il punto appare
chiaro anche negli artt. 13 e 14 del d.lgs. n.279, secondo i quali il rendiconto
generale dello Stato è articolato solamente in un “conto del bilancio” e in
un “conto del patrimonio”.
Mentre la nuova contabilità
finanziaria delineata dalla riforma del 1997 riguardava solamente lo Stato, la
contabilità economica per centri di costo -ben presto oggetto di importanti
circolari emanate dal Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato-
avrebbe dovuto riguardare tutte le amministrazioni pubbliche indicate all’art.
1 comma 2 del d.lgs. n. 29 del 1993.[5][5]
Più in generale, la legge n.208 del 1999 ha poi
stabilito, per tutte le amministrazioni menzionate al citato art. 1 comma 2 del
d.lgs. n.29 del 1993, l’adeguamento delle contabilità e dei bilanci ai
principi della legge n.94 del 1997; ha precisato che per gli enti pubblici
disciplinati dalla legge n.70 del 1975 vanno apportate le necessarie modifiche
al regolamento di amministrazione e contabilità approvato con d.P.R. n.696 del
1979; ha infine delegato il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi
per adeguare il sistema contabile delle regioni a quello dello Stato, secondo i
principi e i criteri direttivi della citata legge n.94 del 1997.[6][6]
Sono stati peraltro espressamente esclusi da questa
armonizzazione gli enti locali il cui ordinamento contabile era stato ridefinito
con il d.lgs. n.77 del 1995: un’esclusione che costituisce chiaramente un
passo indietro rispetto alla “normalizzazione dei conti degli enti pubblici”
disposta dall’art. 25 della legge n.468 del 1978, peraltro tuttora richiamato
dall’art.157 del d.lgs. n.267 del 2000.
Le peculiarità dell’ordinamento contabile degli
enti locali introdotto dal citato d.lgs. n.77 del 1995, poi recepite nel testo
unico approvato con d.lgs. n.267 del 2000, sono state già più volte
evidenziate dalla Sezione Enti Locali della Corte dei conti prima, e da questa
Sezione poi.
In effetti, viene delineata un’articolazione delle
entrate -titoli/categorie/risorse- e delle spese
-titoli/funzioni/servizi/interventi- piuttosto diversa dalla classificazione
vigente per lo Stato e per le altre amministrazioni pubbliche oggetto
dell’armonizzazione disposta dalla legge n.208 del 1999.
Ma, soprattutto, viene disposto che il bilancio
preventivo annuale[7][7]
va redatto solo in termini di competenza (giuridica) e non anche di cassa.
Il rendiconto degli enti locali comprende poi non solo
un conto del bilancio e un conto del patrimonio, ma anche un conto economico,
per la cui redazione peraltro l’ordinamento sembra ritenere sufficiente la
mera trasformazione ex post dei dati della contabilità finanziaria
mediante un prospetto di conciliazione.[8][8]
Questo conto economico è comunque un conto a
carattere generale: per l’eventuale compilazione di conti economici di
dettaglio per servizi o per centri di costo, l’art. 229 del d.lgs. n.267 del
2000 si rimette invece all’autonomia regolamentare di ciascun comune o
provincia.[9][9]
Va rilevato che la logica del doppio bilancio (v. supra)
è sostanzialmente presente anche nell’ordinamento contabile degli enti
locali. Infatti, sulla base del bilancio di previsione approvato dal consiglio,
la giunta “definisce, prima dell’inizio dell’esercizio, il piano esecutivo
di gestione”. Con il PEG sono determinati gli obiettivi di gestione per i
responsabili dei servizi e le dotazioni necessarie, e viene inoltre disposta
“una ulteriore graduazione delle risorse dell’entrata in capitoli, dei
servizi in centri di costo e degli interventi in capitoli”.[10][10]
Può essere incidentalmente ricordato che un sistema
contabile particolare vige per le aziende sanitarie locali, che di fatto
gestiscono una gran parte delle risorse finanziarie che ogni anno transitano per
le contabilità regionali.
Per questi enti, l’art. 5 del d.lgs. n.502 del 1992
ha infatti soppresso dall’1.1.1995 la contabilità finanziaria e l’ha
sostituita con una contabilità economica, secondo norme emanate dalle Regioni
in conformità ai principi del codice civile e con la previsione tra l’altro
di bilanci preventivi economici pluriennali e annuali e di una contabilità
analitica per centri di costo e responsabilità.
A criteri ancora differenti è infine ispirato il
Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella Comunità europea,
definito con Regolamento (CE) n.2223/96 del Consiglio del 25.6.1996 e denominato
SEC 95. E si tratta di un sistema contabile di essenziale rilevanza, poiché
proprio secondo i criteri e le regole del SEC 95 viene periodicamente verificata
- calcolando il rapporto tra l’indebitamento netto del Settore delle
Amministrazioni pubbliche e il prodotto interno lordo[11][11] - l’osservanza del divieto dei
disavanzi eccessivi posto dal Patto di stabilità e crescita.
Orbene, il SEC 95 è ispirato al criterio della
competenza economica o accrual: ogni transazione è registrata “allorché
un valore economico è creato, trasformato o eliminato o allorché crediti o
obbligazioni insorgono, sono trasformati o vengono estinti”.
Senonché, l’accrual è criterio diverso sia
dalla cassa (riscossioni/pagamenti) che dalla competenza giuridica
(accertamenti/impegni): per elaborare il conto delle Amministrazioni pubbliche,
l’ISTAT utilizza pertanto, secondo i casi, informazioni di natura diversa, in
un’ottica di ricerca della migliore approssimazione possibile al principio in
questione.
Ad esempio, mentre per le imposte
accertate e riscosse con procedura ordinaria si fa riferimento agli
accertamenti, per i tributi per i quali le amministrazioni procedono
autonomamente mediante iscrizione a ruolo - ritenuti di più incerta
realizzazione - sono invece considerate le effettive riscossioni. Per le imposte
indirette e per le imposte dirette prelevate alla fonte in modo continuativo sul
reddito da lavoro dipendente, i contributi sociali a carico dei datori di lavoro
o dei lavoratori dipendenti, vengono utilizzati i dati di cassa, ma questi
vengono corretti in considerazione del sistematico slittamento (time lag
adjustment) fra il momento in cui è generato il debito fiscale o
parafiscale e quello in cui l’imposta o il contributo sociale sono dovuti. Dei
rimborsi di imposta, vengono poi computati solo quelli effettuati in
compensazione, o richiesti dal contribuente e validati dall’amministrazione.
Per le spese di personale, si usa ancora il criterio della competenza giuridica,
ma i dati sono integrati dalle c.d. eccedenze in conto residui contabilizzate
nell’esercizio successivo a quello di riferimento. Per le prestazioni sociali
in danaro o in natura, si segue il criterio della competenza giuridica. Gli
interessi, poi, sono contabilizzati secondo un criterio di competenza economica
“pura”, cioè come se venissero generati in modo continuo dal credito. I
meri residui di stanziamento non sono in alcun modo computati etc.
Come può notarsi, si tratta di rielaborazioni
complesse, per le quali inoltre l’ISTAT si avvale di fonti diverse secondo le
varie categorie di enti. Ad esempio, per le amministrazioni provinciali e
comunali la base informativa è al momento costituita da un campione di
certificati di conto consuntivo che dovrebbe fornire stime in qualche modo
ritenute significative per tutto il complesso degli enti in questione.
Questo consolidamento di dati comporta in realtà
alcuni problemi.
In effetti, se già la chiarezza
del raccordo tra rendiconto dello Stato e contabilità nazionale sconta la
complessità delle operazioni per il passaggio alla competenza economica, “una
zona d’ombra più densa si estende sui conti degli enti locali e delle
Regioni, per i quali non è disponibile alcuna informazione di raccordo tra i
consuntivi assunti a base delle elaborazioni di contabilità nazionale e i conti
economici SEC 95. Tale situazione -oltre a porre limiti oggettivi di
decifrazione dei risultati di consuntivo di finanza pubblica- concorre ad
accentuare i rischi di imprecisione nell’interpretazione delle informazioni
infrannuali sui conti pubblici; informazioni, peraltro, essenziali ai fini del
controllo e della verifica della convergenza verso gli obiettivi programmatici”.[12][12]
Su questa complessa e in un certo senso problematica
situazione -una vera babele di linguaggi contabili- s’innesta ora la citata
riforma del titolo V della parte II della Costituzione.
Con la recente legge costituzionale n.3 del 2001 viene
infatti delineato un sistema complesso, per vari aspetti ancora da definire
compiutamente e che peraltro manifesta già, con tutta evidenza, una pressante
esigenza: per la tenuta del sistema occorrono raccordi molto forti tra tutte le
sue componenti e tra questi raccordi, in primo luogo, appare necessario un unico
linguaggio contabile.
Una piena trasparenza e
comparabilità dei bilanci, e per conseguenza delle gestioni, è in effetti
funzionale ad un’effettiva democrazia: poiché ogni componente del
sistema determina esternalità su tutte le altre, l’autonomia esige la
responsabilità, e a tutti i cittadini della Repubblica deve risultare possibile
un agevole controllo dell’operato degli amministratori locali.
Ma qui si vuole soprattutto
sottolineare che un unico linguaggio contabile è indispensabile anche per il coordinamento
fra gli enti del nuovo sistema che si va ora delineando.
Infatti, secondo la riforma costituzionale - e al fine
di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite - Comuni,
Province, Città metropolitane e Regioni “stabiliscono e applicano tributi ed
entrate propri”; “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi
erariali riferibile al loro territorio”; fruiscono di assegnazioni a valere su
un “fondo perequativo istituito con legge dello Stato”, “senza vincoli di
destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”.
Inoltre, “risorse aggiuntive” ed “interventi
speciali” in favore di enti territoriali determinati saranno disposti “per
promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per
favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a
scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni”.
Orbene, che tutto ciò possa avvenire senza una piena
conoscibilità e comparabilità delle varie gestioni, anche al fine di evitare
che i meccanismi di perequazione vadano in realtà a compensare sprechi e
inefficienze, risulta invero del tutto irrealistico.
Va anche ricordato che per il primo comma del nuovo
art. 117 della Costituzione “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato
e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
E, tra questi “vincoli”, risultano certo particolarmente rilevanti, ed anche
pressanti, i già menzionati impegni derivanti dall’adesione al Patto di
stabilità e crescita.
Sennonché, “la non simmetria tra la distribuzione
di poteri in ambito nazionale e la attribuzione di responsabilità stabilita a
livello europeo può determinare per i governi locali un incentivo ad assumere
comportamenti opportunistici, eccedendo nelle spese per poi lasciare al governo
centrale il compito di compensare i conseguenti squilibri”.[13][13]
Per evitare questo rischio sono quindi assolutamente
necessarie – tutte le indicazioni del sistema risultano chiaramente
convergenti – contabilità omogenee, trasparenti e comparabili.
E in effetti, è stato già ricordato che il nuovo
art. 117 comma 2 della Costituzione inserisce tra le “materie di legislazione
concorrente”, per le quali le Regioni hanno “potestà legislativa” ma
spetta allo Stato “la determinazione dei principi fondamentali”, anche la
materia “armonizzazione dei bilanci
pubblici e coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario”. Sembra quindi indubitabile che una
legge dello Stato debba definire congrui “principi fondamentali” validi per
le contabilità di tutti gli enti pubblici, e in particolare dei Comuni, delle
Province, delle Città metropolitane, delle Regioni e dello stesso Stato.
Oltre che contrario alla lettera e allo spirito della
riforma costituzionale, sarebbe invero del tutto irrealistico e privo di senso,
in mancanza dei necessari “principi fondamentali”, pensare di potersi
rimettere passivamente ad un’auto-armonizzazione delle contabilità e ad un
auto-coordinamento della finanza pubblica demandati ad una molteplicità di
soggetti ciascuno con propria competenza legislativa.
In quest’ottica, il primo nodo da sciogliere è
costituito dall’alternativa tra contabilità finanziaria e contabilità
economica.
Ora, al momento sembra difficile eliminare la
tradizionale contabilità finanziaria, poiché la logica
autorizzativo-limitativa, che è propria di questa contabilità, appare in realtà
ancora necessaria per assicurare la conservazione degli equilibri generali.
Piuttosto, ci si dovrebbe domandare se la contabilità
di Comuni e Province, che come si è visto hanno un bilancio strutturato solo in
termini di competenza (giuridica) e non anche di cassa, agevoli realmente
l’osservanza del cosiddetto patto di stabilità in ultimo disciplinato
dall’art. 24 della legge n.448 del 2001.
Senza voler qui approfondire la questione
dell’idoneità o meno delle disposizioni del “patto” ad assicurare
l’obiettivo – l’osservanza dei limiti all’indebitamento netto delle
pubbliche amministrazioni – cui in definitiva le disposizioni stesse sono
preordinate,[14][14]
si vuole evidenziare che l’art. 24 della citata legge n.448 richiede invero
alle Province e ai Comuni con più di 5.000 abitanti di programmare
accuratamente un contenimento del “disavanzo” (rectius: saldo
finanziario) e delle “spese correnti”, calcolati secondo criteri a tal fine
stabiliti e che comportano in effetti anche il computo di “riscossioni” e
“pagamenti”: in sostanza, della cassa.
E questa programmazione può risultare appunto più
problematica, e comunque meno trasparente, in mancanza di un bilancio preventivo
di cassa.
Comunque sia, nello stabilire i “principi
fondamentali” per le contabilità finanziarie di tutti gli enti pubblici,
l’auspicata legge dello Stato dovrebbe in primo luogo assicurare
un’effettiva leggibilità e trasparenza delle contabilità.
Per la parte spesa, in particolare, i bilanci
dovrebbero presentare un’articolazione molto chiara sia per l’aspetto
funzionale (funzioni-obiettivo o più semplicemente funzioni, secondo criteri di
classificazione validi in ambito comunitario) che per quello organizzativo (unità
previsionali di base o più semplicemente servizi): in sostanza, dovrebbero
permettere di individuare agevolmente sia le finalità delle spese che i centri
di responsabilità amministrativa cui viene affidata la gestione delle risorse.[15][15]
Inoltre, potrebbe essere certo conservata l’attuale
duplicità di bilanci, uno per la decisione politica e uno per la gestione
amministrativa. Ma si dovrebbe in qualche modo evitare che quest’ultimo
risulti troppo frammentato, finendo per irrigidire e deresponsabilizzare la
gestione amministrativa.[16][16]
La contabilità finanziaria - di competenza ed
eventualmente anche di cassa - appare come si è detto ancora necessaria per il
mantenimento degli equilibri generali.
Poiché peraltro la contabilità
finanziaria di per sé non assicura anche un’adeguata attenzione alle esigenze
di qualificazione della spesa, sarebbe necessario prevedere in aggiunta una contabilità
economica per centri di costo che consenta di comparare nel tempo e nello spazio
-e perciò secondo criteri e principi necessariamente uniformi- i costi
di funzioni e servizi di tutti gli enti.
Se necessario, per i Comuni più piccoli
l’introduzione della contabilità economica per centri di costo, che comunque
dovrebbe essere tenuta secondo gli stessi principi validi per tutte le altre
amministrazioni pubbliche, potrebbe avvenire gradualmente[17][17]
o in forma semplificata.
Per i periodici consolidamenti dei dati per
l’osservanza degli impegni connessi alla appartenenza alla Comunità europea,
il discorso si presenta forse più problematico, in relazione all’indubbia
esigenza di non gravare le amministrazioni di troppi adempimenti contabili.
L’optimum sarebbe comunque costituito dalla
previsione, per tutti gli enti pubblici, di un conto economico di carattere
generale, che sia connesso per quanto possibile all’auspicata contabilità
economica analitica per centri di costo e che applichi comunque compiutamente l’accrual
previsto dalle norme comunitarie.
Ricapitolando.
Il nuovo assetto costituzionale richiede la
definizione con legge statale dei “principi fondamentali” per
l’”armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario”.
I “principi fondamentali” in questione dovrebbero
comportare la definizione di una nuova legge di contabilità pubblica valida per
tutte le amministrazioni, che tenga ovviamente conto della complessa evoluzione
normativa degli ultimi anni e delle esigenze via via emerse.
I nuovi principi contabili validi per tutte le
amministrazioni pubbliche dovrebbero essere articolati ed incisivi, per
assicurare realmente la trasparenza delle gestioni, il coordinamento della
finanza pubblica, il consolidamento dei dati.
Vi è solo da aggiungere che il
tempo stringe. Vi è infatti il pericolo che un ritardo nella definizione di
questi congrui “principi fondamentali” e un malinteso concetto di autonomia
spingano alcune Regioni a legiferare autonomamente, aggravando in tal modo la
confusione dei linguaggi contabili.
Ma come avvenne per la Babele biblica, potrebbe allora
risultare impossibile la stessa costruzione della nuova forma di Stato, con
grave pericolo per la coesione nazionale.
Per quanto possa essere ritenuto utile e opportuno,
questa Corte resta ovviamente disponibile a fornire il contributo della propria
non irrilevante esperienza.
[1][1] E’ appena il caso di aggiungere che gli stessi principi valgono evidentemente anche per i controlli (interni) che Comuni e Province possono istituire avvalendosi della loro autonomia statutaria e regolamentare (cfr. rispettivamente i già citati artt. 114 comma 2 e 117 comma 6): questi controlli non potrebbero mai avere per oggetto l’attività di altre articolazioni della Repubblica.
[2][2] L’importanza di tali “livelli essenziali delle prestazioni” appare confermata dal secondo comma del nuovo art. 120, che attribuisce un potere sostitutivo al Governo nei confronti di Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni, tra l’altro, anche per il caso in cui lo richieda appunto “la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.
[3][3] Si tratta in realtà di semplici elenchi senza indicazione di stanziamenti.
Attualmente, al quadro generale riassuntivo del bilancio di competenza dello Stato sono peraltro allegati anche due sintetici prospetti: il primo ripartisce per ministeri le spese complessivamente previste per ogni funzione obiettivo; il secondo effettua la stessa operazione per le categorie economiche.
[4][4] L’innovazione in questione era stata preceduta da una lunga sperimentazione della Ragioneria Generale dello Stato che aveva infatti presentato, dal 1991, una riclassificazione del bilancio statale in circa 300 “unità operative”. In sostanza, veniva già delineata la distinzione, poi formalizzata dalla riforma del 1997, tra un bilancio di natura “politica” per il dibattito parlamentare (le unità previsionali di base) e un bilancio di natura “amministrativa” per la gestione (i capitoli).
Per la legge n.94 del 1997, ogni stato di previsione “è illustrato da una nota preliminare”, che dovrebbe chiarire “i criteri adottati per la formulazione delle previsioni”, ed è “integrato da un allegato tecnico”, che dovrebbe specificare tra l’altro gli obiettivi perseguiti “in termini di livello dei servizi e di interventi, con l’indicazione delle eventuali assunzioni di personale programmate nel corso dell’esercizio e degli indicatori di efficacia ed efficienza che si intendono utilizzare per valutare i risultati”.
[5][5] L’art. 1 comma 2 del d.lgs. n.29 del 1993 stabiliva che per “amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale”. Per gli enti locali, v. peraltro anche infra nel testo.
[6][6] Per gli enti pubblici istituzionali, il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, ora Ministro dell’Economia e delle finanze, ha costituito, anche in applicazione del d.lgs. n.419 del 1999, una commissione incaricata di elaborare i principi contabili che debbono presiedere all’impostazione del bilancio di previsione e del rendiconto generale degli enti stessi.
L’adeguamento della contabilità delle Regioni ai principi e criteri direttivi della legge n.94 del 1997 era stato invece disposto con d.lgs. n.76 del 2000, peraltro prima della riforma costituzionale approvata con l.c. n.3 del 2001.
[7][7] Le previsioni dei bilanci annuali e pluriennali - questi ultimi con un innovativo “carattere autorizzatorio” - dovrebbero fondarsi sui “programmi” e “progetti” della relazione previsionale e programmatica, obbligatoria per tutti gli enti locali e dettagliatamente disciplinata dall’ordinamento.
[8][8] In realtà, va anche considerato che sotto la rubrica “contabilità economica” l’art. 232 del d.lgs. n.267 del 2000 stabilisce che “gli enti locali, ai fini della predisposizione del rendiconto della gestione, adottano il sistema di contabilità che più ritengono idoneo alle proprie esigenze”. Per conseguenza, il prospetto di conciliazione da utilizzare ex post a chiusura di esercizio non escluderebbe la necessità di autonome rilevazioni di natura economico-patrimoniale nel corso dell’esercizio finanziario e fungerebbe più che altro da strumento di verifica della coerenza dei dati.
Si tratta comunque di materia molto discussa, e al momento risulta anche in preparazione un nuovo prospetto di conciliazione.
[9][9] La norma speciale dell’art. 229 del d.lgs. n.267 del 2000 prevale - per le autonomie locali - sulla norma generale dell’art. 12 del d.lgs. n.279 del 1997, che estende il sistema di contabilità economica per centri di costo a tutti gli enti ed organismi pubblici a suo tempo elencati nell’art. 1 comma 2 del d.lgs. n.29 del 1993, tra i quali in effetti rientrano le stesse autonomie locali. L’esclusione di province, comuni ed altri enti locali dal sistema di contabilità analitica in questione è poi sostanzialmente confermata dall’art. 1 della legge n.208 del 1999 che, come si è detto, ha espressamente escluso gli enti di cui si tratta dall’adeguamento ai principi della riforma contabile del 1997.
L’attuale facoltatività per le autonomie locali della contabilità economica per centri di costo comporta tra l’altro la possibile vanificazione di varie norme del testo unico approvato con d.lgs. n.267 del 2000: l’art. 169, che prevede nell’ambito del piano esecutivo di gestione una ripartizione dei servizi in centri di costo; l’art. 197, che per il controllo di gestione prevede tra l’altro, com’è naturale, proprio la rilevazione e la valutazione di costi e proventi; l’art. 231, per il quale la relazione della giunta al rendiconto della gestione “esprime valutazioni di efficacia dell’azione condotta sulla base dei risultati conseguiti in rapporto ai programmi e ai costi sostenuti”.
[10][10] Come si è detto nella nota precedente, questi centri di costo sono in realtà più propriamente, ove manchi una contabilità economica analitica, centri di spesa. E, comunque, il PEG è delineato dall’ordinamento come una parcellizzazione del bilancio preventivo, che ha appunto carattere finanziario e non economico.
L’elaborazione del PEG è facoltativa per “gli enti locali con popolazione inferiore a 15.000 abitanti e per le comunità montane”.
[11][11] Secondo i paragrafi 2.68 e segg. del Regolamento n.2223/96, il settore amministrazioni pubbliche (S.13) comprende unità istituzionali che producono “beni e servizi non destinabili alla vendita” - si applica il criterio della prevalenza - “la cui produzione è destinata a consumi collettivi e individuali ed è finanziata in prevalenza da versamenti obbligatori effettuati da unità appartenenti ad altri settori e/o tutte le unità istituzionali la cui funzione principale consiste nella redistribuzione del reddito e della ricchezza del paese”. Il settore in questione comprende quattro sottosettori: amministrazioni centrali (S.1311), amministrazioni di Stati federati (S.1312), amministrazioni locali (S.1313), enti di previdenza e assistenza sociale (S.1314). In Italia manca il sottosettore S.1312.
[12][12] Cfr. la relazione orale del 27.6.2001 nel giudizio presso le Sezioni Riunite di questa Corte, sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio finanziario 2000.
[13][13] Così il Governatore della Banca d’Italia nella sua audizione del 12.12.2001 presso la Commissione affari costituzionali del Senato.
[14][14] Sul patto di stabilità definito dalla legge n.448 del 2001, anche in relazione ai nuovi principi “federalistici” introdotti dalla legge costituzionale n.3 del 2001, v. infra al pertinente capitolo.
[15][15] Almeno per gli enti locali questo non avviene ancora: i “servizi” indicati nei bilanci degli enti sono infatti quelli rigidamente fissati dal d.P.R. n.194 del 1996, e possono non corrispondere ai “servizi” in cui l’ente si è autonomamente organizzato.
Ma anche per il bilancio dello Stato si ritiene a volte che alcune unità previsionali di base non consentano di individuare agevolmente le pertinenti “aree omogenee di attività”.
[16][16] E’ quel che in sostanza al momento accade sia per lo Stato - le unità previsionali di base sono divise per la gestione e la rendicontazione in capitoli ancor più numerosi di quelli previsti prima della riforma del 1997 - che per gli enti locali, i cui piani esecutivi di gestione in effetti molto spesso presentano una grande parcellizzazione degli stanziamenti.
[17][17] Per una soluzione del genere, v. ad esempio il comma 2 dell’art. 115 del d.lgs. n.77 del 1995.