ROMA - E’ vero che ha firmato insieme con Fini la nuova legge
sull’immigrazione, ed è vero che nella maggioranza vanta una posizione
privilegiata per l’asse con Berlusconi, ma Bossi è pronto a tornare da
dove è venuto, «nelle piazze», se fallisse la missione sulla riforma
federale, perché quella è la ragione sociale della Lega, ed è la
motivazione politica di cui si è servito per spiegare ai «padani»
l’alleanza con il Cavaliere. Non c’è vertice, non c’è colloquio
che si concluda senza che il capo del Carroccio ripeta il suo ultimatum, e
non c’è volta che il premier non lo rassicuri, come ha fatto
pubblicamente nei giorni scorsi, annunciando «l’impegno del governo per
l’Italia federale». Tuttavia il Senatùr è consapevole delle difficoltà:
nell’immediato il problema non è legato ai tempi di approvazione da
parte del Parlamento, sa perfettamente che non riuscirà a varare la
devolution entro l’estate del 2003. Il punto è che quell’architettura
costituzionale senza il federalismo fiscale sarebbe una scatola vuota, e
Bossi non intende comporre un’incompiuta, perciò considera
l’autonomia impositiva «il padre di tutti i federalismi», perciò sta
premendo su Tremonti, l’alleato più stretto. Vuole una prova di fedeltà,
«bisogna chiedere al Parlamento una delega per il federalismo fiscale,
che marci di pari passo con la riforma del fisco». Il ministro delle
Riforme non ne fa mistero, nei giorni in cui la Camera votava la
Finanziaria, ha teorizzato che «se lasciassimo devolution e federalismo
fiscale in balia dell’ostruzionismo parlamentare, alla fine non se ne
farebbe nulla. Quindi è opportuno che il governo disponga di una delega
per andare più spedito». La delega è la garanzia che il leader leghista
chiede al ministro dell’Economia prima di avvisare gli altri alleati, ma
tanto il primo appare scettico, quanto i secondi saranno probabilmente
poco disposti ad assecondarlo, non solo per le perplessità sul disegno,
ma anche perché si rendono conto che la mossa potrebbe scatenare la
reazione del Parlamento, per nulla disposto a farsi svuotare delle proprie
prerogative su una materia così delicata e importante.
ALLEATI NON ALLINEATI - Negli ultimi tempi non sono bastate le parole di
Tremonti a placare l’inquietudine di Bossi, sebbene il titolare del
Tesoro gli abbia spiegato che «alla fine si arriverà al federalismo
fiscale», che «chi si illude di insabbiarlo sta facendo male i suoi
conti, perché sono le Regioni che spingeranno in quella direzione,
Umberto. Vedrai, anche i Ds dovranno accettarlo, sotto la pressione dei
governatori dell’Emilia Romagna e della Toscana». Sia chiaro, il
ministro dei rapporti con la Lega crede e lavora perché si arrivi alla
riforma federalista dello Stato, ma la delega è uno strumento devastante,
rischia di destabilizzare la stessa coalizione, dove già si avvertono
sinistri scricchiolii. Ieri, durante la convention di Destra protagonista,
il portavoce di An Landolfi e il responsabile per gli enti locali del
partito Bocchino hanno mandato un segnale agli alleati, avvisandoli che
sul federalismo «bisogna procedere con molta cautela», perché «qui si
gioca con l’unità del Paese e soprattutto con l’identità nazionale».
I due dirigenti della destra hanno preso come spunto il tema del
trasferimento dallo Stato alle Regioni delle competenze in materia
scolastica. Ma è chiaro che la sortita non è stata casuale. Il portavoce
di An è il ventriloquo di Fini, di lui si serve il vicepremier quando
deve intervenire sulle questioni più spinose, e le parole pronunciate da
Landolfi sono parse una risposta al messaggio del premier di qualche
giorno fa. Di più. I timori sull’«unità» e l’«identità nazionale»
sono gli stessi sollevati dal Colle nei colloqui riservati con autorevoli
rappresentanti del centrodestra: «Ciampi - raccontano infatti fonti della
maggioranza - è preoccupato che si sfasci lo Stato. Il guaio è che il
combinato disposto della riforma federalista varata dall’Ulivo e della
devolution, rischia di trasformarsi in una miscela esplosiva. Bossi se
n’è reso conto, ma prima di pensare a un riequilibrio del sistema vuole
che il suo pacchetto di leggi sia approvato».
IL COLLE E IL CAVALIERE - Il Quirinale è dunque della partita, e pare
abbia anche iniziato a giocarla. Non è dato sapere con certezza se sia
frutto delle sue pressioni l’artifizio procedurale attuato dal
presidente del Senato la scorsa settimana, è certo però che la decisione
di Pera di inserire tra i lavori dell’aula di palazzo Madama anche altri
provvedimenti oltre la devolution, ha mandato su tutte le furie il
vicepresidente dell’Assemblea, il leghista Calderoli: «Qualcuno sta
tentando di impantanare tutto». In effetti, essendo stati incardinati
anche altri disegni di legge, oltre la riforma federalista, non è affatto
detto che nei prossimi giorni il Senato torni a parlare di devolution. Il
Carroccio ha già pronta la contromisura: se Pera tentasse di far
scivolare in fondo all’agenda l’esame del provvedimento
costituzionale, allora chiederebbe l’inversione dei lavori. E sarebbe
difficile per gli alleati non accodarsi alla richiesta.
Ma le iniziative del Colle non si sviluppano solo nei palazzi delle
istituzioni. Le preoccupazioni di Ciampi devono essere giunte anche a
palazzo Chigi, se è vero che il governo avrebbe messo a punto un «emendamento
salva-patria». Così chiamano nell’esecutivo la norma che dovrebbe «armonizzare»
il progetto bossiano, e che servirebbe a «garantire» la difesa dei
valori e dei principi dell’unità nazionale, ma anche a tutelare «i
livelli essenziali delle prestazioni sociali su tutto il territorio
nazionale»: un richiamo esplicito ai diritti scolastici e sanitari, che
devono essere validi in tutto il Paese. Dicono che Berlusconi sia
d’accordo, e che però sia stretto in mezzo a una tenaglia: conscio di
dover tenere le redini dello Stato, è però preoccupato della tenuta del
legame con Bossi.
RIFORME SENZA SOLDI - E per un Bossi che invita il governo a chiedere la
delega sul federalismo fiscale, c’è un Tremonti in allarme per
l’impatto che la riforma avrebbe sulla finanza pubblica. Il timore del
ministro dell’Economia pare sia legato alla fase di passaggio delle
competenze e delle risorse dallo Stato alle istituzioni locali: nel
periodo intermedio c’è il rischio più che fondato di una duplicazione
delle strutture e dunque delle spese. I costi potrebbero mettere in
ginocchio le casse del Paese. Vizzini, presidente della Commissione
bicamerale per le questioni regionali, favorevole al processo devolutivo,
è balzato sulla poltrona quando ha ricevuto dai suoi uffici lo studio del
preventivo di spesa: «Per far partire la riforma servono dieci miliardi
di euro», cioè mezza Finanziaria, «e in più c’è il nodo legato alla
sorte delle migliaia di lavoratori dei ministeri, che con la riforma
verrebbero smantellati». Ma non è finita, perché finora nessuno ha dato
una risposta al quesito del ccd D’Onofrio: «Se il federalismo fiscale
venisse applicato, chi si accollerebbe il debito pubblico?».
Ecco il ginepraio dal quale il governo dovrà uscire entro il 30 aprile
dell’anno prossimo, come prevede l’articolo 3 della Finanziaria. E’
per quella data - quando l’esecutivo sarà tenuto a presentare alle
Camere un progetto di federalismo fiscale - che il Senatùr vorrebbe da
Berlusconi la prova di fedeltà, è per quella data che Tremonti dovrebbe
chiedere la delega. La strategia del leader leghista è chiara: punta a
varare il suo pacchetto di riforme costituzionali non a primavera ma in
autunno. Ed essendo una riforma costituzionale, è pressoché certo che si
andrebbe a un referendum confermativo. Solo così Bossi potrebbe
presentarsi all’incasso di voti tra i «padani» alle Europee del 2004.
Solo così Berlusconi eviterebbe di ritrovarsi il Carroccio come
avversario «nelle piazze», in Parlamento e nelle urne.
Francesco Verderami
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