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Il DESTINO INCOMPIUTO
EZIO MAURO

 

da Repubblica - 25 gennaio 2003


LA LUNGA vita pubblica di Gianni Agnelli, trascorsa tutta sotto i riflettori del successo e del comando, è finita ieri a Torino, nel silenzio artificiale di una malattia anch´essa vissuta in pubblico, dichiarata e ammessa come un destino, un appuntamento. Questa vita ha attraversato tutto il secolo italiano, l´avventura industriale, il fascismo, la guerra e la liberazione con gli americani, il dopoguerra e il boom, l´avvento della grande finanza e la cometa della new economy, il terrorismo e la decadenza delle grandi famiglie con il declino dell´aristocrazia industriale. Fino al tramonto della fabbrica fordista, vero orizzonte del suo paesaggio, con la città sabauda come presupposto ed estensione della fabbrica, quasi fosse parte dello stesso progetto meccanico, un tutt´uno fisico e metafisico.
E´ stata anche una vita felice? Non saprei dirlo. Protagonista e testimone consapevole del secolo, quasi cronista senza appunti, Agnelli nella sua dimensione intima, personale, ha conosciuto sventure forti come i successi, cinismi e passioni, dolori e lutti pesanti, che l´anacronismo di un´educazione militare e un culto estetico della forma (due fattori diversissimi tra loro, eppure in lui strettamente combinati) gli impedivano di elaborare compiutamente, come se mostrare una ferita e ammetterne il male fosse una debolezza.
Al netto di queste sconfitte private che in qualche luogo nascosto devono averlo piegato, resta il profilo di una vita trascorsa nell´esercizio di un potere solo in parte materiale e per il resto anomalo perché carismatico e incorporeo, quasi mistico, presunto e obbligatorio insieme, come per una sorta di designazione dinastica accettata da un Paese scettico nei confronti di quasi tutti i suoi poteri istituzionalmente derivati.

L'Avvocato e la Fiat un destino incompiuto

In questo senso, aveva anche lui "i due corpi del re": quello fisico, concreto e materiale dell´industriale e del capitalista con i suoi interessi, gli amici e i nemici, le alleanze e gli errori; e quello mitologico e presunto, di figura-guida di un´Italia dalla classe dirigente erratica, mutevole e in genere screditata nel Paese e fuori.
Esperienza del potere o forse, più esattamente, esercizio del comando. Meglio ancora – senza nessuna consacrazione ufficiale, che non avrebbe potuto avere – culto, pratica e preservazione della leadership. Questo è stato il vero problema-obiettivo dell´Avvocato. Si potrebbe dire: il suo vero lavoro, dal primo giorno in Fiat fino all´ultimo, a Torino. La sua leadership si fondava su una particolare formula chimica non più riproducibile, perché muore con lui, composta da cinque elementi: il principio dinastico, il peso della fabbrica, l´alleanza tra Fiat e Stato, la torinesità, la dimensione internazionale.
Il sentimento dinastico è stato fortissimo per tutta la vita dell´Avvocato. Prima, per essere all´altezza della designazione del nonno, figura centrale della sua vita e costante termine di paragone; poi, negli ultimi vent´anni, nell´impegno a riprodurre quella designazione, replicandone il rito e la garanzia con un nipote, come un´assicurazione di continuità per la famiglia. Ma senza successo, perché il rito si è rivelato sterile. L´esistenza di Gianni Agnelli si chiude comunque con un´amputazione dinastica che appanna il segno del comando, perché Umberto lo eserciterà più per dovere di responsabilità che per scelta, comunque in ritardo, dopo che l´autorità si è decomposta. Ma in ogni caso il diritto naturale di esercizio del potere da parte della famiglia si è spezzato per sempre e la crisi rende la guida della Fiat contendibile. Un´ossessione dell´Avvocato finisce nel vuoto, o quasi, dopo avergli dominato la vita: era talmente forte che quando aveva segretamente pensato di dimettersi da presidente della Fiat, sotto l´urto dello scandalo per le tangenti, fu proprio il timore di incrinare il principio dinastico a fargli cambiare idea.
La fabbrica per lui era il luogo non soltanto fisico, ma politico, si dovrebbe dire ideologico della produzione. Qui nella sua visione si incontravano l´aristocrazia imprenditoriale (per lui chi non aveva a che fare con l´acciaio, e non produceva materialmente le "cose" non era un vero industriale) con l´aristocrazia operaia, che inevitabilmente produceva politica, cioè sindacato e partiti: per lui un vero comunista poteva essere soltanto di Torino, probabilmente avendo in testa il perimetro mentale e politico della grande officina. La geografia di questo mondo della produzione era per l´Avvocato un misto di due luoghi, il gigantismo di Mirafiori che lui aveva rappresentato per tanti anni senza mai avere l´ufficio all´interno di quei cancelli, e l´archeologia familiare del Lingotto, dove aveva voluto tornare negli ultimi anni inseguendo anche qui la memoria del nonno. Si potrebbe dire che la fabbrica, insieme con la squadratura di Torino, era il suo ancoraggio di sostanza, quasi un´assicurazione, la massa della sua personale legge di gravità, che senza tutto questo avrebbe fluttuato verso la dimensione fatua dell´apparire, più che del fare.
Ma per la stessa ragione (la fabbrica come qualcosa di fisico) la Fiat era anche per lui "una brutta bestia" che andava controllata con una forza che l´Avvocato non ha mai cercato in sé, forse perché sapeva benissimo di non averla, anche se la conosceva da vicino perché altri la esercitavano in suo nome. Questa idea, o questo pregiudizio, lo ha portato per tutta la sua vita adulta a scusare, coprire, fingere di ignorare metodi di gestione disinvolti o apertamente inaccettabili, come le officine-confino di Valletta, la schedatura degli operai, i soldi ai partiti. In realtà, l´Avvocato era affascinato dalla forza altrui. Il nonno, prima di tutto, poi Valletta a lungo, e infine Romiti del cui campo di forza si è giovato (fino a rimanerne impigliato) per più di un decennio.
Visse gli scandali cercando di distinguere. Considerò le tangenti Fiat una grave macchia all´idea di moderna imprenditorialità che voleva rappresentare, ma si vantò sempre di non aver visto un nome Fiat nell´elenco P2, che considerava uno scandalo romano, milanese, magari italiano, ma non torinese. Perché di Torino aveva un´idea pregiudizialmente positiva, come di un altrove europeo pieno di vizi però ben nascosti nell´ordine simmetrico delle strade, e di virtù che invece erano diventate in un secolo la parte migliore del carattere statuale, civico del Paese. Torino per lui – che pure impersonava un potere forte – non faceva parte del Palazzo, certo non era contro: ma era fuori (altrove, appunto) e poteva interloquire, giudicare, pretendere. Ripeteva di essere europeo perché italiano, e italiano in quanto piemontese, vale a dire con un´identità particolare, marcata, distinguibile nel fascio della nazione. La Fiat e la Juventus erano le "cose" più nazionali della città, entrambe sue. Ma "La Stampa" era per lui il vero nodo in cui si intrecciavano i fili della città e la sua gente, con il nodo italiano e quello europeo, oltre il vicino confine. E sulla "Stampa", dove si specchiava il potere Fiat e il mondo della produzione del Nordovest, con una singolarità spiegabile soltanto in quella parte dell´Italia si radunarono negli anni – con il suo pieno consenso, e qualcosa di più – gli uomini che venivano dalla breve ma profonda eredità del Partito d´Azione, Bobbio e Galante Garrone, Mila, Jemolo, Gorresio e Casalegno. La torinesità più autentica, spesso mitizzata, per lui contava più di altre differenze, anche profonde. Così si può dire che anche per Gianni Agnelli la torinesità è stata una "condizione condizionante".
E´ facile capire come da questo incrocio nascesse un particolare senso dello Stato che per Agnelli vedeva nei partiti l´esercizio contingente del comando e nei tre palazzi - il Quirinale, palazzo Chigi e la Banca d´Italia – la vera sede istituzionale della sovranità: con l´aggiunta extraterritoriale di San Pietro, dove frequentava abitualmente il Segretario di Stato. Si è spesso scritto che la sua Fiat era governativa per definizione, indipendentemente dall´inquilino di palazzo Chigi. In realtà questo veniva dopo. Prima, per l´Avvocato, c´era qualcosa di più: un patto tra la Fiat e lo Stato, nella convinzione ideologica che la ruota di Torino avesse macinato benessere per tutto il Paese, e nell´utilità pratica di scambiare con Roma, ad ogni necessità, aiuti, ammortizzatori, provvedimenti di congiuntura, dismissioni, secondo gli interessi Fiat. Roma e il Palazzo per lui erano comunque "altro", tanto che ha disposto di vendere la casa di piazza del Quirinale dopo la sua morte, perché a nessun nipote "venga in mente un giorno di andare a vivere in quella città". Ma nel Palazzo ha rischiato di entrare nel '93, quando il presidente Scalfaro lo chiamò per dirgli di tenersi pronto, perché stava per toccare a lui il compito di formare il governo. Gli rispose che non era il suo mestiere, "anche perché dopo di me potrebbe venire soltanto un generale, o un cardinale". Ma tornato a Torino, ci pensò per un giorno e decise che se toccava a lui, avrebbe sicuramente fatto ministro quel galantuomo di Giorgio Napolitano, che non lo ha mai saputo.
Quel perimetro, e quel suo mondo di riferimento, sono andati in frantumi forse con la morte di Spadolini, che l´Avvocato aveva sostenuto come candidato alla presidenza del Senato fino a prendersi nel '94 i fischi degli imprenditori a Verona. Forse intuì quel giorno che si stava rompendo l´establishment, i piccoli imprenditori non riconoscevano più l´autorità nobiliare delle Grandi Famiglie. Anche del ruolo internazionale di garanzia che Agnelli aveva sempre svolto – con l´Europa, con l´America, fino a candidarsi ambasciatore a Washington nel 1976, per spiegare agli americani l´apertura di Moro ai comunisti, lui che era un anticomunista di ferro – la nuova Italia sembrava poter fare a meno. Tutto un mondo s´incrinava. Come se anche lui, in qualche modo, non riuscisse a traghettare interamente dalla prima alla seconda repubblica.
Restava Torino, come sempre. E qui, negli ultimi dieci anni, l´Avvocato ha condotto la sua battaglia più dura. Tutto ciò di cui abbiamo parlato, infatti – il principio dinastico e la leadership, il comando e la fabbrica, persino Torino, nella sua concezione – venne messo in crisi nel '93 da una sorta di golpe bianco che, sfruttando le difficoltà dell´azienda, consegnava a Mediobanca il potere e il futuro dopo aver spezzato la linea naturale di successione famigliare tra l´Avvocato e il fratello Umberto: con Cesare Romiti che da manager scelto dalla famiglia diventava amministratore delegato per rappresentanza diretta del nuovo potere, di cui era in realtà il fiduciario.
In pratica, gli Agnelli regnavano, ma non governavano più. Avevano perso la Fiat, o meglio il suo futuro. In quei giorni, l´Avvocato paragonò Cuccia a Totò Riina. Subì come un´umiliazione il diktat che sbarrava in extremis la strada all´ascesa di suo fratello, convinto com´era che sarebbe stato un ottimo presidente e cosciente di essere lo strumento di un´ingiustizia. Contò a voce alta le persone su cui poteva fare affidamento al vertice per una strategia di riconquista che sembrava impossibile, e non arrivò a finire le dita di una mano. Tuttavia si dedicò esclusivamente al tentativo di riappropriarsi della Fiat, giorno dopo giorno. Alla fine ci riuscì, e disse ai suoi: ammettetelo, nessuno di voi ci credeva più.
Si riprese la Fiat, chiese a Romiti di lasciare la guida dell´azienda alla scadenza dell´età, quindi con Fresco e Cantarella ripristinò il normale sistema di relazioni tra gli azionisti e il management. Credeva di aver finito. I cinque elementi costitutivi della sua leadership erano tornati a mescolarsi virtuosamente, tutti finalmente riuniti di nuovo, e ancora dispiegavano forza, autorità e destino. Un pomeriggio d´inverno, dalla finestra del suo studio all´ultimo piano dell´Ifi vide spuntare sui tetti la scritta liberty su un palazzo storico dell´azienda, in via Chiabrera: Fiat. Gli sembrò finalmente l´occasione di un rendiconto. "Fabbrica: lo siamo ancora. Italiana: non ho mai venduto. Automobili: mio nonno ha incominciato, io continuo. Torino: siamo sempre qui, e ci resteranno i miei nipoti".
Ma la riconquista nascondeva una grande debolezza, perché il gigante Fiat era malato. Non bastava più la leggenda torinese della capacità di fare automobili, dalla grande fabbrica alla ragnatela dell´indotto: il business si era fatto complicato, i conti erano difficili, il mestiere aveva un futuro incerto. Chi avrebbe gestito quel futuro? Chi era in grado di padroneggiarlo, di contrastarlo e di domarlo?
Dopo l´amputazione dinastica di Giovannino, l´erede designato, con l´altro nipote, Yaki, prediletto ma troppo giovane, l´Avvocato vedeva nella famiglia una forza ormai dispersa in 250 membri, senza il profilo emergente di un´autorità unificante, capace di darle forza e di riceverne. Non potendo proiettare la sua leadership sul futuro, con un nipote, pensò di comprare il futuro per la famiglia, definendolo in anticipo, pianificandolo senza scosse o sorprese. Chiese a Fresco di cercare un partner per una vendita differita dell´auto, e sottovoce gli chiese di trovarlo americano. Firmato l´accordo con General Motors, nel marzo di due anni fa, l´Avvocato pensò di aver compiuto l´ultimo atto faustiano, proiettando la sua funzione di garanzia dopo la propria morte. Tutto era definito.
Invece tutto si stava corrompendo. Il secolo nuovo si ribellava allo schema dell´Avvocato. Precipitano i conti, il mercato Fiat si pianta, i nuovi modelli non partono, le banche parlano da padrone a Torino e impongono il cambio dei manager, la malattia tiene Gianni Agnelli lontano dalla scena, e con l´assenza salta ogni principio di autorità, devia il destino che era stato prefissato. Improvvisamente si prende coscienza che quelle quattro lettere (Fiat) si possono leggere anche alla rovescia. "Fabbrica", ma non si sa quanta produzione resterà a Torino, e quale. "Italiana", tra poco non più. "Automobili", qui è il vero cuore della crisi. E infine "Torino", ormai inquieta perché la capitale sente che sta perdendo il regno. Lo schema di garanzia dell´Avvocato si rovescia, crudelmente, nel suo contrario: l´incompiuta.
E´ l´amarezza degli ultimi mesi, con le umiliazioni da parte del mercato e del governo, la sponda americana che si allontana, l´agonia della Fiat, un gigante abbattuto sotto gli occhi di tutti, ingombrante quanto era potente. Il mondo di Gianni Agnelli si dissolveva e perdeva i suoi contorni mentre lui se ne stava andando, lasciando per la prima volta davvero Torino, la città dove aveva scelto di vivere e l´unica dove avrebbe voluto morire.