C´È QUALCOSA di inspiegabile nel susseguirsi delle posizioni,
assolutamente contrastanti l´una con l´altra, assunte da Berlusconi in
tutta la vicenda dell´articolo 18. Un giorno apparenta «la piazza»
sindacale (e, tanto per non perdere l´abitudine, anche i magistrati) ai
terroristi delle nuove Br, sbeffeggia lo sciopero generale, proclama che
tirerà dritto «come la Thatcher», e il giorno dopo, nel teatrino del
Costanzo show, si dichiara l´uomo più disponibile del mondo al dialogo
coi sindacati. Anche se in quest´ultima occasione l´ansia di trasmettere
una immagine accattivante deve avergli causato una tale tensione interna
da spingerlo a compensarla con quell´urlo iracondo contro gli emigranti,
«che tra poco ci butteranno fuori dal nostro paese», quale neppure a
Bossi sarebbe scappato. Né questo alternarsi umorale si è limitato ad
esternazioni puramente verbali. Non va dimenticata, infatti, la sequenza
che ha visto, dapprima, il governo partire lancia in resta, brandendo la
delega, per applicare unilateralmente la riforma, in base alla proclamata
fine della concertazione; poi, però, di fronte alle prime proteste, ai
dissensi interni alla stessa maggioranza, a reprimenda autorevoli come
quelli della Conferenza episcopale, ecco rispuntare l´animo gentile del
Cavaliere che, rivoltosi alle parti sociali, le invitò a riappropriarsi
della trattativa, dando loro due mesi di tempo, prorogabili, per arrivare
ad un accordo, recepibile, a quel punto, dal governo; ma non era passata
una settimana che ci aveva ripensato: le ciance erano inutili, le parti
sociali tornassero a farsi da parte, la maggioranza parlamentare aveva il
diritto di applicare il suo programma e così avrebbe fatto.
Riforma del lavoro e articolo 18 la
vendetta sociale del premier
La modifica al centro dello scontro attuale, invece, non corrisponde ad
alcuna esigenza economica né ad una emergenza sindacale, perciò è
intollerabile
Probabilmente Berlusconi cerca ispirazione in Reagan o Thatcher, ma essi
sfidarono i sindacati su scelte economico-sociali vitali per i loro paesi
e non procrastinabili
Non è necessario rievocare la cronaca di quel che è seguito in questo
surriscaldato scorcio di marzo, compresa la ricomparsa del terrorismo, se
non per sottolineare come l´instabilità volatile dei comportamenti del
premier abbia assunto scansioni pressoché quotidiane.
Non rientra, peraltro, nei nostri compiti e possibilità appurare se
questi alti e bassi siano imputabili a una sindrome ciclotimica o
riflettano solo l´avventurismo di una politica mal concepita, alle prese
con i primi impatti critici. Ci limiteremo, perciò, ad un tentativo di
analisi di quest´ultimo aspetto, anche perché resta il quesito sulla
inspiegabilità di certi atteggiamenti. Del resto non è un giudizio solo
nostro. Uno dei due grandi elettori sociali di Berlusconi (l´altro è
D´Amato), il presidente della Confcommercio, Sergio Billè, al limite
dell´esasperazione, ha dichiarato ieri alla "Stampa": «Mi
chiedo a cosa serva questo 'sharonismo´ del governo. Non si possono fare
le riforme con l´accetta, addirittura abolendo il tavolo del confronto.
L´art.18 è stato un errore madornale... qualcuno mi dimostri che se non
si fanno subito queste modifiche all´art.18, ormai diventato la favola di
tutta Europa, non si possono fare altre vere riforme».
Ma probabilmente, più che in Sharon, Berlusconi cerca ispirazione nei
precedenti della Thatcher, di Reagan e di Craxi, tre leader che, forti del
consenso della maggioranza degli elettori, sfidarono apertamente i
sindacati su grandi questioni economico-sociali. Solo che il terreno delle
scontro erano, appunto, scelte vitali e non procrastinabili: la «lady di
ferro» doveva ristrutturare drasticamente un´industria carbo-siderurgica
decotta, quanto protetta, e liberalizzare un apparato economico ancora
fortemente statalista, con le Trade Unions schierate testardamente a sua
difesa; il presidente Usa si trovava alle prese con la paralisi del
trasporto aereo, in balia dei controllori di volo; sul primo premier
socialista del nostro Paese incombeva l´onere d´imbrigliare la spirale
inflazionistica innescata dalla scala mobile, che ci stava spingendo vero
esiti sudamericani. Il valore preminente della posta in gioco era tale che
essi, non solo vinsero la partita, ma allargarono il loro consenso. Basta
pensare per l´Italia al patto di San Valentino che sancì la riforma
della scala mobile e al susseguente referendum fallito per abrogarlo, con
solo mezza Cgil all´opposizione, mentre Cisl, Uil e la corrente
socialista della Cgil stavano col governo.
La modifica dell´art.18 non corrisponde, per contro, ad alcuna esigenza
economica imperativa né ad una emergenza sindacale d´impatto nazionale.
E´ la sua valenza provocatoria, la sua «inutilità» economica, che la
rende intollerabile per la stragrande maggioranza dei lavoratori e per la
totalità delle organizzazioni sindacali (la vice segretaria generale
della Ugl, l´ex Cisnal, il sindacato emanazione, ieri del Msi, oggi di
An, Renata Polverini, spiegando l´adesione della sua organizzazione allo
sciopero generale, ha dichiarato all´"Unità": «Siamo convinti
che il sindacato stia utilizzando ogni strumento che ha a disposizione,
manifestazioni e scioperi, semplicemente per dimostrare il suo dissenso
nei confronti di provvedimenti del governo che non sono a favore del
lavoro... chiediamo che An si faccia promotrice della riapertura del
confronto e portatrice di quei temi sociali... che sono l´elemento per
cui è riconosciuta e votata». Siamo, dunque, di fronte ad un quadro
esattamente rovesciato in rapporto a quello a suo tempo realizzato da
Craxi: tutti i sindacati sono uniti per impedire il disegno del governo ed
il solco aperto si proietta all´interno della maggioranza. La Cgil, che
fino a ieri poteva apparire l´ultima ridotta di una resistenza
vetero-fordista, incapace di adeguare la sua piattaforma alle
trasformazioni dei processi produttivi e dei nuovi rapporti di classe, si
trova al centro di una alleanza vasta e articolata in difesa di un diritto
assai sentito, come quello di non essere licenziati senza giusta causa.
Tutto questo per un «errore di comunicazione», come vorrebbe far credere
il Cavaliere, che si ripromette di spiegare d´ora in avanti di persona
perché la sua riforma non minaccerebbe alcun posto di lavoro? Se, però,
si trattasse solo di un tabù, vuoto di contenuto reale, non si capirebbe
il perché di tanto accanimento nel volerlo abbattere, sfidando
impopolarità crescenti. Il fatto è che al simbolo corrisponde anche una
sostanza, se pur no nelle dimensioni che hanno finito per essere
percepite. Alcune delle modifiche proposte - in particolare quella
riguardante le piccole aziende sotto i 15 dipendenti - avrebbero potuto,
infatti, essere oggetto di trattativa nel contesto di una riforma più
generale che introducesse, in primo luogo, una consistente indennità di
disoccupazione, oltre al risarcimento per il licenziamento (solo, infatti,
dove chi resta senza lavoro ha una rete di garanzia, la flessibilità in
uscita può essere più facilmente introdotta). In Italia, comunque,
questa innovazione sostanziale è al di là da venire. E non è tutto:
checché ne dicano certi commentatori «cerchiobottisti» che fingono
meraviglia per l´intestardirsi dei sindacati, vi è nella riforma
Berlusconi-Maroni (e non Biagi, perché nel Libro bianco non se ne fa
parola) un punto sostanziale devastante, laddove s´introduce la libertà
di licenziamento per tutti quei lavoratori che passassero da un contratto
a tempo determinato o parziale ad un contratto a tempo indefinito.
L´agognato posto fisso, una volta ottenuto, sarebbe in questo caso
insidiato dalla possibilità di venire cacciati comunque, da un momento
all´altro, senza giusta causa! E´ evidente che un simile percorso
verrebbe abbracciato per tutte le nuove assunzioni in tutte le aziende
italiane, di qualsivoglia dimensione. Così, dopo un periodo transitorio,
in cui si avrebbe nelle imprese la compresenza anticostituzionale di
lavoratori con diritti diseguali (i vecchi assunti non potrebbero essere
licenziati, gli altri sì) subentrerebbe, col tempo, l´eguaglianza in
negativo: tutti licenziabili .
Come si vede il simbolo non è così simbolico. Se, però, il governo
crede utile, per lo sviluppo dell´economia italiana, introdurre la
libertà di licenziamento, lo sostenga senza sotterfugi. La durezza dello
scontro sociale non inficerebbe il diritto costituzionale di una
maggioranza parlamentare di destra di applicare il suo programma.
Difficile, peraltro, si rivelerebbe la coerenza esplicita nell´azione e
il mantenimento del consenso sociale e politico. Il contesto economico,
infatti, non richiede oggi il bisturi dei licenziamenti indiscriminati. Le
aziende grandi e medie necessitano di buone relazioni industriali e, se
mai, del funzionamento di regolatori collettivi (cassa integrazione,
pensionamenti anticipati, mobilità interna), le piccole imprese sono in
genere alla ricerca di manodopera che non trovano e non appaiono, certo,
pressate dal desiderio di licenziare qualcuno.
Se si riflette a queste cose si capisce davvero il riposto contenuto
simbolico della riforma dell´art.18: introdurre e legittimare nelle
aziende l´arma proibita della vendetta sociale, il segno di un mutamento
profondo di status politico e sindacale, l´instaurazione di un deterrente
da impiegare, non tanto per licenziare, ma per impaurire e sottomettere i
dipendenti. Il sigillo della vittoria della destra nel mondo
imprenditoriale. Una ideologia padronale vetero-classista s´incrocia qui
con le pretese del modernizzatore.
Dietro il travestimento riformistico che Berlusconi, a giorni alterni,
cerca d´indossare, viene, quindi, fuori l´animus del «rivoluzionario»,
estremista e forcaiolo, che vuol comandare senza mediazioni politiche e
che non sa che farsene dei metodi della vecchia Fiat e della vecchia Dc.
L´intervento tragico del terrorismo brigatista, in un contesto così
deteriorato, invece d´indurre ad un saggio ripensamento per ricomporre la
lacerazione sociale di fronte al risorto pericolo comune, lo ha indotto a
rinnovati estremismi, che i ripensamenti di facciata dell´ultima ora non
cancellano. L´ammantarsi con la cosiddetta «riforma Biagi» suona,
infatti, come una ennesimo tentativo di falsificazione. Lo prova il fatto
che solo qualche settimana orsono, quando Cisl e Uil accettarono, su suo
invito, di tornare a trattare, a condizione di partire dal Libro bianco,
elaborato dal professor Biagi e di annullare la delega sulll´art.18,
egli, spazientito, rovesciò il tavolo e li spedì di filato all´accordo
con la Cgil, dimostrando nei fatti la sua avversione per il riformismo e
la propensione intima e incoercibile all´estremismo. E´ questo il fulcro
autentico del sodalizio con Bossi, assai più intimo di quanto fino ad ora
si era creduto di capire. |