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IL CASO
Modello scandinavo per il centrosinistra
LUIGI SPAVENTA
In un fervore programmatico senza precedenti per
intensità di partecipazione, organizzata e spontanea, si accumulano materiali
per il programma elettorale della coalizione di Romano Prodi. Con riferimento a
un primo documento presentato dal partito dei Democratici di Sinistra, c´è chi
ha osservato che quelle elaborazioni sono a volte incoerenti; che in esse
comunque c´è di tutto e di troppo e che non si capisce perciò che cosa venga
prima e che cosa dopo.
L´osservazione è in parte fondata . Ma forse dai lavori fatti, si possono
estrarre, per induzione e in non sempre agevole traduzione, alcune linee guida
di politica economica che potrebbero ispirare il programma; dovendosi poi
dimostrare che esse sono fra loro coerenti.
Provo a enunciarne tre, che mi sembrano di maggior rilievo: restituire certezze;
migliorare l´efficienza del sistema, per dare uno stimolo alla crescita;
assicurare maggiore equità.
Restituire certezze. Da troppi anni cittadini e imprese vivono in
permanente emergenza di finanza pubblica. Si succedono provvedimenti correttivi
e mezze riforme che rendono precarie le aspettative: dalla lotteria delle
centinaia di commi può uscire un numero buono, ma ne possono uscire altri
pessimi. Per offrire certezza, occorre rendere chiari gli obiettivi a medio
termine circa il livello e la struttura del bilancio pubblico a cui gli
interventi dovranno conformarsi. Un obiettivo vincolante è la continua riduzione
del rapporto fra debito e prodotto, consentita da un adeguato livello
dell´avanzo al netto degli interessi: non in ossequio ai dettati di Bruxelles,
ma per alleviare l´onere del debito e liberare risorse per impieghi più
produttivi. Le scelte strategiche riguardano il livello e la composizione delle
entrate e della spesa. Già elaborate nel caso delle entrate, sono ancora vaghe
nel caso della spesa: la constatazione che i tagli indiscriminati sono
inefficaci e inefficienti deve indurre a decidere quali spese possano essere
soppresse per non tagliarne altre.
Migliorare l´efficienza. Certo, questo obiettivo richiede imponenti
riforme delle infrastrutture immateriali del paese. Ma sin da subito si può
offrire un duplice stimolo al sistema. Il primo è una salutare doccia di
liberalizzazioni a tutto campo, per favorire maggiore concorrenza, maggiore
offerta e una riduzione di costi e prezzi, di cui i primi beneficiari sarebbero
cittadini e imprese. E poi, come già si prevede, una riduzione del cuneo fra
retribuzione e costo del lavoro, mirata forse ai livelli più bassi di
retribuzione per dare incentivo a una maggiore occupazione.
Assicurare maggiore equità. Al di là delle disuguaglianze personali di
reddito e di ricchezza, non vi è equità fra generazioni, fra generi e, al fondo,
fra insider e outsider della società. Un´auspicabile flessibilità è spesso
degenerata in precarietà, non per i già occupati, ma per i giovani che si
affacciano al mondo del lavoro; non vi è sostegno dei redditi per i non occupati
o, in molti settori, per chi perde l´occupazione; le donne non si possono
permettere di lavorare e avere figli. Chi è dentro se la cava; chi è fuori non
vede futuro. La nostra spesa sociale, non alta rispetto ad altri paesi, è
pessima in composizione e qualità: per il sostegno dei redditi e per la famiglia
assai meno della metà di quella europea, con conseguenze negative sulla
mobilità, e perciò sull´efficienza, e sulla partecipazione alle forze di lavoro,
e perciò sulla crescita. Un welfare dunque da riformare, pur nella ristrettezza
delle risorse disponibili.
Ci si può chiedere se questi indirizzi – certezze di finanza pubblica,
efficienza, equità – siano fra loro compatibili; se sia possibile coniugare il
"modello sociale europeo", di cui tanto si parla, con un "modello anglosassone".
Domanda mal posta. Non esiste un modello europeo, osserva André Sapir in un
recente contributo: ne esiste uno mediterraneo, in cui l´Italia si colloca, che
riesce ad essere al tempo stesso poco efficiente e poco equo; e, al suo opposto,
uno scandinavo, che è sia efficiente sia equo. Come mostrano altre analisi, nei
paesi scandinavi dell´Unione europea prodotto e produttività crescono più che
altrove, il tasso di occupazione è più alto, è più intensa l´applicazione di
nuove tecnologie, è ben maggiore il livello di istruzione della forza lavoro; la
finanza pubblica è in ordine; è minore la regolazione nel mercato dei prodotti,
ma è maggiore la protezione sociale, con sostegno ai redditi dei non occupati e
delle famiglie. (Basta cambiare il segno di questi dati per descrivere la
situazione italiana). Né si dica che si tratta del vecchio modello "welfaristico"
dei paesi nordici, di cui un´antica sinistra favoleggiava. Quello andò in crisi
agli inizi del decennio 1990. Questo nuovo è stato costruito ristrutturando,
modernizzando, liberalizzando, introducendo flessibilità, riportando il bilancio
in equilibrio; eliminando quanto vi era di obsoleto nel precedente, ma anche
mantenendo ostinatamente tutto quanto vi era di buono in termini di equità e di
protezione sociale, sia pure con alti livelli di imposizione e di spesa.
L´Italia non è la Scandinavia, d´accordo. Ma forse i materiali del programma
possono essere ordinati per costruire l´inizio di una strada che conduca verso
quella meta.