SPECIALE
L'intervista in esclusiva a
Tony Blair
1. Signor Blair, lei è uno dei principali sostenitori della
necessità di modernizzare la sinistra. Basandosi sull’esperienza
britannica, quali sono, o dovrebbero essere, le linee guida di una
trasformazione così radicale?
Quel che dobbiamo fare è modellare le nostre politiche sui bisogni,
le priorità e le ambizioni della gente che rappresentiamo. Questo
non significa abbandonare i nostri valori tradizionali: i valori del
centrosinistra – solidarietà, giustizia sociale, tolleranza,
democrazia e internazionalismo – sono oggi più importanti e
rilevanti che mai. Credo anche, a proposito, che questi valori siano
condivisi dalla maggior parte delle persone per bene in Gran
Bretagna, in Italia e nel resto dell’Europa. E’ necessario,
tuttavia, innovare il modo con cui mettiamo in pratica questi
principi, per riuscire a raggiungere l’obiettivo di garantire
sicurezza e opportunità per tutti.
Visti cambiamenti radicali a cui è andato incontro il mondo negli
ultimi cinquant’anni, dovrebbe essere ovvio che il modo in cui
agiamo deve cambiare anch’esso, se vogliamo essere efficaci. La
sinistra italiana se n’è accorta quando il Pci si trasformò nel
Pds, e più tardi quando diede vita alla coalizione dell’Ulivo.
Ecco, dobbiamo avere il coraggio di cambiare. Non mi nascondo la
difficoltà della sfida, ma credo che la storia dimostri che il
centrosinistra ha sempre ottenuto risultati migliori quando è stato
audace.
Lasciate che faccia un esempio relativo alla riforma dei servizi
pubblici, che in Gran Bretagna è la principale priorità del
governo del Labour. Nel 1945 un grande governo laburista e
riformatore affrontò l’immensa sfida dell’epoca costruendo il
National Health Service (il Servizio Sanitario Nazionale) e il
sistema di welfare. I servizi centralizzati e universalistici che ne
nacquero, basati sui bisogni anziché sul censo, diedero tranquillità
e opportunità, a dir poco, a milioni di persone. Questo resta il più
importante risultato mai ottenuto dal nostro partito quand’è
stato al governo.
Ma ciò che era giusto per il 1945 non necessariamente resta valido
per il nuovo secolo. Così, mentre ovviamente i cittadini continuano
a fare affidamento su un sistema sanitario pubblico e restano fedeli
al principio che questo debba basarsi sui bisogni e non sul censo,
oggi non sono più soddisfatti da un servizio standardizzato e
indifferenziato. Vogliono servizi pubblici che si attaglino
maggiormente ai loro bisogni di consumatori e cittadini; vogliono
servizi di qualità, ovunque vivano, li vogliono accessibili, e
vogliono avere una maggiore possibilità di scelta. Quanto agli
operatori dei servizi, non vogliono che tutto ciò che fanno sia
dettato centralmente, ma vogliono avere la libertà di innovare e di
elevare gli standard offerti. Noi dobbiamo usare la loro esperienza,
e fidarci delle loro capacità.
In sintesi, dobbiamo costruire sui nostri successi passati e
rimodellare i nostri servizi pubblici di modo che vadano incontro ai
nuovi bisogni e alle nuove ambizioni, e al tempo stesso continuare a
garantire una copertura universale. Nel nostro sistema sanitario,
per esempio, negli ultimi cinque anni abbiamo introdotto nei centri
cittadini gli ambulatori privati dove si può andare senza
appuntamento, una guardia medica telefonica attiva 24 ore su 24, e
stiamo sperimentando nuovi sistemi di prenotazioni ospedaliere –
tutti modi per mettere il paziente al centro del sistema. Alcune di
queste innovazioni possono sembrare scontate in Italia, ma per la
sanità britannica si è trattato di miglioramenti radicali.
2. Tra i punti più controversi di dibattito c’è la tematica
del lavoro: se cioè la sinistra debba promuovere una maggiore
flessibilità nel mercato del lavoro, o difendere – se non
addirittura espandere – le grandi conquiste fatte in passato dalle
socialdemocrazie in termini di tutela del posto di lavoro, di
legislazione del lavoro e di potere sindacale. Quali politiche
dovrebbe perseguire, a suo avviso, la nuova sinistra?
Non capisco bene dove stia la controversia. Non credo sia un gran
risultato per la socialdemocrazia – o per chiunque altro –
garantire alti tassi di disoccupazione e bassa crescita.
Il problema è trovare il giusto equilibrio fra la protezione di chi
lavora, la creazione di posti di lavoro di qualità e ben pagati, e
il dare alle persone la possibilità di occuparli con successo. Dopo
tutto, ci sono poche ingiustizie sociali più gravi del negare a
qualcuno un lavoro. Il modo migliore per distribuire la ricchezza,
combattere l’esclusione sociale e accrescere l’autostima e il
coinvolgimento nella società, è creare posti di lavoro. E’ per
questo che l’impresa e la giustizia sociale sono state le forze
trainanti del governo laburista in Gran Bretagna.
Peraltro, non possiamo neppure ignorare l’impatto della
globalizzazione sulle nostre economie e sui nostri paesi. La
globalizzazione è un fatto, non una scelta. Ma questo non significa
che dobbiamo sposare politiche ultra-liberali o thatcheriane. La
scelta è tra adagiarsi e lasciare la gente alla mercé dei potenti
cambiamenti messi indotti dalla globalizzazione, come vorrebbe la
destra, o aiutare e sostenere i nostri cittadini ad adattarsi ai
cambiamenti e insieme a cogliere le opportunità che questi
impongono.
Io credo che compito del centrosinistra sia sostenere le persone in
una fase di reali incertezze, e aiutarle a trovare un lavoro
soddisfacente. E questo, naturalmente, significa aiutare a creare le
condizioni perché le aziende fioriscano e creino posti di lavoro,
mentre un mercato del lavoro eccessivamente rigido può invece
danneggiarle. Le pur difficili decisioni che abbiamo preso per
garantire stabilità all’economia, hanno aiutato in Gran Bretagna
la creazione di un milione di nuovi posti di lavoro dal 1997 a oggi.
Accanto a ciò, però, abbiamo introdotto regole efficaci per
garantire una concorrenza leale e tutelare lavoratori e consumatori.
Altro punto cruciale è mettere una maggiore enfasi sulla formazione
scolastica e professionale. Introducendo l’aiuto personalizzato
reso disponibile dal New Deal, per esempio, abbiamo ridotto del 75%
la disoccupazione giovanile di lunga durata.
Infine, bisogna garantire una serie di standard minimi sul lavoro. A
volte si dimentica che è stato questo governo, al termine di una
campagna durata un secolo, a introdurre per la prima volta un
salario minimo legale e miglioramenti nelle protezioni per i
lavoratori dipendenti, compreso l’innalzamento del sussidio di
maternità e il diritto alle ferie pagate – di nuovo, per la prima
volta nella storia britannica. Abbiamo inoltre dato ai nostri
sindacati nuovi diritti, a partire da quello al riconoscimento
giuridico. Queste non sono azioni da governo neo-liberale e di
destra.
Chi accusa di tradimento chiunque nel centrosinistra adotti
politiche favorevoli al mercato, deve spiegare ai nostri elettori
come loro e le loro famiglie possono trarre vantaggio da una
disoccupazione alta. Non possiamo permetterci di restare prigionieri
di idee vecchie, o di interessi che, da destra o da sinistra, si
oppongano al cambiamento.
3. Alle elezioni del 2001 il Labour si presentò con un programma
coraggioso che proponeva di alzare le tasse per finanziare la scuola
e la sanità pubblica, mentre il resto del mondo si crogiolava nella
speranza di ridurre la pressione fiscale. Il vostro era solo un
tentativo di mitigare le conseguenze specifiche del thatcherismo, o
espandere i servizi pubblici può diventare una delle
caratteristiche politiche della nuova sinistra anche altrove?
Sotto la guida del New Labour la Gran Bretagna resta, in base agli
standard europei, un paese a bassa imposizione fiscale. Perché noi
crediamo che una tassazione bassa aiuti a generare crescita, lavoro
e ricchezza.
Siamo altresì convinti, però, che i servizi pubblici siano vitali
più che mai per raggiungere gli obiettivi del centrosinistra. E non
c’è dubbio che per decenni ai servizi pubblici britannici siano
stati negati gli investimenti necessari. Gli stessi elettori, in
Gran Bretagna, lo hanno riconosciuto. Per questo erano pronti a
sostenere un partito che prometteva investimenti nei servizi
pubblici al posto di insostenibili riduzioni fiscali.
Tuttavia, era altrettanto importante che riuscissimo a dimostrare di
saper gestire l’economia con competenza. Il risultato delle scelte
ardue che abbiamo compiuto nei nostri primi anni al governo, scelte
a volte impopolari a sinistra, è che l’inflazione, i tassi
d’interesse e la disoccupazione sono più bassi che negli ultimi
decenni. E questo ci ha consentito di disporre di maggiori risorse
per migliorare i servizi pubblici, anziché dover fare i conti con
bilanci in perdita.
L’ultimo punto fondamentale, però, è che l’elettorato deve
potersi fidare del fatto che queste risorse aggiuntive siano
utilizzate per migliorare i servizi pubblici dalle fondamenta. Per
questo è essenziale che gli investimenti si accompagnino alle
riforme. Se vogliamo trasformare i nostri servizi, le due cose
devono andare insieme.
4. Da quando lei è al governo il coinvolgimento britannico in
iniziative militari – dalle operazioni di polizia internazionale
alle guerre umanitarie – è diventato più frequente. E’ solo il
risultato della crescente instabilità internazionale, o una svolta
di politica estera, segno di un una rinnovata dottrina
internazionalista? E in questo secondo caso, come risponde a chi
sottolinea come la cosiddetta comunità internazionale abbia la
tendenza di scegliersi i nemici solo in aree vitali per gli
interessi occidentali, mentre le atrocità che avvengono altrove (Rwanda,
Myanmar…) non vengono mai affrontate?
E’ senz’altro vero che la comunità internazionale non ha agito
con sufficiente decisione in Rwanda, e io stesso ho detto
pubblicamente in più occasioni che spero sapremo agire diversamente
se dovessimo trovarci di nuovo di fronte a una situazione di questa
gravità. Ma la Gran Bretagna, per esempio, è intervenuta
direttamente in Sierra Leone per sostenere il governo
democraticamente eletto nel corso di una nuova, orribile guerra
civile. Lo abbiamo fatto perché era giusto, non perché fosse
un’area vitale per gli interessi occidentali.
Più in generale, credo che la spiegazione del maggior
coinvolgimento al di fuori dei confini, non solo nostro ma di molte
altre nazioni, stia nella maggior consapevolezza del fatto che il
mondo è più interdipendente di quanto non lo sia mai stato in
passato, e che l’instabilità o la fame in una parte del globo
possono velocemente produrre conseguenze anche nei nostri stessi
paesi. A modo loro, i terrificanti attentati terroristici dell’11
settembre negli Stati Uniti sono stati una conseguenza del
precedente disimpegno del mondo verso l’Afghanistan. Quello stesso
disimpegno aveva anche fatto sì che l’Afghanistan diventasse la
principale fonte dell’inondazione di eroina in Gran Bretagna e nel
resto d’Europa. Insomma, esito delle guerre civili o delle crisi
umanitarie non sono solo la tremenda perdita di vite umane o le
immani sofferenze della popolazione, ma anche l’enorme numero di
profughi che attraversano le frontiere. Per cui farsi coinvolgere
nel tentativo di porre una soluzione a queste crisi non è solo
giusto in linea di principio, ma è anche nel nostro interesse.
5. Spesso il governo britannico è stato al centro delle critiche
per la sua fedeltà agli Stati Uniti. Ritiene che anche gli altri
paesi europei debbano partecipare maggiormente che in passato agli
interventi militari all’estero?
Non credo certo di dovermi scusare del fatto che la Gran Bretagna
sia considerata una buona amica degli Stati Uniti. Un forte legame
tra i nostri due paesi è nell’interesse di entrambi, ed è anche,
credo, nell’interesse dell’Europa e della comunità
internazionale più vasta. I valori fondamentali dell’America –
democrazia, libertà, tolleranza e giustizia – sono comuni anche
alla Gran Bretagna e all’Europa, e attorno a essi stiamo
costruendo una partnership globale. Ragion per cui credo che la
nostra amicizia con l’America sia un elemento di forza, come lo è
la nostra appartenenza all’Unione europea.
A questo proposito credo inoltre che ci sia una generale
consapevolezza della necessità dei paesi europei di modernizzare e
migliorare i propri strumenti di difesa. In questo modo possiamo
assicurare un più forte contributo europeo alla gestione delle
situazioni di crisi, all’interno della Nato come nelle situazioni
dove la Nato non è coinvolta.
6. Spagna, Italia, Austria… Più recentemente Danimarca, Francia e
Olanda. Che insegnamento deve trarre la sinistra europea
dall’imponente ritorno sulla scena dei partiti conservatori?
E’ curioso: appena un paio di anni fa nelle interviste mi toccava
rispondere a domande sul motivo dello straordinario ascendente del
centrosinistra in Europa… Peraltro non dobbiamo dimenticare che il
cancelliere Schroeder ha appena ottenuto la rielezione in Germania,
così come Goran Persson in Svezia, e che Olanda e Austria stanno
per tornare a votare – due paesi dove i populisti di destra hanno
mostrato il loro vero volto. Insomma, credo sia necessaria una certa
cautela nel cercare insegnamenti di carattere generale da quelli che
restano specifici panorami elettorali di ciascun paese.
C’è però, forse, una lezione che riguarda tutti i partiti di
centro – che siano o meno al governo – ed è che non dobbiamo
mai dare per scontato l’elettorato, né aver paura di cambiare.
Credo sia anche folle da parte nostra evitare di prendere in
considerazione i timori collettivi nei confronti dei comportamenti
anti-sociali, della criminalità o dei profughi. La sfida sta
proprio nella capacità di modellare politiche che siano coerenti
con i nostri valori e che insieme siano in grando di affrontare
queste paure.
7. Lei ha personalmente incontrato, in più di una occasione,
l’uomo che i militanti della sinistra italiana detestano con
maggior trasporto: Silvio Berlusconi. Che opinione si è fatto
dell’uomo e della sua leadership politica?
Come primo ministro del Regno Unito è previsto che io lavori
costruttivamente con i rappresentanti eletti di tutti i nostri
partner europei, e questo è esattamente quel che faccio con
Berlusconi. Spetta agli italiani, non a me, scegliersi il primo
ministro. Comunque io con lui ho un buon rapporto e lavoriamo
assieme, per esempio, sulle politiche che rimuovano le barriere alla
competizione, all’innovazione e all’occupazione.
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