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Il
fordismo fa bene alla sanità
Le proposte di Cavicchi per orientarsi nella crisi del modello universalistico
Ivan Cavicchi, "Salute e Federalismo. Forma e contenuti dell'emancipazione", Bollati Boringhieri, Torino 2001, pagg. 252, 30.000 E 15,49.
E pluribus unum è il motto del federalismo americano. Ricondurre il tutto all'unità, lasciando che l'individualità rimanga tale. Viceversa, la forma moderna di stato dell'Europa occidentale e giacobina è una forma politica che ha inglobato la diversità fino ad annullarla.
La nascita dei grandi sistemi sanitari europei, a partire dal modello inglese di Lord Beveridge degli anni Quaranta, si fondava proprio sul l'eliminazione delle differenze. Il sistema sanitario era universalistico in tanto e per quanto forniva le stesse prestazioni a tutti i cittadini. La prima delle due logiche sottese da questa visione era quella tayloristica e fordista: fornire sia ai ricchi che ai poveri quelle prestazioni corrispondeva al principio della produzione di massa della società moderna. Le economie di scala che si realizzavano nella fornitura universale dei servizi sanitari erano l'equivalente della catena di montaggio della Ford T, la prima automobile prodotta in serie. La medicina da arte diventava tecnologia, e quindi riproducibilità. Il secondo principio fondante era poi quello dell'annullamento delle differenze economiche e sociali legate alla casualità della nascita o della condizione economica.
Questo modello è stato più o meno sostenibile fino alla fine dei "magnifici 30 dell'economia", e cioè fino agli anni Ottanta, quando l'Europa della stagflazione si trovò di nuovo, per la prima volta dal dopoguerra, a confrontarsi con il problema della scarsità. E della scarsità, i sistemi sanitari sono stati e continuano a essere il luogo cruciale.
Il sistema universalistico di Beveridge si fondava non soltanto sulla concezione keynesiana dello stato interventista, ma anche su quella. delle aspettative crescenti. L'universalismo significava svincolare le decisioni dal territorio nella duplice dimensione orizzontale - ovvero del non tener conto delle specificità cliniche, sociali ed economiche di una data popolazione -, e verticale, nel senso che il sistema non considerava i costi crescenti delle nuove tecnologie mediche. La radice dell'esigenza di un federalismo sanitario sta proprio qui, nell'insostenibilità di una spesa svincolata dal prelievo, e inoltre nel fatto che la redistribuzione verticale non assicura più l'equítà sociale poiché ogni ulteriore incremento del prelievo a livello centrale coincide in realtà con una redistribuzione che avvantaggia il ceto medio, ma che provoca oneri insopportabili sia per le fasce più alte che per quelle più basse della popolazione.
Diviene a questo punto necessario introdurre nella sanità, come in altri ambiti delle politiche pubbliche, una valutazione basata sul calcolo costi-benefici. Garantire universalmente tutto a tutti è diventato impossibile man mano che l'avanzare dello sviluppo tecnologico fa sì che i costi non siano più una variabile dipendente dalle politiche pubbliche ma divengano un variabile indipendente rispetto al prelievo fiscale.
E' proprio a partire da questo momento che i sistemi sanitari di tutti i paesi europei - anche di quelli più fortemente centralizzati si pongono il problema d'introdurre dei meccanismi di responsabilizzazione della spesa. Per alcuni anni questi vengono individuati semplicemente in una "razionalizzazione" weberiana della stessa: l'instaurarsi di controlli tecnocratici, che "saltano" il livello politico, viene percepito come una misura sufficiente per ricondurre la spesa sanitaria all'interno delle compatibilità economiche del bilancio pubblico. L'illusione dura poco. Ci si rende presto conto che la tecnocrazia, che vede la sua controparte medica nella evidence-based medicine, raggiunge solo parzialmente questo scopo. Il motivo è che la visione tecnocratica ha un difetto insopprimibile: considera l'individuo come una macchina, behavioristica del tipo stimolo-risposta, incapace di decisioni razionali basato su incentivi positivi o negativi. Si ottengono quindi economie di spesa e usa maggiore efficienza, ma il problema fondamentale del mismatching tra
aspettative e risorse limitare non viene risolto.
Il federalismo rappresenta la soluzione, o forse soltanto la tentazione, rispetto alla via tecnocratica. Esplorato fino in fondo l'albero delle possibilità manageriali della gestione efficientistica della medicina, occorre tornare alla logica degli incentivi del calcolo costi-benefici implementato a livello dei singoli individui/pazienti. La logica macroeconomica deve cioè cedere il passo alla logica microeconomica. E il federalismo è la visione istituzionale entro cui la "new institutional economics" trova la sua realizzazione.
Il federalismo non è inoltre un dato universale. Bisognerebbe piuttosto parlare di "federalismi" poiché ogni paese declina questa esigenza secondo le sue peculiarità culturale e istituzionali. Lo abbiamo visto, in Italia in questi ultimi anni. La riforma sanitaria, che riforma a sua volta l'implementazione del Sistema sanitario nazionale concepito negli anni Ottanta secondo il vecchio disegno di Beveridge, porta alla scoperta della dimensione "locale" - e talvolta persino di quella comunitaria. Una dimensione che implica una responsabilizzazione sia degli utenti sia degli agenti della sanità, dove gli agenti non sono soltanto i medici, ma anche il personale paramedico, i managers e, soprattutto i "politici" locali. La sanità, dunque, viene regionalizzata come tentativo di smantellarne non gli "scopi" dell'universalismo, ma di smantellarne i "mezzi". Per un certo periodo il nostro paese vivrà esattamente questa scissione: cercare di utilizzare la logica "federalistica" ed "efticientistica" come mezzo per mantenere gli scopi del sistema universalistico. Si tratterà però soltanto di una fase di transizione. Nella realtà, infatti, l'universalismo alla Beveridge è semplicemente incompatibile con la logica di un mercato federale, ovvero della coincidenza tra prelievo e spesa, e della coincidenza tra area territoriale dell'azione collettiva e area dei servizi sanitari erogati.
L'ultimo libro di Ivan Cavicchi rappresenta un pregevole tentativo di sviluppare i concetti
del federalismo all'interno del Ssn. Con grande acume, Cavicchi percepisce che non è possibile parlare di federalizzazione se non si chiariscono e non si rendono operativamente accettabili tutta una serie di prospettive 'tecniche' della sanità. Questa è la ragione per cui il suo libro non è soltanto un'indagine sul federalismo ma, innanzitutto, una ricerca sui meccanismi che determinano l'offerta e la domanda di sanità nel mondo moderno e sui processi attraverso i quali la medicina genera essa stessa i propri paradigmi e li propone alla scelta pubblica. Cavicchioli non cade nella facile tentazione di credere che la pura coincidenza tra spesa sanitaria e prelievo rappresenti la soluzione a tutti i problemi della situazione italiana. Questa coincidenza permette di ottenere un'efficienza e un'efficacia della spesa soltanto a condizione che i "costi di transazione" siano sufficientemente bassi. Il che significa garantire che il flusso informativo da medico a paziente, da paziente a istituzioni, e da paziente e medico verso le istituzioni non sia unidirezionale, ma bidirezionale e cioè simmetrico. Ma in effetti, ancor oggi la medicina continua a soffrire proprio di quel difetto fondamentale che il federalismo non è in grado di risolvere di per sé: un'asimmetria informativa la quale, permanendo, non consente, alcuna ristrutturazione in termini di scelte collettive che sia in grado di assicurare quella fornitura di servizi sanitari a prezzi ragionevoli, in quantità ragionevoli e di qualità ragionevole che i propugnatori del federalismo sanitario si propongono.
L'autore mostra con chiarezza
come la logica "macro" del federalismo non potrà mai funzionare per i
sistemi sanitari finché i meccanismi "micro" non saranno determinati
con chiarezza ed efficienza. La contrapposizione tra centralismo e federalismo,
cioè, è in realtà una contrapposizione tra macro e micro.
Ma é esattamente questo il problema: ciò che si pone a livello micro
deve essere risolto a livello micro e dentro paradigmi cognitivi e scientifici
che non possono rinviare al "totalmente altro" della dimensione macro.
Cavicchi, in questo, si dimostra un coerente sostenitore di quella logica
dell"'individualismo metodologico" che forma, da Raymond Aron
fino a Raymond Boudon,
una delle correnti fondamentali della sociologia contemporanea