Le forbici sullo Stato sociale
Addio sussidi e servizi: così i cittadini pagano la stretta
welfare
In realtà Regioni e Comuni sono costretti da tempo a fare economie sugli
aiuti ai deboli
La Finanziaria che ha ridotto i fondi da trasferire alle città è stata
solo l´ultimo segnale
GIANCARLO MOLA
ROMA - La crisi
dello stato sociale è l´assegno di 360 euro al mese che in tre anni ha
sostenuto duecentomila italiani indigenti. Era il cosiddetto reddito
minimo di inserimento. Era, perché dal 30 giugno la sperimentazione sarà
chiusa. Ma la crisi del welfare è anche il taglio al fondo per gli
affitti delle famiglie più bisognose, un contributo annuo fino a seimila
euro. A cui quest´anno dovranno rinunciare 77.000 famiglie. Non è
finita: nel 2002-2003 le scuole italiane hanno fatto posto a ottomila
nuovi alunni disabili. Ma nello stesso periodo gli insegnanti di sostegno
sono diminuiti di cinquecento unità e per il prossimo anno è all´orizzonte
un ulteriore taglio di mille posti. E poi mancano i posti negli asili,
migliaia di famiglie sono in lista d´attesa: il Nord copre il 93 per
cento della domanda, al sud non si arriva all´ottanta.
Sì, la crisi del welfare è soprattutto questione di numeri: cifre che
spariscono dal bilancio dello Stato, diventando così tagli di servizi.
Per fronteggiare le emergenze, spesso bisogna ricorrere agli artifici
contabili. Tre giorni fa la Camera ha salvato l´assegno per il terzo
figlio. In Finanziaria c´erano 33 milioni di euro, ne servivano 150. Il
governo è stato costretto ad attingere ai fondi, provvidenzialmente non
utilizzati, delle pensioni minime.
La stretta del governo di Silvio Berlusconi sta mettendo in difficoltà
soprattutto Regioni e Comuni, che sono i veri erogatori dei servizi. La
Finanziaria ha tagliato del 2 per cento i trasferimenti alle città e i
sindaci, alla fine, si sono trovati con 900 milioni di euro in meno. Dove
tagliare? Visto che il 40 per cento delle spese dei Comuni riguarda i
servizi ai cittadini e che le altre voci (come personale e mutui) sono
praticamente fisse, c´è poco da scegliere. «L´analisi fatta dalla
Corte dei conti lo scorso anno toglie ogni dubbio: a una decurtazione
della spesa corrisponde automaticamente una decurtazione dei servizi»,
spiega il presidente dell´Anci e sindaco di Firenze Leonardo Domenici.
Che aggiunge: «Lavoriamo con un laccio intorno al collo. Abbiamo poche
risorse ma soprattutto poca autonomia. Per far quadrare i conti siamo
costretti a fare operazioni di finanza straordinaria, ma non possiamo
andare avanti così all´infinito».
Le Regioni non stanno meglio. Il governo aveva proposto di dimezzare il
Fondo nazionale per le politiche sociali. C´è stata un´insurrezione. «Sono
stato il primo a dare battaglia», spiega Antonio De Poli, Udc, assessore
veneto per le Politiche sociali e coordinatore delle Regioni sulla
materia. «Abbiamo vinto, siano soddisfatti e anche ottimisti per il
futuro. Ma ci vuole certezza, non si può ogni anno fare la guerra».
Dopo la rivolta dei governatori, infatti, il ministro del Welfare Roberto
Maroni ha fatto retromarcia: quasi 900 milioni di euro alle Regioni,
contro il 770 dell´anno precedente. Cifre da leggere, però. Se si
detraggono i 161 milioni vincolati a una nuova misura - i contributi agli
sposini che decidono di acquistare casa - e i 35 destinati alle ultime
rate del reddito minimo d´inserimento (che negli scorsi anni godeva di
fondi aggiuntivi), ci si accorge che le Regioni possono contare su 700
milioni di euro. «Il taglio, di fatto, c´è stato», dice l´assessore
ai servizi sociali dell´Emilia Romagna Gianluca Borghi. «E se si va
avanti di questo passo in futuro non saremo in grado di mantenere gli
standard di oggi».
La vera emergenza riguarda adesso il reddito minimo di inserimento. Era
stato introdotto dal centrosinistra in forma sperimentale. Con l´obiettivo
di farne dal 2004 una misura generalizzata. «L´esperimento è andato
male, bisogna cambiare registro», dice il sottosegretario al Welfare
Maria Grazia Sestini. «Per il futuro puntiamo su un reddito di ultima
istanza, per sostenere solo chi si trova in condizioni di vera povertà. L´idea
è modulare il contributo a seconda delle aree del paese: 500 euro a
Milano valgono molto meno di 500 euro a Cosenza».
Sul reddito minimo la valutazione non è però unanime. «Lo vadano a dire
alle quattromila famiglie di Napoli che è stato un fiasco», attacca
Livia Turco responsabile Ds per il welfare. «I problemi, certo, non sono
mancati. Ma nella stragrande maggioranza dei casi è andato benissimo.
Anche perché non era solo un assegno ma un piano concreto di inserimento
sociale».
Il passaggio al nuovo stato sociale proposto dal governo, fra l´altro,
marcia nell´incertezza. La denuncia arriva dai sindacati. «I tavoli di
discussione sul libro bianco sono praticamente fermi», accusa Achille
Passoni segretario confederale della Cgil. Che aggiunge: «Il gioco è
chiaro. Il governo, per finanziare le sue politiche fiscali, ha esaurito
le risorse per i servizi sociali. Ha tagliato, e continuerà a farlo negli
anni a venire. Fino a quando non verrà a dirci: non ci sono più soldi
per le politiche pubbliche, l´unica via di sopravvivenza è affidarsi ai
privati».
L´Europa, intanto, continua ad allontanarsi. «Nella lotta all´esclusione
sociale - afferma la sociologa Chiara Saraceno - l´Italia è la pecora
nera. E soprattutto per anziani non autosufficienti e bambini siamo a un
passo dall´emergenza. Basti pensare che una domanda di iscrizione all´asilo
nido su quattro viene rigettata per mancanza di posti». Il problema è
confermato dall´Eurostat, che ha calcolato l´incisività delle politiche
sociali. In Italia, se lo Stato interrompesse l´erogazione di servizi
assistenziali, la percentuale di popolazione a rischio di povertà
salirebbe pochissimo: dal 18 al 21 per cento. In Svezia, tanto per capire,
dal 9 al 28 per cento.
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