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Professioni
sociali di rilievo nazionale
di Paola Piva, Studio Come
2004
La conferenza nazionale sulle professioni sociali che si terrà a Roma il 23 febbraio per iniziativa di Lega delle Autonomie Locali, ANCI, UPI e altri organismi importanti del settore[1], vuole mettere in campo una proposta di applicazione dell’art.12, L.328/2000, per dare un orizzonte certo alle tante professionalità che in questi anni sono cresciute nel settore. Gli interessi in campo attorno a questo tema sono molti, i giochi ancora aperti, ma nel prossimo futuro alcune regole dovranno mettere ordine in un sistema professionale assai fragile e un mercato del lavoro frantumato.
Ruolo
degli Enti locali
Vediamo brevemente come si collocano i soggetti che governano la domanda di lavoro sociale. Gli attori pubblici - Comuni, Distretti e Zone sociali – vorrebbero definire le piante organiche dei servizi, avendo a disposizione un repertorio limitato di figure, con profili, competenze e percorsi formativi chiaramente individuati. Per contro, le imprese sociali che gestiscono in appalto i servizi devono tutelare gli attuali occupati; molti lavorano da anni senza qualifica o con titoli regionali e solo in piccola parte appartengono a professioni riconosciute a livello nazionale. Per questi, è prioritario ottenere un titolo di valore all’esperienza acquisita e che sia riconoscibile nel mercato del lavoro.
Gli enti locali sono a un bivio: i servizi alla persona esigono competenze sempre più raffinate, ma qualificazione più elevata trascina con sé un aumento del costo del lavoro. Inoltre, i dirigenti dei servizi non sempre trovano maggiore preparazione nei giovani che escono dall’università, rispetto a quelli formati nei corsi regionali, che sono molto più brevi ma più mirati all’operatività. Le lauree triennali a valenza professionale nel settore sociale (classe 6, 18, 36, 34, 3, 14) sono ancora in fase di rodaggio, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra sapere teorico e competenze operative. Esemplare è il caso dell’educatore professionale; nel passaggio dalle scuole regionali alla laurea triennale, questa figura ha acquistato uno status di livello superiore, forse tra qualche anno porterà anche una qualità superiore nei servizi. Ma per ora molti gestori rimpiangono l’educatore formato alla vecchia maniera, anche là dove le scuole regionali hanno stretto accordi con le università per trasferire il loro patrimonio didattico all’interno dei corsi di laurea (Piemonte, Lombardia e altre).
Figure
nazionali e iniziative delle Regioni
Oggi le professioni sociali che hanno un riconoscimento nazionale sono soltanto quattro[2]:
-
OSS operatore socio-sanitario, livello
di base a cui si accede dopo l’istruzione primaria
-
Assistente sociale, laurea tre anni
-
Educatore professionale, laurea tre anni
distinta per il settore sociale e il settore sanitario
-
Psicologo, laurea cinque anni.
Sono
invece moltissime le figure regionali, con nomi diversi da regione e regione, i
percorsi formativi più vari. Sul piano numerico questi operatori hanno un peso
rilevante nei servizi, ma si sentono operatori di seconda serie e fanno fatica a
consolidare una solida identità professionale.
La
frantumazione del mercato del lavoro, in un certo senso, è frutto
dell’abbondanza di offerta formativa. Un grosso contributo è venuto dal FSE,
che negli ultimi anni ha scoperto nel sociale un bacino d’impiego promettente.
A ciò si sono aggiunte le leggi di settore che hanno accompagnato le misure per
nuovi servizi con fondi per la formazione di specifici operatori; servizi per
l’infanzia (L285/97), inserimento dei disabili (L. 68/99), accoglienza di
immigrati (L.189/02) hanno promosso nuovi interventi e contestualmente nuove
figure. Alcune mappature dei corsi svolti negli ultimi anni danno conto di una
miriade di qualifiche e attestati, sparsi in rivoli minori che non sarà facile
incanalare nell’alveo delle professioni nazionali[3]
Il disordine non ha risparmiato neppure la fascia universitaria; si differenziano i percorsi formativi all’interno della stessa classe di laurea e assistiamo alla moltiplicazione di master e corsi di perfezionamento che rilasciano titoli non comparabili. In questo contesto come si comportano le agenzie di formazione? Tanto le agenzie regionali che le università cercano di contemperare due interessi divergenti: da un lato avvertono l’esigenza di programmare un’offerta in sintonia con i servizi locali e formare qualifiche ad alta occupabilità, ma dall’altro lato sembrano interessate a mantenere un ampio ventaglio di titoli, assecondando nicchie di mercato che si saturano in breve e lasciano all’operatore il compito di riconvertirsi.
Le Regioni sono chiamate a trovare coerenza tra la domanda di competenze dei territori e l’offerta di formazione delle agenzie. La Regione ha un vantaggio: con l’assessorato al lavoro programma i finanziamenti della formazione, con l’assessorato delle politiche sociali governa gli standard di personale dei servizi, quantità e qualità delle figure professionali (autorizzazione e accreditamento). Tuttavia i due apparati regionali si sono a lungo ignorati, lavorando come sistemi indipendenti. Recentemente molte Regioni, tra cui Campania, Umbria, Toscana, Emilia Romagna, Piemonte, Marche hanno deciso di avviare il riordino delle professioni sociali, progettando figure dal profilo netto, a cui ricondurre le qualifiche formate negli anni del disordine. Marche e Umbria sono in fase di elaborazione[4], Toscana ed Emilia Romagna hanno formalizzato il profilo dell’assistente familiare[5], Piemonte nella recentissima legge di riordino del settore oltre alle figure nazionali aggiunge l’animatore professionale socio-educativo di cui definisce il profilo[6], infine la Campania ha introdotto un nuovo repertorio delle qualifiche sociali[7].
Il repertorio della Campania
mette le basi per riorganizzare il mercato del lavoro nei prossimi anni; d’ora
in poi gli standard di personale dei servizi dovranno prendere a riferimento le
professioni riconosciute, verranno elaborati i criteri per riconoscere o
riconvertire le vecchie qualifiche nei nuovi titoli (equipollenza o misure
compensative), le agenzie formative dovranno programmare i corsi rilasciando
titoli riconosciuti o attestati con crediti spendibili per i nuovi profili. Si
tratta di un intervento che avrà i suoi effetti nell’arco di tre-quattro
anni, dà certezze agli operatori occupati e da subito introduce un dispositivo
che riordina il mercato del lavoro. Il repertorio campano a
livello laureato, vengono confermate le due figure di assistente sociale ed educatore
professionale, nelle figure di base, viene aggiunta la figura di Assistente
familiare per i lavoratori di cura che vengono assunti privatamente dalle
famiglie, ma le innovazioni più rilevanti riguardano le professioni intermedie.
In
attesa di norme nazionali, la Campania ha avvertito la necessità di codificare
5 figure:
-
Operatore
della prima infanzia
-
Animatore
sociale
-
Tecnico
di inserimento lavorativo
-
Mediatore
culturale
-
Tecnico
dell’accoglienza sociale.
- accoglienza ad ampio spettro per tutti i cittadini, non solo per quelli che richiedono una presa in carico professionale
- accoglienza di persone provenienti da paesi e culture diverse, per abbassare la soglia di accesso ai servizi pensati per la popolazione locale (scuole, ospedali, servizi sociali, centri per l’impiego, ecc.)
- sostegno alle risorse associative della comunità, non solo educazione di ragazzi deprivati, genitori incapaci e famiglie in frantumi
- avviamento personalizzato al lavoro di soggetti svantaggiati che altrimenti dovranno dipendere dall’assistenza (disabili, sofferenti psichici, detenuti, ecc.).
A
questo punto occorre una regia nazionale
La conferenza dovrà affrontare tre questioni. Primo: è opportuno regolare con norme nazionali le professioni sociali o questo obiettivo è superato nei fatti, rispetto un mercato del lavoro che in tutti i settori tende a premiare esperienze e competenze (curricula), mentre dà sempre meno valore al semplice titolo di studio? Secondo: le nuove competenze del welfare territoriale devono entrare nel bagaglio professionale delle figure esistenti o conviene far nascere figure nuove, con un corpus di conoscenze, abilità e settore d’impiego specifico? La terza domanda attiene al livello formativo di ingresso: le figure nazionali dovranno essere tutte laureate (tranne quelle di primo livello, come l’OSS) o c’è spazio per le qualifiche tecniche intermedie?
Sulla
prima questione voglio richiamare il pensiero di Adriana Luciano, esperta del
mercato del lavoro dell’Università di Torino, che in un convegno a Napoli
incoraggiava gli operatori sociali a non fidarsi del titolo di studio per trarre
forza sul mercato; in futuro tutti i vecchi strumenti difensivi - titolo, esame
di stato, ordine professionale - avranno un valore decrescente anche nel settore
pubblico. Per trovare lavoro nei servizi sociali converrà presentare un ricco
profilo di competenze e dimostrare capacità sperimentate sul campo[8].
Tuttavia, tenendo conto di questo suggerimento, il welfare è ancora nella fase
in cui sta definendo standard omogenei e questo è un passaggio necessario per
costruire infrastrutture omogenee per quantità e qualità su tutto il
territorio nazionale. Le nuovissime figure regionali non rendono superflua una
regia nazionale; anzi vanno viste come uno stimolo ulteriore per costruire un
profilo unico valevole su tutto il territorio, dando agli operatori una garanzia
in più sulle opportunità di lavoro.
Le
figure nazionali devono essere agganciate ai livelli essenziali che lo stato
dovrà garantire in modo uniforme a tutti i cittadini (Liveas)[9].
In che modo? Se da un lato i Liveas non dovranno vincolare le modalità
organizzative, in quanto spetta alle regioni e alle autonomie locali
definire come fornire i servizi, è
pur vero che per comparare la qualità dei servizi è importante che le figure
abilitate abbiano dei profili di competenza comparabili. Si conferma la necessità
di dotare il welfare di alcune professioni cardine, definite a livello
nazionale. Altre figure dovranno essere individuate a livello regionale, per
rispondere a esigenze di flessibilità organizzativa e sviluppare nuovi modelli
di cura. Ma le prestazioni comprese nei livelli essenziali dovranno essere
affidate in massima parte figure nazionali.
Prendiamo
a riferimento i documenti sui LIVEAS delle Regioni e dell’ANCI. La prima
impressione è che le attuali figure nazionali coprono quasi tutte le funzioni
riconosciute essenziali, ma una lettura più attenta mette in luce alcuni buchi.
Il più evidente riguarda i servizi per l’infanzia. Nei Liveas c’è
l’asilo nido dove occorre impiegare un operatore specifico. Si tratta di
quella figura, oggi variamente
chiamata educatore della prima infanzia, operatore dell’infanzia, operatore
dei nidi, che per ora viene formata sia dalle regioni che dalle università con
percorsi difformi[10].
Coerenza vuole che se i servizi per la prima infanzia sono essenziali in tutti i
territori, anche il profilo dell’operatore debba essere definito e formato con
standard nazionali. Altre due funzioni indicate nei LIVEAS mi sembra che
richiedano competenze distintive tali da individuare una figura professionale
specifica: l’animazione e l’inserimento lavorativo.
Mettiamo
a fuoco queste tre aree emergenti per rispondere alla seconda domanda: vanno
affidate all’assistente sociali e all’educatore o conviene creare tre nuovi
profili di rilievo nazionale?
Anche
l’inserimento lavorativo è una funzione prevista nei Liveas in forte
crescita; può essere svolta sia da assistenti sociali che da educatori;
tuttavia ha dato luogo a una leva di operatori specializzati che si sono formati
nei SIL e nei programmi di inserimento (L.68/99) e fanno da ponte tra servizi di
formazione e orientamento al lavoro, aziende, cooperative sociali B, operando in
affiancamento sul lavoro (tutor). Le competenze del tecnico
di inserimento nel lavoro sono duplici: da un lato la capacità di valutare
il potenziale produttivo del soggetto, dall’altro il potenziale di accoglienza
e riabilitazione dell’azienda e del ruolo lavorativo. Anche questa figura regionale dovrebbe trovare riconoscimento nel
mercato del lavoro nazionale.
Un
discorso a parte merita la mediazione interculturale. Questa funzione è stata
introdotta nei servizi sanitari, sociali, educativi, scolastici a partire dagli
anni ’90, in seguito alla presenza crescente di extracomunitari. Si tratta di
equipe ridotte dal punto di vista numerico, però svolgono un ruolo essenziale
di garanzia per le persone che non si esprimono bene, non comprendono
l’italiano, non conoscono le norme, sono intimiditi nei confronti dei nostri
servizi. Inoltre, la mediazione costituisce uno sbocco occupazionale per persone
immigrate, radicate da più tempo nel nostro paese, che hanno ricevuto una
formazione ad hoc promossa da regioni, comuni, Asl. Il mediatore
culturale copre un’area professionale di nicchia, forse transitoria. La
capacità di mediare dovrebbe essere incorporata nel patrimonio di tutte le
figure sociali: comprensione dei codici culturali, gestione delle differenze nel
dialogo con gli utenti, ecc. In prospettiva, l’attuale funzione dei mediatori
potrebbe essere sdoppiata: da un lato il traduttore linguistico, dall’altro
tutti i professionisti sociali capaci di riconoscere e gestire le differenze
culturali (competenze antropologiche). Questo è uno scenario di lungo periodo.
Per ora, molti servizi continuano ad aver bisogno di mediatori culturali che, a
mio avviso, vanno formati in ambito regionale; i corsi di laurea triennali sono
una buona opportunità per studenti italiani, molto meno per quelli stranieri.
La
rete territoriale dei servizi è sottoposta a molte innovazioni che richiedono
dirigenti di alto profilo. Anzi, in tema di competenze, i vertici dei servizi
sono il punto di maggiore fragilità del welfare territoriale. Sappiamo bene che
i bravi professionisti crescono e danno frutti, nella misura in cui funziona il
sistema organizzativo. Tutta l’architettura istituzionale deve trovare
rinforzi partendo dall’alto, altrimenti le nuove professioni che andiamo
proponendo in questo convegno non porteranno il valore aggiunto auspicato.
Tuttavia, a mio parere, è importante che alle funzioni dirigenti si acceda
mediante una laurea (vedi le classi ad indirizzo sociale), con il vincolo in più
di esperienze gestionali nel settore, prolungate e documentate. Pertanto, non si
tratta di codificare una figura con formazione di base specifica, bensì di
individuare le competenze distintive che sono requisiti indispensabili per
dirigere servizi sociali, reti integrate, piani di zona. Requisiti per la
selezione a ruoli direttivi dovranno essere: laurea, corsi di alta formazione
quali master e specializzazione in direzione dei servizi, ma soprattutto
esperienza[12].
L’assistente
privata (in gergo la “badante”) si sta diffondendo in tutta Italia, al nord
come al sud, nelle grandi città come nei piccoli centri[13].
Solo uno sguardo superficiale può ritenere semplice, banale, il lavoro di cura
che le famiglie affidano alla lavoratrice convivente; sappiamo invece che questo
nuovo mestiere richiede sia competenze propriamente assistenziali che competenze
relazionali sofisticate. La convivenza di una persona priva di autonomia con una
badante va vista come un equilibrio difficile e precario. Pertanto la
lavoratrice privata è vista dagli enti locali come una risorsa che va
coordinata nella rete dei servizi e qualificata con una formazione ad hoc. In
questo modo viene assicurata qualità di cura alla persona assistita e viene
tutelata la lavoratrice da rischi professionali (i medici di base segnalano che
si ammalano per lo stress).
A
questo scopo, bastano i corsi organizzati a livello locale o sarebbe opportuno
prevedere una formazione certificata a livello nazionale? Vi sono due motivi che
spingono nella seconda direzione: una formazione certificata a livello
nazionale, per esempio mediante accordo in conferenza Stato-Regioni-Città,
facilita la mobilità dei soggetti nel mercato del lavoro nazionale; inoltre,
consente alle lavoratrici più esperte e con titoli di studio adeguati di
aprirsi uno sbocco di carriera nella filiera delle professioni sociali. Conviene
considerare il lavoro in convivenza come un’esperienza a termine; ogni volta
che una badante lascia la famiglia per cercare impiego in un altro settore, si
disperdono competenze importanti, ma se le competenze vengono certificate danno
crediti per i profili nazionali, la lavoratrice sarà invogliata a restare nel
settore sociale.
Per
il riconoscimento dell’assistente familiare le Regioni hanno seguito due
strade:
-
Emilia Romagna e Campania hanno scelto
di formalizzare un corso di 120 ore con certificazione regionale di competenze
-
Toscana ha formalizzato una vera e
propria qualifica di 300 ore.
Se le
regioni sapranno concordare una linea nazionale, questo sarà un altro tassello
per lo sviluppo di mercato del lavoro omogeneo.
In
conclusione, propongo che la conferenza nazionale discuta attorno a sei punti:
-
figura unica socio-sanitaria di
educatore professionale
-
percorso formativo omogeneo per
l’assistente familiare
-
educatore della prima infanzia
-
animatore sociale
-
operatore di inserimento lavorativo.
Il
nuovo repertorio nazionale non entra in contraddizione con le soluzioni
individuate finora da alcune Regioni. Anzi, viene valorizzato il loro ruolo. In
primo luogo la Regione definisce le figure, che si aggiungono a quelle nazionali
per rispondere tempestivamente a esigenze che si manifestano localmente.
Inoltre, per la costruzione di un mercato del lavoro senza barriere, è
necessario che le Regioni concordino criteri di equipollenza per il
riconoscimento degli operatori che si spostano da una regione all’altra e o
che intendono riconvertirsi a un’altra professione.
Ma
questo non basta. Nel momento in cui verrà definito il nuovo repertorio, si
dovrà prevedere per via normativa
-
equipollenza tra le qualifiche oggi in
vigore nelle regioni e le qualifiche nazionali, vecchie e nuove
-
passaggio da una professione
all’altra, prevedendo adeguati sistemi di raccordo orizzontali e verticali,
all’interno dei singoli livelli ovvero da un livello al successivo
-
crediti formativi per i diplomati di
istruzione secondaria di area sociale (tecnico dei servizi sociali e area
socio-psico-pedagogica).
Sarà
necessario infine un consistente piano finanziario straordinario per formazione,
aggiornamento, riconversione e adeguamento delle qualifiche.
Difficile prevedere se la conferenza riuscirà a trovare un punto di equilibrio tra i diversi interessi in gioco; ma avrà dato un grande contributo se porterà alla luce le difficoltà presenti, se aiuterà gli attori in gioco a riconoscere almeno interessi convergenti e divergenti e se, a partire da questo incontro, il dialogo proseguirà su basi comuni.
[1] Altri promotori sono FORMEZ, ISFOL, ISTITS. A Studio Come è stato affidato il compito di produrre la proposta di apertura della conferenza che fa sintesi delle riflessioni sviluppate in un gruppo di lavoro allargato.
[2]
Nel settore socio-sanitario lavorano anche altri
laureati, come i sociologi che non hanno ancora il riconoscimento di figura
professionale per la rete integrata dei servizi, pur in presenza di corsi di
laurea specialistici finalizzati alla programmazione e gestione delle
politiche sociali attivati presso alcune Facoltà di Sociologia.
[3] Ricerche sono state condotte da ISFOL, FORMEZ e dalle Regioni Toscana e Campania (Studio Come)
[4] La consulenza affidata a Studio Come in Umbria ha prodotto un repertorio che è alla consultazione delle parti sociali
[5] La Toscana ha regolamentato la figura dell’assistente familiare con D.D. 7.197 del 18.12.2002; l’Emilia Romagna con DGR 924/2003
[6] LR Piemonte 2/2004, art.32
[7] D.G.R. Campania 2.843/2003
[8] Regione Campania, Convegno Le Professionali sociali in Campania, Napoli, 18 giugno 2003
[9] Vedi documento delle Regioni e documento dell’ANCI
[10] Il problema è avvertito da anni, da quando è stato soppresso il titolo d’istruzione di maestra d’asilo, soprattutto nelle Regioni che hanno una rete di servizi per l’infanzia solida ed estesa, che sono in grave difficoltà nel ricambio del personale.
[11] Pur condividendo con l’educatore professionale una base di competenze comuni, il cuore della formazione dovrà avere per asse il bambino 0-6 anni e il rapporto genitore-bambino in questa prima fase della vita.
[12]
A riguardo, si segnala l’attività di ricerca dell’Isfol, in corso di
svolgimento, finalizzata all’analisi dell’offerta di alta formazione ed
all’elaborazione di proposte formative per l’aggiornamento professionale
ed il sostegno al ruolo in favore degli operatori coinvolti nel management
zonale.
[13] Una rassegna delle ricerche sulle badanti e delle esperienze messe in campo dagli enti locali è disponibile nel sito di Studio Come www.studiocome.it/articoli.asp