Ce lo aspettavamo. Ma non per questo delusione e preoccupazione sono
minori. La Finanziaria appena trasmessa all´esame del Parlamento rende
ancora più critica la situazione della scuola e dell´università
italiane, in un momento già difficile, di ardua transizione verso nuovi
ordinamenti. Mi limiterò a due osservazioni.
Senza nuovi investimenti il nostro sistema educativo - dalle elementari
all´istruzione universitaria - rischia un decadimento irreversibile.
Questa elementare verità è unanimemente condivisa, salvo che nel momento
in cui bisogna davvero aprire il portafogli. Allora sono sempre altre le
priorità e le emergenze da fronteggiare. Le promesse elettorali (dove la
scuola è immancabilmente al primo posto) vengono subito messe da parte:
scatta un riflesso condizionato cui hanno obbedito, per cinquant´anni,
tutte le nostre politiche pubbliche di allocazione delle risorse. La
scuola e l´università sono diventate così terreni secondari, zone
grigie dove prevale ormai da sempre una specie di logica del ribasso:
cattivi servizi, basse remunerazioni e pochi accertamenti di merito, in
cambio di una rarefazione degli obblighi e dei doveri; e per gli studenti,
di minor rigore. Uno scambio perverso, ma mai seriamente contrastato né
dai sindacati (anzi), né dai movimenti studenteschi (o da quel che è
rimasto di loro).
Oggi però questo antico costume si riveste, nel centro destra, di un´ideologia
nuova (per così dire). La privatizzazione. Che il sistema educativo
pubblico scada pure, ci salveranno le scuole e le università private. Ma
si tratta di una mistificazione, che va denunciata senza cedimenti. E non
per ragioni ideologiche, ma solo storiche e funzionali. In un paese come l´Italia,
che ha mantenuto a lungo una fortissima prevalenza di strutture educative
statali, una seria alternativa privata non si improvvisa in pochi anni, ma
ha bisogno di tempo, e ha bisogno soprattutto - per misurarvisi e per
competere con esso - di un sistema pubblico in piedi, che continui a
rappresentare un parametro e un punto di riferimento. Se questo viene a
mancare, il degrado sarà generale e irreparabile, e travolgerà anche le
istituzioni private che si vorrebbero far nascere (del resto, un simile
effetto di trascinamento verso il peggio mi pare si stia vedendo benissimo
già in tutte le università private di recente costituzione).
La seconda osservazione riguarda invece un aspetto specifico della legge
finanziaria, in riferimento alla vita delle università. L´art. 21 del
provvedimento stabilisce il divieto di nuove assunzioni da parte delle
amministrazioni pubbliche per tutto il 2003. Non mi pronuncio sull´opportunità
della decisione. Essa sembra comunque riguardare anche le università -
nonostante il loro regime di autonomia - espressamente indicate nel comma
5 del medesimo articolo.
Sento dire che il ministro Moratti avrebbe accettato questo vincolo in
cambio della concessione (in buona parte strappata) dei fondi aggiuntivi
per far fronte agli aumenti di stipendi per il personale docente - aumenti
comunque di consistenza assai esigua, che non recuperano nemmeno l´inflazione
- senza doverli scaricare sui bilanci delle università, già quasi tutte
allo stremo (la Conferenza dei Rettori aveva giustamente minacciato su
questo punto fuoco e fiamme). Non so se sia vero, e posso comunque capire
le ragioni del ministro. Resta tuttavia che il blocco delle assunzioni per
un intero anno, proprio mentre l´università sta sperimentando la
riforma, e quando tutti, dati alla mano, denunciano l´invecchiamento
della docenza, è una scelta assai grave, che rischia di compromettere un
turn over delicatissimo, di vanificare aspettative legittime, di
scoraggiare (se non bastasse quanto già è stato fatto in passato) le
attese dei più giovani.
Ma c´è di più. Il divieto prevede una deroga (commi 5 e 6 sempre dell´art.
21). Gli Atenei potranno procedere a un limitato reclutamento attingendo
da un fondo comune costituito presso il ministero dell´Economia (100
milioni di Euro per il 2003, e 200 per il 2004, si legge nel testo: ma il
blocco non è previsto per il solo 2003?). Ebbene: chi gestirà questo
fondo? E con quali criteri? Non si può pensare ad altri se non al
Ministero dell´Istruzione e dell´Università. Ma in tal modo si
finirebbe col riproporre un modello accentratore e centralistico di
sviluppo della docenza, che i nuovi ordinamenti universitari avevano
sepolto da anni, e che credo proprio nessuno riesca a rimpiangere.
Vogliamo tornare a quell´epoca? Sarebbe un colpo mortale all´autonomia
universitaria, che a parole tutti difendono. E non si dica che si
tratterebbe di un´eccezione: la storia della legislazione italiana è
piena di riforme (e di controriforme) introdotte all´inizio in via di
eccezione.
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