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1. I contenuti del testo, a cura del professor Ignazio R. Marino, sono il risultato di un lavoro discusso e condiviso durante il seminario programmaico organizzato dalla Fondazione Italianieuropei il 5 luglio 2005 a Roma, a cui hanno partecipato Augusto Battaglia, Giuseppe Benagiano, Alessandra Cattoi, Claudia Cirillo, Guido Maria Filippi. Giovanni Giannobile, Enrico Rossi e Livia Turco.
A fronte di un lento declino della qualità delle prestazioni dell’attuale Servizio sanitario nazionale (Ssn) è compito di chi si riconosce in un progetto politico alternativo all’attuale maggioranza al governo avanzare delle proposte programmatiche per una trasformazione sostenibile della sanità negli anni futuri. Rappresentanti del mondo politico, dell’informazione, amministratori e medici hanno avviato un proficuo confronto sui temi che rappresentano oggi le priorità non più procrastinabili da affrontare per la modernizzazione e la salvaguardia del nostro sistema sanitario, in vista dell’appuntamento elettorale dell’anno prossimo. Il progetto si incentra sulla necessità di soddisfare le reali esigenze dei cittadini fornendo loro riferimenti sanitari certi, cure adeguate, sicurezza di assistenza indipendentemente dal reddito o dalla collocazione geografica. E, in altre parole, un progetto basato sull’equità e sulla parità di accesso per ogni tipo di intervento preventivo o terapeutico, ma anche sulla semplificazione dell’organizzazione e sull’umanizzazione del rapporto tra il cittadino e il sistema sanitario.
Il nostro Servizio sanitario nazionale è un bene molto prezioso e rappresenta l’unica possibilità per dare concretezza a un diritto inalienabile sancito dalla Costituzione: quello alla salute. Un diritto messo fortemente a rischio dalle nuove norme sulla devolution, che svuotano il ruolo del governo centrale e creano situazioni in contrasto con il principio costituzionale basato sull’uguaglianza.
Proponiamo delle linee programmatiche, orientate a cambiamenti concreti per garantire la sopravvivenza stessa del SSN, secondo i seguenti punti:
- emanare norme per un federalismo compatibile con l’esigenza prioritaria di eliminare gli squilibri strutturali e territoriali, allo scopo di fornire servizi sanitari adeguati e omogenei in tutto il paese;
- riorganizzare l’assistenza extraospedaliera per i più bisognosi (anziani, malati cronici e terminali, tossico- dipendenti);
- semplificare l’accesso ai servizi per tutti i cittadini, in tempi ragionevoli;
- avviare una nuova stagione di politiche per la prevenzione;
- stabilire concreti e proficui rapporti di collaborazione sicurezza di tra università, istituti di ricerca, servizio sanitario e assistenza industrie;
- aumentare le risorse, con una maggiore quota del PIL da destinare alla sanità, creare le condizioni per una maggiore efficienza e minori sprechi da parte del sistema, e stimolare ed espandere il ruolo dei fondi integrativi nel SSN;
- investire maggiori risorse nei servizi sociali con prestazioni che, pur non avendo valenza strettamente sanitaria, contribuiscano ad assicurare una qualità di vita accettabile, in particolar modo per le fasce più deboli della popolazione.
SUPERARE LE DISPARITÀ
La politica sanitaria italiana degli ultimi anni è stata purtroppo caratterizzata da un indebolimento del sistema sanitario nel suo complesso. Il SSN ha fatto non uno, ma due passi indietro: si è ritirato per lasciare spazio alle regioni secondo quanto previsto dalla riforma federalista, ma ha anche abdicato alle sue funzioni di orientamento, di controllo, di verifica e di garanzia, con il risultato che ora più che mai la sanità italiana soffre per le differenze sempre più profonde tra Nord e Sud, tra centro e periferia, tra poli di eccellenza e situazioni di degrado. Ed è proprio questo enorme divario che ci obbliga a dire che complessivamente la nostra sanità è oggi più povera e più inefficiente e di conseguenza più ingiusta. Saranno descritti più avanti, nella sezione dedicata a federalismo e SSN, alcuni esempi concreti che esprimono in maniera drammatica le differenze di qualità di cura che un cittadino rischia di ricevere in relazione alla regione nella quale vive.
C’è quindi bisogno di un’ampia convergenza politica su un progetto condiviso e capace di unificare lo sforzo di miglioramento. Questo è non solo possibile, ma perfettamente realizzabile, perché è proprio sul terreno dell’assistenza sanitaria che si possono incontrare le due grandi anime che caratterizzano lo spirito del nostro paese: quella cattolica e quella laica di impronta socialista, ma anche liberale, nel tentativo di alleviare la sofferenza attraverso una maggiore solidarietà. Per vincere l’indispensabile lotta per una sanità più giusta, più umana e più efficace deve essere invocata proprio questa comune sensibilità alla sofferenza umana, perché è la perdita della salute che più di ogni altro evento scava le differenze sociali, economiche e culturali. È indispensabile fare emergere i punti di incontro di queste grandi correnti di pensiero, perché quando sì affronta il nodo della salute tutti ricordino che la medicina non è solo un mestiere e tutti siano quindi incoraggiati a operare in questo senso, chiamando a raccolta le forze che operano nel settore, ma soprattutto coinvolgendo i cittadini e ponendo le loro esigenze al centro del sistema.
PARTIRE DAI CITTADINI
Il Servizio sanitario nazionale ha il compito di assistere il cittadino affinché preservi la sua salute e di curarlo in caso di malattia. Partendo da questo presupposto, è indispensabile conoscere le risorse che lo Stato ha a disposizione, razionalizzarle, permettere ai cittadini non solo di accedervi con facilità e rapidamente, ma anche e soprattutto di divenire protagonisti nelle scelte da effettuare.
Dunque l’azione preliminare deve essere un censimento, regione per regione, delle risorse, degli ambulatori medici, degli ospedali, delle ASL, dei consultori familiari, dei servizi dedicati agli stranieri, delle associazioni di volontariato, dei ricoveri per anziani, dei centri di assistenza domiciliare e via di seguito. La razionalizzazione dei servizi passa inevitabilmente per la conoscenza dell’esistente e il successivo collegamento dei servizi tra di loro.
Si dovranno quindi costituire forme stabili di collegamento e comunicazione tra tutti i servizi di cui un cittadino può aver bisogno, un grande traguardo oggi raggiungibile grazie ai mezzi tecnologici che abbiamo a disposizione. Mettere ad esempio a disposizione di ogni regione un portale unico dedicato alla sanità garantirebbe un uso consapevole e appropriato dei servizi pubblici, potrebbe assicurare informazioni adeguate e aggiornate e rappresenterebbe un valido strumento complementare ai centri unici telematici di prenotazione.
Ma la condizione indispensabile è l’informazione dei cittadini: tutti devono essere informati, in modo semplice e comprensibile, su quali sono i servizi a loro disposizione, in che modo è possibile accedervi, a cosa servono, dove si trovano, se e quanto costano, come si possono utilizzare.
Il cittadino ha necessità di centri sanitari certi e vicini alla propria abitazione e, fino a quando non si avranno alternative credibili, l’ospedale continuerà a costituire, insieme al pronto soccorso, il perno del sistema di cure. Data questa realtà ben conosciuta e ben radicata, ogni ipotesi di sostituire i piccoli ospedali con i servizi sanitari sul territorio crea nei cittadini una reazione di diffidenza, di preoccupata difesa dell’esistente, magari non perfetto (spesso anche scadente), ma comunque ben conosciuto e utilizzabile. Non si può dunque ipotizzare la chiusura sic et sempliciter di molti ospedali, per quanto inefficienti e a volte addirittura inutili, senza incorrere in una opposizione generalizzata da parte di cittadini e amministratori locali.
Questo crea un circuito perverso per cui gli ospedali continuano ad assorbire la metà delle risorse destinate alla sanità, gli investimenti per i servizi sul territorio non sono adeguati, ma residuali, e di conseguenza non si riesce a creare quella rete di servizi territoriali complementari all’ospedale stesso, così necessari in un sistema moderno. Occorre quindi un’opera di informazione e persuasione dei cittadini che spieghi quanto sia indispensabile ripensare alla rete sanitaria territoriale in modo che essa fornisca un’assistenza adeguata e calibrata sui tipi di malattia.
Di pari passo dovrà rinnovarsi l’organizzazione degli ospedali, sulla base della gravità dei casi e dell’intensità delle cure necessarie. A centri di eccellenza specializzati in singole patologie (ad esempio oncologia, diabete, malattie cardiovascolari, trapianti ecc.), andrebbero affiancati piccoli ospedali di 300-400 posti letto dedicati alle emergenze, alla terapia intensiva e subintensiva, alla chirurgia, dotati di pochi letti destinati alla degenza ordinaria. In questo modo diminuirà progressivamente l’accesso ai grandi nosocomì, con migliaia di costosi posti letto, concepiti nei secoli scorsi.
Una volta terminata la fase acuta della malattia e le cure intensive, il paziente dovrebbe essere dimesso e trasferito o in strutture riabilitative o a casa, pur continuando ad essere sostenuto da un efficiente sistema di assistenza domiciliare.
Parlando di efficienza, andrebbe modificato anche l’atteggiamento degli operatori sanitari che, più per motivi psicologici e di tranquillità che per reali esigenze cliniche, tendono a far stazionare i pazienti in ospedale più del dovuto. In questa logica «difensiva» che porta oggi un paziente che deve essere operato ad essere ricoverato almeno un giorno prima dell’intervento (e in alcuni casi i giorni sono due o tre) per gli ultimi accertamenti che potrebbero in realtà essere completati il giorno stesso dell’operazione, semplicemente chiedendo al paziente di presentarsi in ospedale alle prime ore del mattino. Un giorno di ricovero in meno significa più posti letto liberi per l’ospedale e soprattutto un risparmio di molti miliardi per il SSN, calcolando che ogni giorno di ricovero costa mediamente 600 euro per ogni paziente.
Pensando sempre alla razionalizzazione dei ricoveri, andrebbe studiata meglio e omogeneizzata la situazione della spesa, oltre che della qualità delle prestazioni, a livello nazionale. I dati elaborati dall’Agenzia per i servizi sanitari regionali (Assr) mostrano infatti una fotografia alquanto diversificata delle realtà regionali: nel 2002 nel Lazio un ricovero durava in media 9 giorni, contro i 7,19 della media nazionale. Sul versante economico, il costo medio di un ricovero nel Lazio era di 5.581 euro, in Piemonte di 4.904 euro, mentre in Campania scendeva a 3.138.
Ci sono anche altri ambiti dove intervenire, ad esempio negli approvvigionamenti di beni e servizi che dovrebbero avvenire nel rispetto delle normative comunitarie in materia, non per singolo ospedale o azienda, bensì a livello di bacino regionale o, almeno, interprovinciale. Ciò permetterebbe prezzi più contenuti, controllo sui consumi e sulla qualità del materiale usato.
Va da sé che per raggiungere un migliore funzionamento delle strutture andrebbe previsto un meccanismo di gratificazione per chi ha dimostrato efficienza nella gestione dei pazienti e delle risorse, e allo stesso modo una sanzione per chi invece non ha rispettato gli obiettivi.
C’è infine il nodo delle nomine dei vertici aziendali e la necessità di renderli più organici al SSN e meno ai partiti politici. Nella consapevolezza di non esprimere una posizione condivisa da tutti, pensiamo che vada presa in considerazione la modifica del meccanismo per la nomina dei direttori generali, con la creazione di un’apposita commissione composta da esperti, ma anche da rappresentanti della società civile, come il tribunale dei diritti del malato, medici, intellettuali ecc. estranei ai rapporti con la politica, ma in grado di rappresentare la società. La commissione dovrebbe selezionare una rosa di tre candidati da sottoporre al presidente della regione e all’assessore alla sanità, ai quali solo in questa fase spetterà l’ultima parola. Inoltre, i direttori generali dovrebbero rispondere dell’attuazione di obiettivi prestabiliti nel contratto di lavoro e previsti nei piani sanitari regionali. Il loro operato andrebbe poi monitorato a scadenze fisse con la partecipazione dei cittadini-utenti, i risultati ottenuti comunicati con trasparenza e il mancato raggiungimento degli obiettivi dovrebbe necessariamente portare alla destituzione e all’esclusione da ogni tipo di incarico analogo. Ma gli stessi direttori dovrebbero altresì essere dotati di opportuni strumenti per valutare la reale attuazione dei piani sanitari e di mezzi per renderli conseguibili. Si propone anche di creare uno specifico Albo nazionale basato sull’identificazione di requisiti minimi per essere nominati direttori di Aziende sanitarie, in modo che possano essere scelti esclusivamente i candidati con un curriculum tecnico e amministrativo adeguato al ruolo.
Le strade percorribili sono anche altre, basta seguire i ragionamenti di Mario Pirani che regolarmente affronta questo problema dalle pagine di «Repubblica». Dando voce a chi ritiene che anche le nomine dei primari debbano essere basate sulla professionalità e competenza e non sulla lottizzazione, Pirani propone che una volta accertata l’idoneità professionale a partecipare a un concorso per primario, la valutazione e la scelta venga fatta da una commissione composta da membri super partes in quanto non appartenenti alla struttura e nemmeno al territorio dove si svolge il concorso, e quindi, si suppone, estranei ai giochi di potere locali. Non di meno, la produzione scientifica dovrebbe rappresentare il primo biglietto da visita per accedere a posti apicali all’interno delle strutture ospedaliere: un elemento valutabile con criteri oggettivi in base al numero e all’importanza degli articoli scientifici pubblicati.
Separare la gestione delle aziende sanitarie dalla politica, arrivare concretamente strumenti di controllo e di intervento, è dunque una via obbligatoria per percorrere la strada dell’efficienza e del buon funzionamento della sanità pubblica.
Infine, la questione del governo clinico delle aziende sanitarie. Non c’è dubbio che per molte ragioni, che non è possibile analizzare in questa sede, i medici abbiano perso il controllo sugli aspetti organizzativi delle strutture in cui operano. Sarebbe invece auspicabile ripensare alloro ruolo e integrare le competenze cliniche a quelle gestionali, chiedendo a ognuno di svolgere un’attività clinica orientata all’appropriatezza delle cure e dei percorsi assistenziali. Va da sé che questo processo dovrebbe comportare un ampliamento dell’autonomia e dell’indipendenza, ma anche una conseguente maggiore responsabilizzazione da parte di medici e infermieri, chiamati a rispondere personalmente delle proprie scelte.
Un disegno di legge in questo senso, che vede tra i firmatari anche Livia Turco e Augusto Battaglia - che hanno contribuito alla realizzazione di queste schede programmatiche - è stato presentato alla Camera dei deputati il 29 ottobre del 2004 e attende, probabilmente invano in questa legislatura, di essere discusso.
I medici di medicina generale motore del sistema
La figura dei medici di medicina generale deve essere centrale: proprio attorno a loro dovrebbe ruotare l’assistenza primaria in ogni momento della vita del cittadino, dalla nascita alla vecchiaia. In tal senso è necessaria sia una riqualificazione dei medici di famiglia, sia un ripensamento della formazione offerta a tale categoria professionale, allo scopo di renderla quanto più incisiva possibile nella sua azione capillare. Ma il medico di famiglia deve essere messo nella condizione di assolvere al suo compito grazie a studi medici attrezzati e associati, deve poter contare su un valido aiuto infermieristico e su apparecchiature diagnostiche, come ad esempio l’ecografia, che dovrebbe essere presente con un tecnico in ogni studio, in modo da accelerare l’iter diagnostico di malattie molto diffuse (come ad esempio la calcolosi biliare o renale) ed evitare il peregrinare dei cittadini tra laboratori e ospedali.
Una nuova organizzazione per i medici di famiglia potrebbe assicurare non solo la prescrizione di esami e di ricette, ma anche l’assistenza a domicilio, di notte, nei giorni festivi, in modo da decongestionare i pronto sQccorso, diminuire il numero dei ricoveri impropri ed eliminare il servizio delle guardie mediche. Il cittadino troverebbe un punto di riferimento sicuro e costante, ne guadagnerebbe l’umanizzazione della sanità, con una riduzione anche dei costi inutili.
Inoltre, sempre i medici di famiglia dovrebbero essere i primi veicoli di informazione per promuovere azioni di prevenzione delle malattie e per guidare i cittadini verso stili di vita sani e appropriati.
Una nuova stagione per le politiche di prevenzione
È ormai provato che la strada della prevenzione è quella che può più efficacemente ridurre l’incidenza delle grandi patologie che colpiscono milioni di persone (tumori, malattie cardiovascolari, malattie infettive ecc.). Per questo motivo, la spesa media per le attività di prevenzione, che a livello nazionale rappresenta oggi il 5% dei finanziamenti per la sanità, andrebbe almeno raddoppiata.
Occorre al tempo stesso modificare la cultura, che oggi è ancora prevalentemente «curativa», convincendo i cittadini che la prevenzione rappresenta la migliore assicurazione sul proprio futuro. La cultura del «viver sano» andrebbe inserita nei programmi scolastici per garantire una formazione adeguata dei giovani rispetto alla cura del proprio corpo e della propria salute. Allo stesso tempo, sarebbe auspicabile promuovere campagne di educazione affinché si comprenda il concreto valore degli screening e della diagnosi precoce, con particolare attenzione alla salute della donna e dei bambini, anche potenziando la rete dei consultori familiari e dei servizi territoriali.
Per attuare questo programma, che è una priorità, è possibile immaginare una diversa modulazione degli investimenti, riducendo l’enfasi sull’alta tecnologia per concentrarsi di più sulla promozione di stili di vita sani, scoraggiando comportamenti non corretti (fumo, obesità, cattiva alimentazione, scarsa attività sportiva ecc.) per arrivare a una vecchiaia attiva e il più possibile libera da malattie.
Si allunga la vita media della popolazione in tutti i paesi occidentali, cresce il numero degli anziani di pari passo con i problemi legati alla loro salute: non si tratta di un’emergenza, ma di un cambiamento sociale profondo con ricadute immediate sulla sanità e sui servizi sociali.
In Italia circa il 20% dei cittadini ha più di 65 anni e, da sola, questa fetta di popolazione assorbe più del 40% della spesa sanitaria del paese (36 miliardi di euro sugli 88 miliardi messi a disposizione del SSN per il 2005). Gli anziani sono grandi consumatori di farmaci (il 50% dei consumi è infatti attribuibile agli ultra-sessantacinquenni), di visite specialistiche (38%) e soprattutto di spese ospedaliere. Dei 39 miliardi di euro totali di spese per gli ospedali, circa la metà è destinata agli anziani (19,340 miliardi di euro).
Queste cifre hanno una spiegazione: gli anziani vengono ricoverati ripetutamente o per lunghi periodi perché non esiste un’assistenza adeguata fuori dall’ospedale, le famiglie non sono in grado di assumere da sole la gestione di un anziano non autosufficiente, i servizi sociali e il volontariato non hanno risorse adeguate e l’assistenza domiciliare funziona solo in alcune parti d’Italia.
I problemi della terza età vanno affrontati prima di tutto con l’integrazione dei servizi socio-sanitari, del privato sociale e del volontariato, per dare risposte efficaci non solo in termini di assistenza sanitaria, ma, prima ancora e prima di tutto, per sostenere con una rete di supporto organizzata l’enorme peso che oggi ricade sulle famiglie.
Le nostre proposte sulla materia riguardano:
- la creazione di un dipartimento per la terza età all’interno del ministero della salute, che si occupi di studiare le reali esigenze, proporre le soluzioni più adeguate e rappresenti un punto di raccordo tra chi si occupa dell’assistenza alle persone anziane (associazioni, privato sociale, medici ecc.) e le istituzioni;
- lo stanziamento di un fondo speciale per gli anziani non autosufficienti;
- la sottoscrizione di un’assicurazione integrativa e obbligatoria per coloro che possono contare su redditi alti, in modo che costoro non debbano gravare totalmente sul SSN per quanto riguarda la copertura delle spese mediche dopo i 65 anni;
- un’azione integrata con altre strutture di tipo sociale, non necessariamente parte del sistema sanitario. L’integrazione dei servizi socio-sanitari appare oltremodo efficace per garantire una buona qualità di vita agli anziani, come testimoniato anche dalle scelte programmatiche della Liguria, la regione più anziana d’Europa, che indica come priorità l’istituzione di un fondo r regionale per la non autosufficienza, il riequilibrio delle offerte di servizio sul territorio oggi sbilanciate a favore degli ospedali, l’integrazione tra territorio e ospedali e l’intensificazione delle cure a domicilio.
COMPETIZIONE POSITIVA SOLO SE LEALE:
L’ANOMALIA DEL LAVORO DEI MEDICI
Al di là delle legittime questioni contrattuali e di compenso per i medici, è il loro rapporto di lavoro che va ripensato nel suo complesso, con l’obiettivo di arrivare a instaurare una sana competizione tra il pubblico e il privato e risolvere l’anomalia, tutta italiana, del doppio lavoro dei medici dentro e fuori gli ospedali. L’anomalia non consiste nel fatto che il medico del SSN possa svolgere attività professionale privata. Essa invece consiste nel fatto che il professionista possa esercitare la propria professione per un’azienda pubblica e contemporaneamente per un suo diretto concorrente privato, in netto contrasto con le più elementari regole liberali stilla concorrenza. Oggi, per la carenza di vere strutture dedicate all’attività libero-professionale nelle aziende pubbliche, è spesso gioco-forza autorizzare un lavoro intramoenia, in sede extramoenia, creando una contraddizione in termini e in fatti.
Eliminare questa contraddizione significa mettere il cittadino al centro del sistema, cioè permettere che sia davvero lui a decidere a quale struttura rivolgersi, al pubblico o al privato: non perché viene veicolato in clinica dal medico che lo ha appena visitato in ospedale e successivamente indirizzato verso la struttura privata per le terapie o per un intervento chirurgico.
Va ricordato che il medico libero professionista, nell’esercizio della sua attività in strutture private, tende inevitabilmente ad operare una distinzione tra pazienti che richiedono cure dispendiose e lunghe degenze, da assistere in ospedale, e casi meno gravi, ma più remunerativi, destinati alle cliniche private. Il vantaggio per queste ultime non è solo in termini economici, ma anche di qualità delle prestazioni erogate. Destinato a trattare casi complessi, malati lungo degenti, anziani, oltre ad avere l’obbligo del pronto soccorso, che costituisce sempre una voce passiva in bilancio, il settore pubblico risulta scarsamente competitivo e diviene responsabile obbligato dell’aumento del deficit.
Appare anche anomalo un impegno part-time da parte di medici che dividono la propria attività con una carica politica che mal si concilia con gli impegni e gli imprevisti sempre all’ordine del giorno nel lavoro di un medico. Dovrebbe infatti essere espressamente prevista l’incompatibilità tra alcuni incarichi politici elettivi (sindaco, presidente della provincia, consigliere provinciale o comunale) o istituzionali (assessore provinciale, comunale, presidente di circoscrizione) e la direzione di strutture complesse sia ospedaliere che territoriali. I due ruoli risultano difficilmente conciliabili e l’esperienza ha dimostrato che il doppio incarico determina distorsioni, legate sia a un uso politico-clientelare della struttura, sia a una conduzione della stessa non adeguata ai bisogni dell’utenza o agli obiettivi fissati dall’azienda.
Il principio dell’esclusività del rapporto di lavoro non si scontra affatto con la libertà della professione medica. Tale libertà non significa infatti lavorare senza regole, senza controlli e senza tenere in considerazione gli interessi di una sanità pubblica moderna e orientata all’efficienza.
L’assistenza sanitaria in quanto diritto di ogni cittadino deve essere garantita, allo stesso livello, in ogni area geografica del paese. Non lo è, e questo non solo non è accettabile né umanamente né politicamente, ma è anche contrario a ciò che i cittadini chiedono. Infatti, secondo un’indagine condotta dal Censis nel 2002, la maggioranza degli italiani (56,3%) si dice favorevole al federalismo sanitario, a patto però che non intacchi l’universalità e t’equità del SSN.
La riforma federalista, nata dalla giusta esigenza di riorganizzare il rapporto tra centro e periferie, ha avuto come positiva conseguenza l’assunzione di responsabilità da parte della politica regionale e la necessità di operare delle scelte orientate all’efficienza e al contenimento della spesa. Ma ha implicato anche il progressivo degrado dei servizi e dei bilanci di alcune regioni, soprattutto del Sud, che non hanno saputo riorganizzare la loro sanità secondo le nuove regole del federalismo e che vivono oggi sull’orlo della bancarotta.
L’ampia libertà nelle scelte di indirizzo ha reso ancora più visibile la grande disparità nei servizi erogati e ha imposto differenti carichi fiscali sui cittadini, che in alcune regioni pagano il ticket e in altre no. È quindi fondamentale che la difesa del valore primario dell’equità resti saldamente al centro della programmazione sanitaria, onde non peggiorare la divaricazione nell’offerta dei servizi tra le diverse aree del paese. Fra i problemi innescati dal federalismo, il principale si è dimostrato quello di sfavorire le regioni più arretrate e povere che,.nonostante l’aumento della pressione fiscale, non sono riuscite a migliorare la qualità dei servizi e hanno aumentato il divario e le disuguaglianze. La migrazione sanitaria non è diminuita e nel 2002. Secondo i dati del ministero della salute, nelle regioni meridionali il costo della migrazione sanitaria interregionale è stato di 860 milioni di euro, addirittura in aumento rispetto al 2001, anno in cui sono stati spesi 818 milioni di euro. I dati più recenti, forniti sempre dal ministero, parlano di un milione di cittadini che si sono spostati in un anno dal Sud dell’italia alle regioni del Nord e del Centro per ricevere cure mediche di ogni tipo, dall’intervento chirurgico maggiore, all’ernia o alla cataratta.
Di fronte a dati che non si possono che definire inaccettabili, va ripensato e potenziato lo strumento dei LEA (i Livelli essenziali di assistenza sanitaria), ossia le prestazioni e i servizi da garantire ovunque a tutti i cittadini. Esse non devono essere garanzie minime, ma costituire uno strumento con cui sì vogliono individuare e rendere fruibili i diritti di equità sanitaria di cui tutti devono godere e che lo Stato ha il diritto-dovere di controllare attentamente, intervenendo in caso di omissione. Quindi, se si vuole mettere il cittadino al centro del sistema e garantire equità di trattamento indipendentemente dalla residenza, è necessario applicare dei meccanismi di potere sostitutivo nei confronti di quelle regioni che dimostrino di non essere in grado di gestire l’autonomia prevista dal federalismo.
Libertà e autonomia male amministrate si possono rapidamente trasformare in disuguaglianza e nella sanità questo sì traduce in numero di 2 vite salvate e in qualità di vita.
Non è un caso, per fare un solo esempio, che il registro tumori di Ragusa (l’unico disponibile nel meridione) riporti una sopravvivenza a cinque anni per il tumore della vescica del 31% contro il 71% del resto d’Italia, per il tumore alla prostata del 34% (contro il 48%) e per il tumore al seno del 70% (contro l’81%). Se ascoltiamo i cittadini, troviamo già tracciata la strada da seguire per raggiungere un equilibrio stabile e virtuoso tra Stato e regioni, perché gli italiani attribuiscono al ministero della salute un ruolo strategico di garante di qualità, efficacia e uguaglianza dei servizi.
Oltre i due terzi degli intervistati dal Censis vorrebbe che fossero pubblicate annualmente le graduatorie dei migliori ospedali pubblici, delle cliniche private e dei professionisti e vorrebbe che fosse il ministero a farsi carico di ciò. Gli italiani vorrebbero inoltre che il ministero prendesse tutte le decisioni importanti in materia di farmaci.
Chi ha il compito di governare un sistema nazionale ha pertanto — perché così vogliono i cittadini — il dovere non delegabile di garantire l’efficacia, l’esigibilità e la sostenibilità del diritto alla salute. Va in altre parole tutelata un’assistenza sanitaria uniforme, universale, egualitaria e appropriata, sia pure in una situazione che abbia ridimensionato l’impostazione centralistica.
Alla luce di quanto è stato sperimentato fino ad oggi, è evidente la necessità di ripensare il ruolo del ministero della salute con una ridefinizione degli ambiti di competenza e il potenziamento delle funzioni di coordinamento, monitoraggio e vigilanza, gestione delle emergenze. Il governo centrale deve mantenere il controllo di almeno due aree, quella macroeconomica di bilancio e quella di garante delle prestazioni essenziali. Deve inoltre esercitare il potere sostitutivo rispetto alle amministrazioni regionali inefficienti.
Il sistema federalista può essere efficace solo se si regge su un centralismo solido che non abdica alle sue competenze. Inoltre, la programmazione e un attività che va coordinata a livello centrale, con il coinvolgimento di tutti gli attori, non solo per verificare la congruità delle iniziative regionali in un più ampio contesto nazionale, ma anche per fissare degli obiettivi e rendere effettivi i controlli e le verifiche. Tale programmazione deve investire anche la formazione e il coordinamento con le università, allo scopo di evitare il verificarsi di situazioni oggi ricorrenti caratterizzate da gravi carenze di medici in alcune discipline, come ad esempio l’anestesiologia o la radiologia, e da eccessi in altri settori.
Un discorso approfondito andrebbe fatto anche a proposito degli infermieri su cui oggi grava il maggiore peso del funzionamento dei nostri ospedali. La carenza cronica di personale infermieristico nel nostro paese molto spesso manda in crisi interi reparti, non consente una corretta assistenza ai malati al punto che i responsabili dei servizi si trovano costretti a chiudere posti letto per mancanza di personale. Il ricorso a infermieri provenienti da paesi extra europei è stata senz’altro una misura utile per fare fronte all’emergenza e riempire il vuoto delle nostre scuole di specializzazione per infermieri. Tuttavia, va da sé che in un settore così cruciale dell’organizzazione sanitaria, una programmazione va fatta al più presto puntando su incentivi appropriati per chi sceglie un lavoro per cui sì richiedono sempre più competenze e responsabilità ma che, al momento attuale, non offre in cambio adeguati riconoscimenti sia dal punto di vista economico che professionale.
Infine, l’istituzione e la gestione di fondi speciali per le emergenze, gli hospice, le malattie mentali, le tossicodipendenze, le malattie rare non possono essere caricate sui bilanci regionali a cui si chiede efficienza e rigore. Se il principio che ci guida è quello dell’uguaglianza per alleviare la sofferenza attraverso la solidarietà, allora spetta al governo centrale la presa in carico delle situazioni più complesse, dell’assistenza agli ultimi, ai più malati, ai più poveri, cittadini che in molti casi rischierebbero di essere trattati in modo disuguale se affidati al sistema delle autonomie regionali.
CONCLUSIONI
Occorre un lavoro approfondito di ricerca per tracciare il percorso per una sanità pubblica economicamente sostenibile e attenta a garantire i livelli di cura adeguati a tutti i cittadini, senza distinzione geografica o ti di ceto. Il sistema che vogliamo creare dovrebbe quindi essere innanzitutto equo, capace di offrire assistenza di uguale intensità e qualità per abbienti e non abbienti, giovani e anziani, abitanti delle regioni ricche e meno ricche. Al centro di questo sistema vogliamo porre tutti i cittadinì, rispondendo alle loro necessità, allontanando paure e diffidenza e dando loro la prova concreta che il nostro paese crede ancora fermamente nell’uguaglianza degli essere umani di fronte alle esigenze della salute.