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La legislazione italiana ha costantemente considerato reato la produzione ed il traffico illecito di stupefacenti, adottando al riguardo misure repressive e sanzionatorie sempre più incisive anche in ossequio agli impegni assunti con l'adesione ad alcune importanti convenzioni internazionali. Nei confronti del consumatore di droghe, l'Ordinamento giuridico ha, invece, previsto nel corso degli anni provvedimenti anche molto differenti l'uno dall'altro. La prima legge sulla droga, la n. 396 del 18 febbraio del 1923, espressione di un orientamento politico-sociale che, a differenza di quello attuale, considerava il consumo di droga un "vizio" prevedeva la punibilità del consumatore solo qualora la sua condotta potesse rappresentare un pericolo per l'ordine pubblico; tale rigidità di giudizio si accentuò con la legge n. 1041 del 1954 che arrivava a considerare il consumatore di stupefacenti pienamente equiparato al produttore e allo spacciatore, applicando, sia pure in ritardo, le disposizioni della Convenzione di Ginevra del 1936 tendenti a ribadire la necessità di incriminazione "a cascata", per evitare possibili impunità per coloro che entrassero anche occasionalmente nel mondo della droga.
Nel corso degli anni Settanta si determinò nella giurisprudenza italiana la necessità di distinguere i consumatori di droga dagli spacciatori e dai trafficanti.
L'approccio in questo senso si concretizzò nella legge n. 685 del 1975 che applicava le direttive impartite dalle Convenzioni di New York del 1961 e di Vienna del 1971.
La premessa fondamentale di questa svolta nella legislazione italiana fu la crescente consapevolezza della natura di "malattia sociale" dell'abuso di droghe e la visione dell'assuntore di sostanze stupefacenti quale persona bisognosa di un supporto medico, psicologico e sociale.
Pur ribadendo l'illiceità della detenzione di droga, la legge contemplava una ipotesi di non punibilità, caratterizzata da due elementi essenziali: uno soggettivo, legato alla finalità di "uso personale" non terapeutico della droga, l'altro oggettivo, costituito dalla "modica quantità" di sostanza detenuta.
La causa di non punibilità poteva essere accertata solo mediante procedimento penale, la persona che deteneva una "modica" quantità di droga non era passibile di pena ma, qualora si fosse rifiutata di sottoporsi volontariamente al trattamento disintossicante, poteva essere obbligata a curarsi con provvedimento giurisdizionale.
Dopo alcuni anni di applicazione, si manifestarono in Italia numerose critiche a tale approccio normativo. In particolare, secondo l'opinione prevalente, si ritenne che il concetto di "modica quantità" poteva determinare una certa impunità degli spacciatori e non contrastare sufficientemente l'attività del "consumatore-spacciatore".