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Da "Repubblica" del 5 ottobre 2001
Le guerre sante passione e ragione
di UMBERTO ECO
Che qualcuno abbia,
nei giorni scorsi, pronunciato parole inopportune sulla superiorità della
cultura occidentale, sarebbe un fatto secondario. E' secondario che qualcuno
dica una cosa che ritiene giusta ma nel momento sbagliato, ed è secondario che
qualcuno creda a una cosa ingiusta o comunque sbagliata, perché il mondo è
pieno di gente che crede a cose ingiuste e sbagliate, persino un signore che si
chiama Bin Laden, che forse è più ricco del nostro presidente del Consiglio e
ha studiato in migliori università. Quello che non è secondario, e che deve
preoccupare un poco tutti, politici, leader religiosi, educatori, è che certe
espressioni, o addirittura interi e appassionati articoli che in qualche modo le
hanno legittimate, diventino materia di discussione generale, occupino la mente
dei giovani, e magari li inducano a conclusioni passionali dettate dall'emozione
del momento. Mi preoccupo dei giovani perché tanto, ai vecchi, la testa non la
si cambia più.
Tutte le guerre di religione che hanno insanguinato il mondo per secoli sono
nate da adesioni passionali a contrapposizioni semplicistiche, come Noi e gli
Altri, buoni e cattivi, bianchi e neri. Se la cultura occidentale si è
dimostrata feconda (non solo dall'Illuminismo a oggi ma anche prima, quando il
francescano Ruggero Bacone invitava a imparare le lingue perché abbiamo
qualcosa da apprendere anche dagli infedeli) è anche perché si è sforzata di
"sciogliere", alla luce dell'indagine e dello spirito critico, le
semplificazioni dannose. Naturalmente non lo ha fatto sempre, perché fanno
parte della storia della cultura occidentale anche Hitler, che bruciava i libri,
condannava l' arte "degenerata", uccideva gli appartenenti alle razze
"inferiori", o il fascismo che mi insegnava a scuola a recitare
"Dio stramaledica gli inglesi" perché erano "il popolo dei
cinque pasti" e dunque dei ghiottoni inferiori all'italiano parco e
spartano.
Ma sono gli aspetti migliori della nostra cultura quelli che dobbiamo discutere
coi giovani, e di ogni colore, se non vogliamo che crollino nuove torri anche
nei giorni che essi vivranno dopo di noi. Un elemento di confusione è che
spesso non si riesce a cogliere la differenza tra l'identificazione con le
proprie radici, il capire chi ha altre radici e il giudicare ciò che è bene o
male. Quanto a radici, se mi chiedessero se preferirei passare gli anni della
pensione in un paesino del Monferrato, nella maestosa cornice del parco
nazionale dell'Abruzzo o nelle dolci colline del senese, sceglierei il
Monferrato. Ma ciò non comporta che giudichi altre regioni italiane inferiori
al Piemonte.
Quindi se, con le sue parole (pronunciate per gli occidentali ma cancellate per
gli arabi), il presidente del Consiglio voleva dire che preferisce vivere ad
Arcore piuttosto che a Kabul, e farsi curare in un ospedale milanese piuttosto
che in uno di Bagdad, sarei pronto a sottoscrivere la sua opinione (Arcore a
parte). E questo anche se mi dicessero che a Bagdad hanno istituito l'ospedale
più attrezzato del mondo: a Milano mi troverei più a casa mia, e questo
influirebbe anche sulle mie capacità di ripresa. Le radici possono essere anche
più ampie di quelle regionali o nazionali. Preferirei vivere a Limoges, tanto
per dire, che a Mosca. Ma come, Mosca non è una città bellissima? Certamente,
ma a Limoges capirei la lingua. Insomma, ciascuno si identifica con la cultura
in cui è cresciuto e i casi di trapianto radicale, che pure ci sono, sono una
minoranza. Lawrence d'Arabia si vestiva addirittura come gli arabi, ma alla fine
è tornato a casa propria.
***
Passiamo ora al confronto di civiltà, perché è questo il punto. L'Occidente,
sia pure e spesso per ragioni di espansione economica, è stato curioso delle
altre civiltà. Molte volte le ha liquidate con disprezzo: i greci chiamavano
barbari, e cioè balbuzienti, coloro che non parlavano la loro lingua e dunque
era come se non parlassero affatto. Ma dei greci più maturi come gli stoici
(forse perché alcuni di loro erano di origine fenicia) hanno ben presto
avvertito che i barbari usavano parole diverse da quelle greche, ma si
riferivano agli stessi pensieri. Marco Polo ha cercato di descrivere con grande
rispetto usi e costumi cinesi, i grandi maestri della teologia cristiana
medievale cercavano di farsi tradurre i testi dei filosofi, medici e astrologi
arabi, gli uomini del Rinascimento hanno persino esagerato nel loro tentativo di
ricuperare perdute saggezze orientali, dai Caldei agli Egizi, Montesquieu ha
cercato di capire come un persiano potesse vedere i francesi, e antropologi
moderni hanno condotto i loro primi studi sui rapporti dei salesiani, che
andavano sì presso i Bororo per convertirli, se possibile, ma anche per capire
quale fosse il loro modo di pensare e di vivere forse memori del fatto che
missionari di alcuni secoli prima non erano riusciti a capire le civiltà
amerindie e ne avevano incoraggiato lo sterminio.
Ho nominato gli antropologi. Non dico cosa nuova se ricordo che, dalla metà del
XIX secolo in avanti, l'antropologia culturale si è sviluppata come tentativo
di sanare il rimorso dell'Occidente nei confronti degli Altri, e specialmente di
quegli Altri che erano definiti selvaggi, società senza storia, popoli
primitivi. L'Occidente coi selvaggi non era stato tenero: li aveva
"scoperti", aveva tentato di evangelizzarli, li aveva sfruttati, molti
ne aveva ridotto in schiavitù, tra l'altro con l'aiuto degli arabi, perché le
navi degli schiavi venivano scaricate a New Orleans da raffinati gentiluomini di
origine francese, ma stivate sulle coste africane da trafficanti musulmani.
L'antropologia culturale (che poteva prosperare grazie all'espansione coloniale)
cercava di riparare ai peccati del colonialismo mostrando che quelle culture
"altre" erano appunto delle culture, con le loro credenze, i loro
riti, le loro abitudini, ragionevolissime del contesto in cui si erano
sviluppate, e assolutamente organiche, vale a dire che si reggevano su una loro
logica interna. Il compito dell'antropologo culturale era di dimostrare che
esistevano delle logiche diverse da quelle occidentali, e che andavano prese sul
serio, non disprezzate e represse.
Questo non voleva dire che gli antropologi, una volta spiegata la logica degli
Altri, decidessero di vivere come loro; anzi, tranne pochi casi, finito il loro
pluriennale lavoro oltremare se ne tornavano a consumare una serena vecchiaia
nel Devonshire o in Piccardia. Però leggendo i loro libri qualcuno potrebbe
pensare che l'antropologia culturale sostenga una posizione relativistica, e
affermi che una cultura vale l'altra. Non mi pare sia così. Al massimo
l'antropologo ci diceva che, sino a che gli Altri se ne stavano a casa propria,
bisognava rispettare il loro modo di vivere.
***
La vera lezione che si deve trarre dall'antropologia culturale è piuttosto che,
per dire se una cultura è superiore a un'altra, bisogna fissare dei parametri.
Un conto è dire che cosa sia una cultura e un conto dire in base a quali
parametri la giudichiamo. Una cultura può essere descritta in modo
passabilmente oggettivo: queste persone si comportano così, credono negli
spiriti o in un'unica divinità che pervade di sé tutta la natura, si uniscono
in clan parentali secondo queste regole, ritengono che sia bello trafiggersi il
naso con degli anelli (potrebbe essere una descrizione della cultura giovanile
in Occidente), ritengono impura la carne di maiale, si circoncidono, allevano i
cani per metterli in pentola nei dì festivi o, come ancor dicono gli americani
dei francesi, mangiano le rane.
L'antropologo ovviamente sa che l'obiettività viene sempre messa in crisi da
tanti fattori. L'anno scorso sono stato nei paesi Dogon e ho chiesto a un
ragazzino se fosse musulmano. Lui mi ha risposto, in francese, "no, sono
animista". Ora, credetemi, un animista non si definisce animista se non ha
almeno preso un diploma alla Ecole des Hautes Etudes di Parigi, e quindi quel
bambino parlava della propria cultura così come gliela avevano definita gli
antropologi. Gli antropologi africani mi raccontavano che quando arriva un
antropologo europeo i Dogon, ormai scafatissimi, gli raccontano quello che aveva
scritto tanti anni fa un antropologo, Griaule (al quale però, così almeno
asserivano gli amici africani colti, gli informatori indigeni avevano raccontato
cose abbastanza slegate tra loro che poi lui aveva riunito in un sistema
affascinante ma di dubbia autenticità). Tuttavia, fatta la tara di tutti i
malintesi possibili di una cultura
Altra si può avere una descrizione abbastanza "neutra". I parametri
di giudizio sono un'altra cosa, dipendono dalle nostre radici, dalle nostre
preferenze, dalle nostre abitudini, dalle nostre passioni, da un nostro sistema
di valori. Facciamo un esempio. Riteniamo noi che il prolungare la vita media da
quaranta a ottant'anni sia un valore? Io personalmente lo credo, però molti
mistici potrebbero dirmi che, tra un crapulone che campa ottant'anni e san Luigi
Gonzaga che ne campa ventitré, è il secondo che ha avuto una vita più piena.
Ma ammettiamo che l'allungamento della vita sia un valore: se è così la
medicina e la scienza occidentale sono certamente superiori a molti altri saperi
e pratiche mediche.
Crediamo che lo sviluppo tecnologico, l'espansione dei commerci, la rapidità
dei trasporti siano un valore? Moltissimi la pensano così, e hanno diritto di
giudicare superiore la nostra civiltà tecnologica. Ma, proprio all'interno del
mondo occidentale, ci sono coloro che reputano valore primario una vita in
armonia con un ambiente incorrotto, e dunque sono pronti a rinunciare ad aerei,
automobili, frigoriferi, per intrecciare canestri e muoversi a piedi di
villaggio in villaggio, pur di non avere il buco dell'ozono. E dunque vedete
che, per definire una cultura migliore dell'altra, non basta descriverla (come
fa l'antropologo) ma occorre il richiamo a un sistema di valori a cui riteniamo
di non potere rinunciare. Solo a questo punto possiamo dire che la nostra
cultura, per noi, è migliore.
***
In questi giorni si è assistito a varie difese di culture diverse in base a
parametri discutibili. Proprio l'altro giorno leggevo una lettera a un grande
quotidiano dove si chiedeva sarcasticamente come mai i premi Nobel vanno solo
agli occidentali e non agli orientali. A parte il fatto che si trattava di un
ignorante che non sapeva quanti premi Nobel per la letteratura sono andati a
persone di pelle nera e a grandi scrittori islamici, a parte che il premio Nobel
per la fisica del 1979 è andato a un pakistano che si chiama Abdus Salam,
affermare che riconoscimenti per la scienza vanno naturalmente a chi lavora
nell'ambito della scienza occidentale è scoprire l'acqua calda, perché nessuno
ha mai messo in dubbio che la scienza e la tecnologia occidentali siano oggi
all'avanguardia. All'avanguardia di cosa? Della scienza e della tecnologia.
Quanto è assoluto il parametro dello sviluppo tecnologico? Il Pakistan ha la
bomba atomica e l'Italia no. Dunque noi siamo una civiltà inferiore? Meglio
vivere a Islamabad che ad Arcore?
I sostenitori del dialogo ci richiamano al rispetto del mondo islamico
ricordando che ha dato uomini come Avicenna (che tra l'altro è nato a Buchara,
non molto lontano dall'Afghanistan) e Averroè - ed è un peccato che si citino
sempre questi due, come fossero gli unici, e non si parli di Al Kindi, Avenpace,
Avicebron, Ibn Tufayl, o di quel grande storico del XIV secolo che fu Ibn
Khaldun, che l'Occidente considera addirittura l'iniziatore delle scienze
sociali. Ci ricordano che gli arabi di Spagna coltivavano geografia, astronomia,
matematica o medicina quando nel mondo cristiano si era molto più indietro.
Tutte cose verissime, ma questi non sono argomenti, perché a ragionare così si
dovrebbe dire che Vinci, nobile comune toscano, è superiore a New York, perché
a Vinci nasceva Leonardo quando a Manhattan quattro indiani stavano seduti per
terra ad aspettare per più di centocinquant'anni che arrivassero gli olandesi a
comperargli l'intera penisola per ventiquattro dollari. E invece no, senza
offesa per nessuno, oggi il centro del mondo è New York e non Vinci.
Le cose cambiano. Non serve ricordare che gli arabi di Spagna erano assai
tolleranti con cristiani ed ebrei mentre da noi si assalivano i ghetti, o che il
Saladino, quando ha riconquistato Gerusalemme, è stato più misericordioso coi
cristiani di quanto non fossero stati i cristiani con i saraceni quando
Gerusalemme l'avevano conquistata. Tutte cose esatte, ma nel mondo islamico ci
sono oggi regimi fondamentalisti e teocratici che i cristiani non li tollerano e
Bin Laden non è stato misericordioso con New York. La Battriana è stato un
incrocio di grandi civiltà, ma oggi i talebani prendono a cannonate i Buddha.
Di converso, i francesi hanno fatto il massacro della Notte di San Bartolomeo,
ma questo non autorizza nessuno a dire che oggi siano dei barbari.
Non andiamo a scomodare la storia perché è un'arma a doppio taglio. I turchi
impalavano (ed è male) ma i bizantini ortodossi cavavano gli occhi ai parenti
pericolosi e i cattolici bruciavano Giordano Bruno; i pirati saraceni ne
facevano di cotte e di crude, ma i corsari di sua maestà britannica, con tanto
di patente, mettevano a fuoco le colonie spagnole nei carabi; Bin Laden e Saddam
Hussein sono nemici feroci della civiltà occidentale, ma all'interno della
civiltà occidentale abbiamo avuto signori che si chiamavano Hitler o Stalin
(Stalin era così cattivo che è sempre stato definito come orientale, anche se
aveva studiato in seminario e letto Marx).
No, il problema dei parametri non si pone in chiave storica, bensì in chiave
contemporanea. Ora, una delle cose lodevoli delle culture occidentali (libere e
pluralistiche, e questi sono i valori che noi riteniamo irrinunciabili) è che
si sono accorte da gran tempo che la stessa persona può essere portata a
manovrare parametri diversi, e mutuamente contraddittori, su questioni
differenti. Per esempio si reputa un bene l'allungamento della vita e un male
l'inquinamento atmosferico, ma avvertiamo benissimo che forse, per avere i
grandi laboratori in cui si studia l'allungamento della vita, occorre avere un
sistema di comunicazioni e rifornimento energetico che poi, dal canto proprio,
produce l'inquinamento. La cultura occidentale ha elaborato la capacità di
mettere liberamente a nudo le sue proprie contraddizioni.
Magari non le risolve, ma sa che ci sono, e lo dice. In fin dei conti tutto il
dibattito su globale-sì e globale-no sta qui, tranne che per le tute nere
spaccatutto: come è sopportabile una quota di globalizzazione positiva evitando
i rischi e le ingiustizie della globalizzazione perversa, come si può allungare
la vita anche ai milioni di africani che muoiono di Aids (e nel contempo
allungare anche la nostra) senza accettare una economia planetaria che fa morire
di fame gli ammalati di Aids e fa ingoiare cibi inquinati a noi?
Ma proprio questa critica dei parametri, che l'Occidente persegue e incoraggia,
ci fa capire come la questione dei parametri sia delicata. E' giusto e civile
proteggere il segreto bancario? Moltissimi ritengono di sì. Ma se questa
segretezza permette ai terroristi di tenere i loro soldi nella City di Londra?
Allora, la difesa della cosiddetta privacy è un valore positivo o dubbio? Noi
mettiamo continuamente in discussione i nostri parametri. Il mondo occidentale
lo fa a tal punto che consente ai propri cittadini di rifiutare come positivo il
parametro dello sviluppo tecnologico e di diventare buddisti o di andare a
vivere in comunità dove non si usano i pneumatici, neppure per i carretti a
cavalli. La scuola deve insegnare ad analizzare e discutere i parametri su cui
si reggono le nostre affermazioni passionali.
***
Il problema che l'antropologia culturale non ha risolto è cosa si fa quando il
membro di una cultura, i cui principi abbiamo magari imparato a rispettare,
viene a vivere in casa nostra. In realtà la maggior parte delle reazioni
razziste in Occidente non è dovuta al fatto che degli animisti vivano nel Mali
(basta che se ne stiano a casa propria, dice infatti la Lega), ma che gli
animisti vengano a vivere da noi. E passi per gli animisti, o per chi vuole
pregare in direzione della Mecca, ma se vogliono portare il chador, se vogliono
infibulare le loro ragazze, se (come accade per certe sette occidentali)
rifiutano le trasfusioni di sangue ai loro bambini ammalati, se l'ultimo
mangiatore d'uomini della Nuova Guinea (ammesso che ci sia ancora) vuole
emigrare da noi e farsi arrosto un giovanotto almeno ogni domenica?
Sul mangiatore d'uomini siamo tutti d'accordo, lo si mette in galera (ma
specialmente perché non sono un miliardo), sulle ragazze che vanno a scuola col
chador non vedo perché fare tragedie se a loro piace così, sulla infibulazione
il dibattito è invece aperto (c'è persino chi è stato così tollerante da
suggerire di farle gestire dalle unità sanitarie locali, così l'igiene è
salva), ma cosa facciamo per esempio con la richiesta che le donne musulmane
possano essere fotografate sul passaporto col velo? Abbiamo delle leggi, uguali
per tutti, che stabiliscono dei criteri di identificazione dei cittadini, e non
credo si possa deflettervi. Io quando ho visitato una moschea mi sono tolto le
scarpe, perché rispettavo le leggi e le usanze del paese ospite. Come la
mettiamo con la foto velata?
Credo che in questi casi si possa negoziare. In fondo le foto dei passaporti
sono sempre infedeli e servono a quel che servono, si studino delle tessere
magnetiche che reagiscono all'impronta del pollice, chi vuole questo trattamento
privilegiato ne paghi l'eventuale sovrapprezzo. E se poi queste donne
frequenteranno le nostre scuole potrebbero anche venire a conoscenza di diritti
che non credevano di avere, così come molti occidentali sono andati alle scuole
coraniche e hanno deciso liberamente di farsi musulmani. Riflettere sui nostri
parametri significa anche decidere che siamo pronti a tollerare tutto, ma che
certe cose sono per noi intollerabili.
***
L'Occidente ha dedicato fondi ed energie a studiare usi e costumi degli Altri,
ma nessuno ha mai veramente consentito agli Altri di studiare usi e costumi
dell'Occidente, se non nelle scuole tenute oltremare dai bianchi, o consentendo
agli Altri più ricchi di andare a studiare a Oxford o a Parigi - e poi si vede
cosa succede, studiano in Occidente e poi tornano a casa a organizzare movimenti
fondamentalisti, perché si sentono legati ai loro compatrioti che quegli studi
non li possono fare (la storia è peraltro vecchia, e per l'indipendenza
dell'India si sono battuti intellettuali che avevano studiato con gli inglesi).
Antichi viaggiatori arabi e cinesi avevano studiato qualcosa dei paesi dove
tramonta il sole, ma sono cose di cui sappiamo abbastanza poco. Quanti
antropologi africani o cinesi sono venuti a studiare l'Occidente per raccontarlo
non solo ai propri concittadini, ma anche a noi, dico raccontare a noi come loro
ci vedono? Esiste da alcuni anni una organizzazione internazionale chiamata
Transcultura che si batte per una "antropologia alternativa". Ha
condotto studiosi africani che non erano mai stati in Occidente a descrivere la
provincia francese e la società bolognese, e vi assicuro che quando noi europei
abbiamo letto che due delle osservazioni più stupite riguardavano il fatto che
gli europei portano a passeggio i loro cani e che in riva al mare si mettono
nudi - beh, dico, lo sguardo reciproco ha incominciato a funzionare da ambo le
parti, e ne sono nate discussioni interessanti.
In questo momento, in vista di un convegno finale che si svolgerà a Bruxelles a
novembre, tre cinesi, un filosofo, un antropologo e un artista, stanno
terminando il loro viaggio di Marco Polo alla rovescia, salvo che anziché
limitarsi a scrivere il loro Milione registrano e filmano. Alla fine non so cosa
le loro osservazioni potranno spiegare ai cinesi, ma so che cosa potranno
spiegare anche a noi. Immaginate che fondamentalisti musulmani vengano invitati
a condurre studi sul fondamentalismo cristiano (questa volta non c'entrano i
cattolici, sono protestanti americani, più fanatici di un ayatollah, che
cercano di espungere dalle scuole ogni riferimento a Darwin). Bene, io credo che
lo studio antropologico del fondamentalismo altrui possa servire a capire meglio
la natura del proprio. Vengano a studiare il nostro concetto di guerra santa
(potrei consigliare loro molti scritti interessanti, anche recenti) e forse
vedrebbero con occhio più critico l'idea di guerra santa in casa loro. In fondo
noi occidentali abbiamo riflettuto sui limiti del nostro modo di pensare proprio
descrivendo la pensée sauvage.
***
Uno dei valori di cui la civiltà occidentale parla molto è l'accettazione
delle differenze. Teoricamente siamo tutti d'accordo, è politically correct
dire in pubblico di qualcuno che è gay, ma poi a casa si dice ridacchiando che
è un frocio. Come si fa a insegnare l'accettazione della differenza? L'Academie
Universelle des Cultures ha messo in linea un sito dove si stanno elaborando
materiali su temi diversi (colore, religione, usi e costumi e così via) per gli
educatori di qualsiasi paese che vogliano insegnare ai loro scolari come si
accettano coloro che sono diversi da loro. Anzitutto si è deciso di non dire
bugie ai bambini, affermando che tutti siamo uguali. I bambini si accorgono
benissimo che alcuni vicini di casa o compagni di scuola non sono uguali a loro,
hanno una pelle di colore diverso, gli occhi tagliati a mandorla, i capelli più
ricci o più lisci, mangiano cose strane, non fanno la prima comunione. Né
basta dirgli che sono tutti figli di Dio, perché anche gli animali sono figli
di Dio, eppure i ragazzi non hanno mai visto una capra in cattedra a insegnargli
l'ortografia. Dunque bisogna dire ai bambini che gli esseri umani sono molto
diversi tra loro, e spiegare bene in che cosa sono diversi, per poi mostrare che
queste diversità possono essere una fonte di ricchezza.
Il maestro di una città italiana dovrebbe aiutare i suoi bambini italiani a
capire perché altri ragazzi pregano una divinità diversa, o suonano una musica
che non sembra il rock. Naturalmente lo stesso deve fare un educatore cinese con
bambini cinesi che vivono accanto a una comunità cristiana. Il passo successivo
sarà mostrare che c'è qualcosa in comune tra la nostra e la loro musica, e che
anche il loro Dio raccomanda alcune cose buone. Obiezione possibile: noi lo
faremo a Firenze, ma poi lo faranno anche a Kabul? Bene, questa obiezione è
quanto di più lontano possa esserci dai valori della civiltà occidentale. Noi
siamo una civiltà pluralistica perché consentiamo che a casa nostra vengano
erette delle moschee, e non possiamo rinunciarvi solo perché a Kabul mettono in
prigione i propagandisti cristiani. Se lo facessimo diventeremmo talebani anche
noi.
Il parametro della tolleranza della diversità è certamente uno dei più forti
e dei meno discutibili, e noi giudichiamo matura la nostra cultura perché sa
tollerare la diversità, e barbari quegli stessi appartenenti alla nostra
cultura che non la tollerano. Punto e basta. Altrimenti sarebbe come se
decidessimo che, se in una certa area del globo ci sono ancora cannibali, noi
andiamo a mangiarli così imparano. Noi speriamo che, visto che permettiamo le
moschee a casa nostra, un giorno ci siano chiese cristiane o non si bombardino i
Buddha a casa loro. Questo se crediamo nella bontà dei nostri parametri.
***
Molta è la confusione sotto il cielo. Di questi tempi avvengono cose molto
curiose. Pare che difesa dei valori dell'Occidente sia diventata una bandiera
della destra, mentre la sinistra è come al solito filo islamica. Ora, a parte
il fatto che c'è una destra e c'è un cattolicesimo integrista decisamente
terzomondista, filoarabo e via dicendo, non si tiene conto di un fenomeno
storico che sta sotto gli occhi di tutti. La difesa dei valori della scienza,
dello sviluppo tecnologico e della cultura occidentale moderna in genere è
stata sempre una caratteristica delle ali laiche e progressiste. Non solo, ma a
una ideologia del progresso tecnologico e scientifico si sono richiamati tutti i
regimi comunisti. Il Manifesto del 1848 si apre con un elogio spassionato
dell'espansione borghese; Marx non dice che bisogna invertire la rotta e passare
al modo di produzione asiatico, dice solo che questi di questi valori e di
questi successi si debbono impadronire i proletari.
Di converso è sempre stato il pensiero reazionario (nel senso più nobile del
termine), almeno a cominciare col rifiuto della rivoluzione francese, che si è
opposto all'ideologia laica del progresso affermando che si deve tornare ai
valori della Tradizione. Solo alcuni gruppi neonazisti si rifanno a una idea
mitica dell'Occidente e sarebbero pronti a sgozzare tutti i musulmani a
Stonehenge. I più seri tra i pensatori della Tradizione (tra cui anche molti
che votano Alleanza Nazionale) si sono sempre rivolti, oltre che a riti e miti
dei popoli primitivi, o alla lezione buddista, proprio all'Islam, come fonte
ancora attuale di spiritualità alternativa. Sono sempre stati lì a ricordarci
che noi non siamo superiori, bensì inariditi dall'ideologia del progresso, e
che la verità dobbiamo andarla a cercare tra i mistici Sufi o tra i dervisci
danzanti. E queste cose non le dico io, le hanno sempre dette loro. Basta andare
in una libreria e cercare negli scaffali giusti.
In questo senso a destra si sta aprendo ora una curiosa spaccatura. Ma forse è
solo segno che nei momenti di grande smarrimento (e certamente viviamo uno di
questi) nessuno sa più da che parte sta. Però è proprio nei momenti di
smarrimento che bisogna sapere usare l'arma dell'analisi e della critica, delle
nostre superstizioni come di quelle altrui. Spero che di queste cose si discuta
nelle scuole, e non solo nelle conferenze stampa.
(5 ottobre 2001)