È CONTROCORRENTE, ma
proverò a dimostrare che c´è del metodo nella follia che pervade le
ultime ore della Casa delle libertà. Apparentemente, c´è solo
disgregazione, sfascio, anarchia. Uno stato di non-governo che deve
impensierire non poco il Palazzo della destra, se ieri il vicepresidente
Fini ha dovuto uscire allo scoperto per invitare la maggioranza "al
dovere di una maggiore coesione", chiedendo a tutti di riflettere a
fondo "su ciò che è accaduto negli ultimi giorni", sulle
"incomprensioni" e sulle "divaricazioni". Si sta
dunque passando il segno. Vediamo perché.
Il catalogo degli incidenti politici degli ultimi giorni è sotto gli
occhi di tutti. Il presidente del Consiglio insulta i cento anni di storia
della più grande industria italiana in un momento di crisi verticale di
mercato per l´azienda e di crisi totale di prospettiva per i suoi
lavoratori, e mentre è aperta una trattativa difficilissima al tavolo del
governo spiega che lui avrebbe la ricetta per risanare la Fiat,
rimodellare la gamma delle auto, cambiare il marchio, trasformare gli
operai in infermieri. Il ministro per le riforme attacca il Capo dello
Stato, contrapponendolo al Parlamento. I centristi criticano la Lega sulla
devolution che stanno discutendo davanti alle Camere. I presidenti delle
due Camere sono divisi su tutto, dal pieno sostegno a Ciampi al giudizio
su Bossi. La Rai, termometro ideologico e leva politica del berlusconismo
e della nuova destra, è senza governo perché la maggioranza è spaccata
sul suo destino e su quello dei suoi amministratori. Palesemente, dopo un
anno e mezzo dall´ingresso di Berlusconi a Palazzo Chigi, con un grande
successo elettorale e una forte maggioranza in Parlamento, nessuno tiene
in mano le redini di questa destra italiana: che comanda, ma non governa.
Queste spinte centrifughe, viste tutte insieme e sommate alle difficoltà
della politica economica del governo, all´impatto sociale negativo delle
scelte per la scuola e la sanità, all´anomalia irrisolta del conflitto
di interessi e all´ossessione di manomettere la legislazione sulla
giustizia, per il salvacondotto privato di un piccolo gruppo di imputati
legato al presidente del Consiglio, dà l´idea di un orizzonte limitato,
di un progetto asfittico e di una prospettiva incerta per il governo
Berlusconi.
Questa
destra che comanda ma non governa
A Berlusconi basta l´avere assemblato una coalizione: un fallimento
che prima di tutto è culturale
Nel Polo il blocco più estraneo è la Lega, pronta a diventare pietra di
inciampo nelle istituzioni
Ma qui, interessa di
più cercare di capire le ragioni di questa asfissia politica e di questa
autonomia ridotta. E se devo indicare una causa sola di questa crisi, la
individuo nel fallimento culturale del berlusconismo, che è già evidente
ben prima del fallimento politico. Mi spiego: ciò che è già fallito,
perché è mancato fin dalla partenza, è il tentativo di fondare in
Italia una moderna cultura di destra per il nuovo secolo, fondendo insieme
in una concezione europea, accettata, consapevole e risolta le spinte e le
pulsioni (alcune delle quali anche moderne, e vitali) che agitano oggi le
diverse destre riunite da Berlusconi dentro la Casa delle Libertà, ma non
ricondotte ad unità.
Si tratta di un´operazione ambiziosa, e tuttavia necessaria, parallela a
quella che a sinistra è eternamente in corso (e irrisolta) dopo la fine
del comunismo, il suicidio socialista, la scelta di campo dei cattolici
democratici senza più il partito cattolico alle spalle. In Francia, la
stanno tentando Chirac, Juppè e Raffarin, cercando di trasformare la
larga maggioranza presidenziale in un partito, ma soprattutto cercando di
vincere la battaglia delle idee: creando una nuova carta dei valori che
attualizzi l´idea di destra, coniughi il ristabilimento dell´ordine
repubblicano con l´integrazione degli stranieri e la riduzione delle
ingiustizie, superi sia il neoconservatorismo americano che il liberalismo
anglosassone, coniughi i Beatles con de Gaulle, faccia i conti con lo
spirito del maggio Sessantotto, fuoriesca dalle identità del vecchio
secolo perché, come dice il ministro Sarkozy "dirsi gollisti oggi
non basta più".
In Italia tutto questo manca. È come se a Berlusconi bastasse l´assemblamento
della coalizione, poi la conduzione vittoriosa della campagna elettorale,
infine la guida del governo. La destra italiana, si potrebbe dire con uno
slogan, è ciò che fa. Oppure, più esattamente: la destra è Berlusconi
al governo, indipendentemente da ciò che fa. Come una riparazione, una
riconquista, una rivoluzione. Un dato psicopolitico, ma senza l´ambizione
di fondere le diverse destre in una cultura capace di sfidare la sinistra
per la nuova egemonia.
In questo quadro – ecco il problema a cui stiamo assistendo – si
muovono nel Polo almeno quattro spezzoni culturali, quattro blocchi di
pensiero e prassi, in conflitto tra di loro. Il primo, il più estraneo,
è la Lega. È in caduta verticale di consensi, come dicono i sondaggi,
perché l´autonomia è l´anima del leghismo e al contrario l´allineamento
con Forza Italia spinge gli elettori a preferire il partito più forte e
più visibile. La devolution da riforma è diventata ideologia fondante,
ragione politica decisiva per l´impegno di Bossi al governo. L´attacco a
Ciampi è un attacco al simbolo dell´unità nazionale, ma anche un
segnale lanciato da Bossi agli alleati e al Cavaliere: la Lega non può
fare né sconti né compromessi, è pronta a diventare pietra d´inciampo
negli ingranaggi istituzionali, a trasformare rapidamente il governo in
"nemico" delle istituzioni di garanzia.
Dietro Bossi si muove Tremonti, ormai nuovo ideologo della Lega, un uomo
che unisce al potere del ministero dell´Economia l´ambizione di cucire
il retroterra culturale del leghismo di governo, come un novello Miglio.
È un Tremonti eclettico e spericolato, che nasce liberista ma oggi cita
il new deal e porta Jean Baptiste Colbert nel pantheon pagano di Bossi. Ma
soprattutto indirizza le pulsioni e le inquietudini leghiste verso un
populismo moderno mutuato addirittura da Pim Fortuyn, contro "il
modello assoluto" dell´Europa che standardizza e livella tutto, crea
l´"uomo a taglia unica" unificato da un solo codice di consumo,
asservito alle élite e alla burocrazia, schiavo del politically correct.
Il secondo blocco culturale, antagonista al primo, è quello dei centristi
post-democristiani. Avevano un ruolo puramente gregario, di esplicito
ornamento culturale per la nobiltà della tradizione. Ma due fattori
combinati tra loro li hanno esposti in un protagonismo politico – e più
ancora culturale – da cui non possono tornare indietro, perché anche in
politica nulla si distrugge, soprattutto ciò che rende in termini di
consenso: si tratta del ruolo di Casini al vertice della Camera, che lo ha
portato ad assumere toni e stili istituzionali anche nell´agire politico,
e della parallela estremizzazione della politica berlusconiana, sotto la
spinta delle necessità di salvaguardia personale da un lato, delle
richieste leghiste dall´altro. Il ruolo, per Casini, è diventato una
politica, lo stile addirittura l´embrione di una cultura. È il
moderatismo, naturalmente contrapposto non solo all´estremismo parolaio
leghista, ma anche al radicalismo di governo del Cavaliere.
Il terzo blocco di pensiero e azione, è ovviamente quello di Alleanza
Nazionale. È un partito culturalmente guardingo, sospettoso di sé e
degli altri, rattrappito dalla necessità di manifestare il suo pensiero
soltanto qui ed ora, portandolo a coincidere con la prassi di governo.
Dunque il partito è Fini. E Fini tende a coincidere col buonsensismo di
governo, con una destra amministrativa, deprivata da pulsioni,
equilibrista più che equilibrata, ambiziosa ma in forma nascosta, attenta
ad investire più che a fare. Una destra che nell´impazzimento di questi
giorni si accredita come responsabile, ma resta nell´ambito della
mediazione, rinunciando a indicare una via culturalmente risolutiva delle
tensioni interne alla maggioranza, attenta al comunitarismo ma incapace di
proporlo come alternativa al leghismo. Perché la sua cultura tradizionale
è inservibile, quella nuova coincide con il programma di governo, e
mentre si fa si disfa.
Siamo all´ultimo spezzone culturale: il berlusconismo fatto politica,
ideologia e governo. Il Cavaliere in realtà oscilla da sempre tra la
tentazione democristiana (che lo vorrebbe al centro di interessi ordinati
e composti, in un sistema dove come dice da anni Confalonieri "ce n´è
per tutti") e la vocazione "rivoluzionaria", che rompe il
linguaggio e le convenienze tradizionali della politica, lo porta a dire
ciò che in politica non si può nemmeno pensare, lo spinge oltre la linea
di decenza, trasformando la sua biografia in ideologia testimoniale,
assicurazione e promessa, progetto per la destra e programma per gli
italiani. È un approccio culturale populista e plebiscitario, dove il
consenso si misura una volta soltanto e non deve essere conquistato ogni
giorno, l´incapacità di governare un´alleanza diventa congiura esterna
e ribaltone, gli avversari politici sono nemici eterni del Bene, la
politica è comando più ancora che potere. Un mondo fantasmatico dove
agiscono personaggi irreali e di comodo, gli eterni Comunisti, lo stesso
Cavaliere invincibile e superiore a tutti. Un paesaggio da campagna
elettorale permanente, per un Paese in guerra con se stesso, per la prima
volta governato da una cultura radicale di destra.
Come vogliono le leggi della politica, se manca un leader o un progetto
capace di disciplinare, selezionare e risolvere queste spinte culturali
tra loro diverse, la combinazione rischia di avvenire in basso, al livello
degli istinti e delle pulsioni. Si unisce il peggio, affiora un metodo
negativo che culturalizza gli errori politici e li rende paradigma,
canone, sistema. Berlusconi che attacca la Fiat rivela la pulsione dell´eterno
outsider che vorrebbe ereditare il blasone decaduto della grande
aristocrazia industriale, incorporandola e soppiantandola insieme (dopo
che a Melfi nel ´94 aveva rivelato di tenere la foto dell´avvocato
Agnelli sul comodino) per dire al Paese che lui non ha la soluzione della
crisi Fiat: "è" la soluzione stessa, nel momento in cui anche
la Fiat si decide a scivolare dentro la sua agiografia personale. Ma tutto
questo – ecco il punto – si salda con la cornice culturale del
colbertismo tremontiano, con la sfida leghista alle Grandi Famiglie, con l´insopprimibile
grido corporativo e statalista del "Secolo d´Italia" ieri sulla
crisi Fiat ("Aiuto pubblico, si può"), magari sognando un´"Italauto"
col simbolo liberty di un´autarchia ridicola e impossibile.
Ecco il metodo che unifica nel peggio le sottoculture irrisolte della
destra. Nello stesso modo, il Cavaliere non ha sconfessato Bossi per il
suo attacco plateale a Ciampi perché al suo essere rivoluzionario è
estranea una cultura di salvaguardia delle istituzioni di garanzia. Non
gli interessa tenerle al riparo: meglio sulla corda. Nei prossimi mesi la
Costituzione cambierà a spintoni e bocconi, senza una cornice culturale
di riferimento, senza un modello misurato in Parlamento, con la devolution
che serve all´ideologia di Bossi, il presidenzialismo che è necessario
alla biografia del Cavaliere. Anche i pesi e le garanzie si sposteranno.
Dunque, piuttosto di costruire a destra una cultura istituzionale faticosa
perché rispettosa, e consapevole, si può cominciare a destrutturare il
vecchio ordine. Non è Alain De Benoist, l´unico riferimento culturale
comune della nuova destra, ad avvertirci che il prossimo scontro non sarà
più tra destra e sinistra, e ancor meno tra fascismo e democrazia, ma
"sarà verticale, tra basso contro alto"? E allora, si spari
pure sul quartier generale. Vorrei sbagliarmi, ma Bossi contro Ciampi è
solo l´inizio.
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