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Scritto con la consueta e mirabile forza ideale e l'ineguagliata acutezza e ricchezza di pensiero che hanno reso famosa Hannah Arendt, il saggio On violence (Sulla violenza) fu elaborato dall'autrice "a caldo", mentre ancora non si erano spente negli USA le polemiche sull'"uso della forza" da parte della guardia nazionale che represse ferocemente la protesta studentesca a Berkeley e innescò la miccia che avrebbe fatto esplodere la rivolta del ghetto nero di Watts a Los Angeles. Da questi fatti Arendt prese spunto per rielaborare ancora una volta i concetti di violenza, forza, potere, autorità, governo in quanto elementi della teoria politica, e indicare soprattutto le loro differenze.

D'altra parte questa descrizione è finalizzata all'analisi di fatti che rimasero emblematici, tra il '67 e il '68, della risposta del Governo federale al movimento studentesco e a quello per i diritti civili, che in quegli anni rispondeva all'assassinio di Martin Luther King esigendo giustizia sociale e integrazione razziale.

Il saggio acquista così un respiro profondo e diventa uno scritto di filosofia politica che riespone, integrandole direttamente nell'attualità bruciante della fine degli anni Settanta, quegli elementi essenziali di riconoscimento di un pensare politico (e storico) che rimangono l'asse centrale e più originale dell'attività della filosofa. In Sulla violenza si avverte e si riconosce la concretezza della passata "vita activa" che Hannah praticò durante gli anni del nazismo, nell'azione politico-umanitaria di supporto a chi espatriava dalla Germania hitleriana, corroborata dall'intensa teorizzazione che diede luogo a opere fondamentali quali Le origini del totalitarismo e Sulla rivoluzione.

Il respiro che Arendt dà all'analisi dei concetti, infatti, oltre che finemente attuale, è anche eminentemente categoriale; una filosofia politica non può prescindere dal presente in cui è immersa, dovendosi d'altra parte spingere anche nella ricerca dei fondamenti concettuali di questo pensare. L'attività di tutta una vita, viene qui da Hannah Arendt rimessa in luce e in movimento, recuperando lo iato tra teoria politica, che in genere non si occupa dei processi quotidiani della prassi, e politica concreta, quella fatta nei luoghi istituzionali e nelle piazze, che in genere viene risucchiata nei commenti giornalistici del giorno dopo.

In questa dimensione, in questo terreno vago di un pensiero attivo quotidiano, si colloca il saggio, prezioso, oltre che per la consueta maestria e apertura d'indagine, per la sua funzione di "ponte" tra l'astrazione di ogni ipotesi teorica e il bruto empirismo della politica quotidiana; si riconferma qui l'originalità e la novità assoluta del pensiero di Arendt in ordine proprio al recupero di quel terreno vago, quella terra di mezzo tra dottrina e pratica, su cui peraltro molte teorie si sono arenate, dal liberalismo classico al socialismo utopico. Del resto, troppe realtà politiche, soprattutto nel secolo appena trascorso, hanno determinato disastri e fatto strage di idee di cambiamento del mondo e aspirazioni di giustizia sociale.

Non si tratta solo, come lucidamente Arendt ha descritto in Le origini del totalitarismo, sulla base del rapporto Krusciov, di denunciare la costruzione fredda e scientemente perseguita del sanguinario regime staliniano e la sua prosecuzione nell'epoca della guerra fredda. Oppure, come ne La banalità del male, di analizzare la micidiale macchina della morte prodotta dal nazismo; bensì di cercare nell'attuazione delle costituzioni politiche la radice di quel disordine e di quella terrificante eterogenesi dei fini intorno a cui si è giocata in prevalenza la partita delle relazioni tra Stati come quella della cittadinanza e dei diritti politici e civili.

La terra di confine tra teoria e pratica politica, scarsamente indagata dalla filosofia politica europea cinque e secentesca è divenuta irrimediabilmente terreno di scontro e di frattura tra ideologie. Arendt come Marx le considera infatti sovrastrutture del pensiero e falsa coscienza al lavoro, con la funzione di oscurare la realtà e opacizzare le relazioni umane.

Nel passaggio e nella relazione problematica teoria-prassi, che l'autrice ha indicato in altre opere essere falsamente riprodotta sulla base del paradigma soggetto-oggetto e astrazione-concretezza, la teoria politica nel Novecento ha infatti elevato a sistema l'attualizzarsi delle dottrine nei luoghi istituzionali del potere, il suo cristallizzarsi e irrigidirsi, fino alla crudeltà di una decisione dall'apparenza sovraumana, di un totem che ha prodotto, almeno a partire dal 1793, il terrore e la ghigliottina, i pogrom e i processi politici, i campi di lavoro e i lager.

La logica sistematizzata della violenza, inerente allo Stato, si è così manifestata come orrore e brutalità di massa, omicidio politico e Shoah. In questo quadro problematico, Arendt trova un elemento e una misura d'ordine a partire dalla quale è possibile ridare senso ai concetti che la politica nel secolo appena trascorso ha stravolto e piegato ad una logica diversa e opposta a quella originaria.

La lucidità e la finalità ordinatrice di questo saggio confermano dunque la figura arendtiana come quella di una delle più grandi pensatrici che si sono soffermate sul concetto di "politica". Qui la ricerca delle differenze di senso dei concetti non è basata su un ordine gerarchico di termini quali forza, autorità, potere ma sull'emergenza dei casi concreti cui essi pertengono.

La rivolta studentesca contro le rigidità e l'accademismo - nonché la burocrazia - del sapere universitario, la teoria politica del movimento studentesco da Marx a Trotskij a Sorel a Mao, le prese di posizione sulla violenza di Sartre a partire dall'interpretazione di Fanon, nonché la strutturazione dell'apparato militare-industriale statunitense nella guerra fredda, sono i punti di crisi concettuali e le ragioni concrete in cui si innerva il pensare politico di Arendt.

Si possono così ricollocare alquanto agevolmente anzitutto i concetti di guerra e pace che erano stati l'oggetto dell'introduzione al fondamentale testo Sulla rivoluzione, estendendone la portata oltre la necessaria constatazione della guerra come "dissuasione"; e in ciò ribadire il senso del potere di deterrenza quale categoria della politica internazionale che produce l'equilibrio del terrore tra USA e URSS dopo "la baia dei porci".

Da questo nucleo tematico, l'inevitabilità dello stato di guerra non dichiarata nelle relazioni internazionali e l'irreversibilità della strategia di accumulo di armi nucleari (che oggi assume un senso profetico), proviene la critica ad alcuni settori del movimento di protesta dei campus e ad alcune parole d'ordine della contestazione europea del maggio francese. Questa critica si fonda da un lato sul fraintendimento del concetto di violenza in Sorel e Franz Fanon da parte della contestazione e sulla violenza non politica dei criminali cui anche Pareto si riferisce, dall'altra sulla denuncia dell'inevitabilità della guerra basata sull'indistinzione di violenza e potere statale. Sul presupposto della giusta reazione al potere universitario, statale, economico e militare, in Europa e negli Stati Uniti si sono sviluppati movimenti di contestazione radicale all'esistente che però, dice Arendt, hanno preteso, in alcuni casi, di mettersi sullo stesso piano delle violenze che contestavano; in qualche modo interpretando "l'uso della violenza" in Sorel e soprattutto nel Fanon de I Dannati della terra, come giustificato da Sartre. È questa interpretazione a fallire secondo Arendt perché non tutta la politica istituzionale è di per sé animata da spirito violento, e una volta "attaccata" dalla contestazione la politica del potere si difende con la violenza (centuplicata aggiungiamo noi).

Esistono dunque due fraintendimenti che si fronteggiano: da una parte quello dello Stato quando afferma che la violenza gli è connaturata, dall'altro quello del movimento quando pronuncia le sue parole d'ordine "violente". Ciò non significa che Arendt sia neutrale rispetto a questo scenario: "Niente... è stato con più costanza smontato dalla realtà quanto il credo degli 'interessi di parte illuminati'." (p. 44).

È così esclusa ogni mediazione politica e di pensiero che consiste nel poter ammettere un qualsiasi ordine istituzionale "illuminato", in quanto esso è radicalmente in contraddizione con il concetto di potere, che non prevede alcun "lume" e alcuna intelligenza, basandosi sul consenso collettivo ad una forma statuale.

Tale passaggio del pensiero arendtiano è fondamentale per non appiattirne le argomentazioni su posizioni teorico-politiche liberal come alcune interpretazioni hanno cercato di fare.

Evitando tale fraintendimento si riescono a intendere la critica al concetto soreliano di violenza e la critica all'uso sartriano della violenza in Fanon; e risulta rischiarata anche, nell'opera sulla rivoluzione, l'analisi delle deviazioni della rappresentanza e le sue conseguenze sulla nascita dei regimi; analisi che in una rilettura liberal del pensiero arendtiano sarebbe in contraddizione con il concetto di Stato come somma e mediazione degli interessi dei singoli. Infatti mentre nell'introduzione a I Dannati della terra, Sartre presenta Fanon ad uso "occidentale" (la critica al colonialismo francese in Francia e poi in Germania e in Italia nel 1968) Arendt riattribuisce a Fanon la sua origine, connettendolo al più profondo "pensare dei colonizzati" per cui la violenza rappresenta l'unica alternativa ai processi di spoliazione capitalista delle risorse e allo sfruttamento di manodopera. È questo il punto di contatto con Marx, di cui qui Arendt dice che è stato a sua volta mal interpretato dal movimento di contestazione, soprattutto per quanto riguarda il fisiologico processo che porterebbe all'abbattimento dello Stato in quanto forma di transizione al socialismo.

Tale errata interpretazione secondo Arendt va rintracciata nell'origine positivista del pensiero marxiano tradotta in un modello determinista dal movimento studentesco; il risultato di tale trasposizione abolisce malauguratamente la separazione essenziale tra orizzonte biologico-organico e leggi della politica.

Pensare lo Stato e i rapporti politici in termini di sviluppo infinito, di evoluzione progressiva, e in modo darwiniano come lotta per la vita e selezione naturale, e non vedere che c'è discontinuità e asimmetria tra organismo vivente e politica, porta a pensare la violenza, che è senz'altro attributo ineliminabile dell'umanità, come elemento strutturale del potere.

Certo, la tradizione filosofico-politica occidentale, già prima di Darwin e Marx ha supposto l'indagine sui luoghi del potere in termini di inferenza di un'aggressività innata dei corpi politici, da Bodin a Hobbes; per cui niente di più logico che un movimento storicamente determinato imperni la propria azione su tale presupposto. Finemente però Arendt non attribuisce a tale presupposto la causalità diretta del comportamento violento. È invece sempre lo Stato, e le attribuzioni istituzionali dei luoghi del potere, ad essere violento e a generare violenza, poiché tale attribuzione è fatta sulla base dell'interpretazione della violenza come connaturata alla politica.

Fondamentale risulta dunque rintracciare fenomenologicamente le differenze originarie e fondative dei concetti della politica.

L'autorità, essendo dai Greci a Cicerone attribuzione delegata di legittimità allo Stato, differisce dal potere che è il consenso collettivo alla forma statuale. Esso differisce poi dalla forza che è l'attributo non misurabile direttamente in una qualche azione coercitiva delle istituzioni ma che in qualche modo presiede a tale azione; mentre la violenza, diversa dalla potenza, è sempre un elemento strumentale, anzi quasi sempre nella storia, divenuto fine in sé.

Tali essenziali distinzioni, che rimettono in ordine concetti che nella realtà della politica degli Stati sono mescolati in maniera arbitraria, si basano su un originario concetto di politica non riferito al presupposto ebraico-cristiano dell'obbedienza alla legge, bensì a quello classico di isonomia, equilibrio nella natura dei rapporti costituzionali, e alla civitas romana, che non identificava il potere col dominio, né la legge col comando. Da questo pensiero politico nasce la Repubblica rivoluzionaria del XVIII secolo, la quale, originata dal giusto fine della rappresentanza dei gruppi sociali dominati si è poi fuorviata, assumendo sempre più la forma della dominazione su un popolo soggetto e non più sovrano. Su questo argomento Arendt non solo riafferma le tesi già espresse in Sulla rivoluzione, ma anche quelle relative al concetto di Stato in Che cos'è l'autorità? nella raccolta di saggi Tra passato e futuro.

Emerge così un modello di storia alternativo e senz'altro più produttivo di quello evoluzionista del progresso illimitato, cui si può ricorrere sia per spiegare la violenza che le rivolte e le rivoluzioni. Quello infatti che sembra un "evento casuale" e che non risponde alla logica progressiva di uno sviluppo determinabile e misurabile, manifesta il suo senso se interrogato proprio nella sua non casualità e rispetto ad una sua precisa scaturigine, via via "celata" dalle false interpretazioni, tra cui quella della continuità biologico-politico.

Quando infatti la filosofia politica ha voluto affermare la continuità tra organismo vivente e Stato, tra evoluzione biologica e sviluppo dei rapporti politici è stata costantemente smentita dalla realtà, o ha pericolosamente affermato un'etica statale, sul presupposto della strutturale identità potere-violenza. È questa la tradizione preponderante della teoria politica occidentale, che non solo ha smarrito le categorie del pensare politico dei greci e dei romani, ma propone anche la stessa categoria di "guerra giusta" (la cui analisi di Schmitt Arendt cita ed evidenzia) come risposta fisiologica dello Stato all'attacco esterno. Singolare è come, ancora una volta con estrema lucidità, Arendt preveda nell'ultimo trentennio del Novecento, la situazione di diritto internazionale che è oggi all'ordine del giorno.

Lei, tutta interna al pensiero politico del Novecento, in cui vige la categoria amico/nemico, che ha funzionato insieme come istigazione e limitazione delle guerre, è riuscita a operare una prognosi sul corpo del diritto internazionale. Tale previsione della caduta del paradigma amico/nemico, proprio quando (o perché) esso viene dispiegato in maniera totalitaria nella non soluzione dei conflitti ci fa insistere sulla fondamentale importanza del pensiero dell'autrice di Vita activa, utile a cogliere le urgenze della politica mondiale, dei rapporti tra movimenti e istituzioni, e la necessità da parte di questi movimenti di attrezzarsi con forme di democrazia senza i quali sono destinasti alla scomparsa. In tal senso il suo pensiero è profezia politica, antidoto potente all'uso istituzionale della violenza, affermazione di un alternativa, basata sulla storia, ai rapporti politici dominanti e incrocia senz'altro l'antiistituzionalità del movimento che si oppone oggi all'esistente.

Hannah Arendt (1906-1975) nacque ad Hannover e fu allieva di Heidegger, Bultmann e Jaspers. Dopo l'avvento del nazismo si stabilì in Francia e nel 1941 negli Stati Uniti. Docente all'Università di Chicago, a Berkeley, Princeton e, dal 1967 alla New York School for Social Research di New York. Fra le sue opere più significative: Le origini del totalitarismo; Vita activa; La banalità del male; Teoria del giudizio politico; Il futuro alle spalle; Sulla rivoluzione; Ebraismo e modernità; La vita della mente; Che cos'é la politica?