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Le trappole del terrorismo
le idee
ULRICH BECK
CHE cosa continua a rendere incomprensibile l'attentato
terroristico suicida, anche settimane dopo che è stato compiuto? Le distinzioni
e le demarcazioni su cui si basa la nostra idea del mondo - tra interno ed
esterno, polizia e apparato militare, guerra e crimine, guerra e pace - sono
venute meno. Chi avrebbe pensato che la sicurezza interna, anche quella della
Germania, ad esempio, avrebbe dovuto un giorno essere difesa nelle valli più
remote dell'Afghanistan? Di nuovo un concetto sbagliato: «Difesa»! Anche la
distinzione tra difesa e attacco non tiene più. Si può dire: gli Usa «difendono»
la loro sicurezza interna sul suolo di altri paesi, in Afghanistan o ad Amburgo,
ecc.?
La chiarezza e precisione concettuale, la critica pubblica dei concettizombie
con i quali pensiamo e agiamo politicamente è diventata una questione di
sopravvivenza. <
Anche il concetto di «terrorista», in fondo, è sbagliato. Il massacro dell'11
settembre deve essere completamente distinto dalla violenza praticata da gruppi
terroristici come quelli irlandesi, baschi, palestinesi o da altri nazionalisti.
Non si tratta nemmeno dell'affermazione di una causa nazionale, ma di bombardare
l'evoluzione della modernità - con i mezzi della modernità globalizzata.
Resta comunque del tutto incomprensibile la medievalità postmoderna delle
azioni di questi attentatori. Essere moderni significa aver paura di morire.
Questi, invece, uccidono se stessi e altri per andare in Paradiso - eppure sono
«moderni»: dotati di competenze tecniche ultraspecialistiche, sanno che la
civiltà moderna è un unico tallone d'Achille.
Un'intima confidenza con le debolezze della modernità, delle quali si servono
senza pietà. Antiglobalismo fanatico. Antimodernismo e pensiero globale moderno
qui sono direttamente mescolati l'uno con l'altro. Analizzando la figura dello
sterminatore nazista Eichmann, Hannah Arendt ha parlato della «banalità del
male». Da allora, potevamo concepire tecnocrati assolutamente malvagi e buoni
padri di famiglia, ma non terroristi di Dio sposati in Occidente con lauree in
ingegneria e una predilezione per la vodka, che per anni pianificano in segreto
e in modo tecnicamente perfetto il loro suicidio di gruppo come assassinio di
massa, mettendolo in atto freddamente, armati di un coltellino tascabile.
Il terrorismo transnazionale ha anche aperto un nuovo capitolo nella società
mondiale del rischio. È necessario distinguere chiaramente l'attentato in se
stesso dalla minaccia terroristica che attraverso di esso viene universalizzata.
L'elemento decisivo non è il rischio, bensì la sua percezione: quello che gli
uomini temono come reale, provoca effetti reali. Il capitalismo presuppone
l'ottimismo, che viene distrutto dalla minaccia terroristica creduta
collettivamente, il che può mettere in crisi l'economia mondiale resa insicura.
Chi vede il mondo come rischio terroristico diventa incapace di agire. È questa
la prima trappola predisposta dai terroristi. La seconda trappola è questa: il
rischio del terrorismo percepito e politicamente strumentalizzato scatena i
bisogni di sicurezza che cancellano la libertà e la democrazia, vale a dire ciò
che rende superiore la modernità. Se ci vediamo posti di fronte alla scelta:
libertà o sopravvivenza, è già troppo tardi, perché realisticamente la
maggioranza dell'umanità deciderà contro la libertà. Il pericolo più grande
non è dunque il rischio, ma la sua percezione, che libera la fantasia del
pericolo, privando così la società moderna della sua capacità di azione.
Di continuo è stata sollevata e discussa la questione di cosa possa unire il
mondo. La risposta sperimentale era: un attacco da Marte. Questo terrorismo è
un attacco da un Marte interno. Comunque, per un istante le regioni e le nazioni
disperse sono unite contro il nemico comune del terrorismo globale. Proprio l'universalizzazione
della minaccia terroristica agli stati del mondo rende la lotta al terrorismo
globale una sfida per la grande politica, nella quale vengono forgiate alleanze
superando i contrasti tra fronti ostili, vengono messi a tacere i conflitti
regionali e quindi vengono rimescolate le carte della politica mondiale.
Le priorità della politica estera statunitense sono mutate in modo tanto rapido
e radicale da mozzare il respiro. Se fino a poco fa nel pensiero politico e
nell'agire di Washington predominava ancora l'idea di un sistema di difesa
missilistica nazionale, ora non se ne parla più. Le rivalità con Mosca vengono
- almeno provvisoriamente - ridimensionate di fronte alle necessità che
impongono la «difesa» della sicurezza interna degli Usa in Afghanistan in
cooperazione con la Russia. Nel frattempo, su Israele e sui palestinesi viene
esercitata un'intensa pressione affinché arrivino a un autentico cessate le
armi, considerato la chiave di un coinvolgimento degli stati arabi e islamici.
Anche per l'Unione Europea la forza del fronte comune contro il terrorismo ha
dischiuso nuove opportunità d'azione. Improvvisamente si attenuano e scompaiono
i contrasti tra le nazioni e i governi rivali europei e si affermano gli
interessi comuni - all'interno dell'Europa, ma anche tra europei e statunitensi:
brutti tempi per gli euroscettici!
Tempi buoni per un ingresso della Gran Bretagna nel mondo dell'euro!
Naturalmente, questa forza della comunanza può crollare già con il test di
durezza delle azioni di guerra. L'attentato terroristico rafforza lo stato, ma
svaluta e detronizza due idee finora dominanti: lo stato nazionale e lo stato
neoliberista. Alla domanda se i 40 miliardi di dollari che il governo americano
chiede al Congresso per la guerra non siano in contraddizione con le tesi della
politica economica neoliberista, sull'onda delle quali si è insediato il
governo Bush, il loro sostenitore risponde: «La sicurezza nazionale ha la
precedenza».
Ma la sicurezza nazionale - è questa la seconda grande lezione dell'attentato
terroristico - non è più sicurezza nazionale. Certo, le alleanze ci sono
sempre state. Tuttavia, la differenza decisiva sta nel fatto che oggi le
alleanze globali sono necessarie non soltanto per la sicurezza esterna, ma anche
per quella interna. Come ho già detto, i confini tra interno ed esterno sono
cancellati e devono essere ridefiniti e ritracciati. In questo modo, però, la
categoria dello stato nazionale diventa una categoriazombie. Di fronte alla
minaccia del terrore globale, ma anche di fronte alla catastrofe climatica, alle
migrazioni, ai veleni negli alimenti, al crimine organizzato, ecc. l'unica via
per la sicurezza nazionale è la cooperazione transnazionale. Essa non porta
affatto a una rinascita dello stato nazionale, ma alla scoperta e al
dispiegamento di ciò che io chiamo stati cooperativi transnazionali.
Corrispondentemente, si delineano due tipi ideali di cooperazione transnazionale
tra stati: gli stati transnazionali della vigilanza e gli stati cosmopolitici.
Gli stati della vigilanza corrono il pericolo di evolvere in statifortezza, dove
sicurezza e apparato militare vengono scritti in grande e libertà e democrazia
vengono scritte in piccolo. Questo tentativo di costruire una cittadella
occidentale contro la numinosità dell'altro culturale, sospettato per principio
di terrorismo, è onnipresente e sicuramente si intensificherà nei prossimi
anni. Da qui potrebbe prendere forma una politica di autoritarismo democratico.
Dinanzi a tutto ciò sarà di importanza fondamentale porre la domanda: per cosa
lottate, lottiamo, quando si tratta di combattere il terrorismo transnazionale?
Le risposte a questa domanda stanno in un sistema di stati cosmopolitico basato
sul riconoscimento dell'alterità degli altri. Gli stati cosmopolitici non
lottano solo contro il terrore, ma anche contro le cause del terrore nel mondo.
Essi traggono e rinnovano la capacità orientativa e la forza persuasiva del
politico dalla soluzione dei problemi globali che sono così scottanti per le
persone e che appaiono insolubili sul piano delle iniziative nazionali isolate.
Gli stati cosmopolitici si fondano sul principio dell'indifferenza nazionale
dello stato. La tesi è questa: così come la pace di Vestfalia mise fine alle
guerre di religione del XVI secolo separando lo stato dalla religione, alle
guerre (civili) mondialinazionali del XX secolo si potrebbe dare una risposta
separando lo stato dalla nazione. Così come soltanto lo stato aconfessionale
rende possibile la pratica di religioni differenti, gli stati cosmopolitici
dovrebbero garantire la coesistenza delle identità nazionali e religiose
mediante il principio della tolleranza costituzionale.
(traduzione di Carlo Sandrelli)
L'autore è docente di Sociologia all'università di Monaco e alla London School
of economics. Tra i suoi libri più noti «La società del rischio», «Che cos'è
la globalizzazione», «Il lavoro nell'epoca della fine del lavoro». Il suo
ultimo libro è «Libertà o capitalismo?».