Domani milioni di donne e di uomini che lavorano aderiranno allo sciopero
generale promosso da Cgil, Cisl, Uil e da altre organizzazioni sindacali.
Moltissimi di loro, poi, insieme a pensionati, giovani e semplici
cittadini parteciperanno alle manifestazioni che si terranno in tutte le
regioni del paese. Si ripeterà la grande partecipazione di popolo alle
iniziative sindacali che si era già registrata a Roma il 23 marzo scorso.
Lo sciopero generale è da sempre un’iniziativa alta e forte del
sindacato. Viene messa in campo in momenti difficili, per raggiungere
obiettivi importanti, come accade nella circostanza attuale.
L’obiettivo, in questo caso, è impedire al governo di dare attuazione a
dei provvedimenti previdenziali vantaggiosi solo per le imprese, che
risparmierebbero sui contributi dei nuovi assunti, ma disastrosi per i
lavoratori futuri e i pensionati attuali. I primi, infatti, si vedrebbero
privati del diritto ad una pensione dignitosa. I secondi non potrebbero
avere più i rendimenti e i valori attuali delle loro pensioni per effetto
della rilevante e crescente diminuzione dei contributi complessivi
necessari ad assicurare, in forma solidaristica, il rispetto dei diritti
previdenziali acquisiti.
Quella delega previdenziale, se approvata ed attuata, metterebbe in crisi
il sistema, farebbe saltare il patto tra le generazioni che lo sorregge e
minerebbe uno dei fondamenti della coesione sociale. Il tutto per dare un
vantaggio competitivo di breve durata a delle imprese, incapaci di
affrontare la sfida della qualità nel mercato e dunque ripiegate a
cercare vantaggi nell’esclusiva riduzione dei costi. La stessa scelta è
fatta dal governo, ancora una volta sollecitato da Confindustria, sul
terreno dei diritti e del mercato del lavoro. Invece di affrontare il tema
dell’estensione e della modulazione dei diritti e delle tutele verso i
giovani del lavoro atipico e flessibile che ne sono privi, invece di fare
grandi investimenti nella formazione permanente, collegandola alla
revisione degli ammortizzatori sociali per sostenere i redditi colpiti
dagli effetti delle crisi e delle ristrutturazioni sviluppando le
conoscenze e le professionalità dei lavoratori coinvolti, invece di
semplificare e rendere celeri i processi del lavoro per offrire certezze a
lavoratori e imprese, insomma, invece di affrontare riforme capaci di
promuovere innovazione, la qualità e conoscenza, come chiede l’Europa,
il governo indica la strada del ritorno al passato, del ripristino di
norme che favoriscono il caporalato e consegnano alle imprese la
possibilità di licenziare senza una giustificazione.
Le chiamano riforme, ma altro non sono che politiche di restaurazione.
Sono politiche mirate a ripristinare autoritarismo e unilateralità nei
rapporti di lavoro, a definire una società diseguale che produce
esclusione sociale e che indebolisce la stessa struttura produttiva che
dice di voler rilanciare. Le loro reali intenzioni sono tradite dalla
stessa disinvoltura nell’utilizzo delle parole e degli esempi. Non a
caso i campioni del loro riformismo sono Ronald Regan e Margaret Thatcher.
Sulla loro strada trovano il sindacato confederale e non solo. Trovano
tutti quelli che conoscono l’importanza nella civiltà e nelle
democrazie moderne del welfare, della coesione sociale, dei diritti, del
rispetto e del valore della rappresentanza collettiva nelle dinamiche
sociali ed economiche.
La posta in gioco è alta. Affrontiamo anche questa scadenza rispettando,
noi per primi, le nostre specifiche funzioni di rappresentanza (ma esiste
qualcosa di più «sindacale» delle pensioni, dei licenziamenti e dei
diritti?). Sappiamo di poter contare su una condivisione vasta dei nostri
obiettivi. Per questo sono convinto che gli effetti positivi dello
sciopero generale potranno mettere in moto tanti e nuovi processi.
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