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INVENTARE LA VECCHIAIA
La Repubblica-16
OTTOBRE 2001
La
vecchiaia è uscita dal segreto intimo, quasi indicibile, delle persone che
invecchiano per diventare materia di pubblica discussione e riflessione. Non
perché siamo diventati più teneri con i vecchi, e neppure perché la nostra
cultura ha fatto cadere tutti i tabù, ma perché l'aumento della speranza di
vita, che tutti augurano e si augurano pur di esorcizzare la morte, minaccia una
catastrofe sociale dai devastanti effetti previdenziali, sanitari e
assistenziali.
Ma
questo interessamento ai problemi della vecchiaia da parte di psicologi,
sociologi, medici, e oggi, ultimi benarrivati, gli studiosi di genetica, non
deve trarre in inganno. I loro consigli, le loro pianificazioni, le loro
ricette, i loro farmaci non hanno come scopo quello di riportare il vecchio, se
non al centro, almeno all'interno della dinamica sociale da cui, nelle società
avanzate (che sono poi quelle in cui davvero si invecchia), è stato escluso, ma
semplicemente quello di neutralizzarlo con una serie di comfort che lo fanno
sentire solo e inutile come prima, ma accudito.
Solo
e inutile non per il destino biologico, ma per le condizioni storico-culturali
che caratterizzano il nostro tempo, che proprio nella vecchiaia incontra il suo
paradosso. Da un lato infatti i progressi della medicina e delle condizioni
sociali di vita hanno allungato la vecchiaia e accresciuto il numero dei vecchi,
dall'altro il progresso tecnico che caratterizza la nostra cultura ha fatto del
vecchio un incompetente, non più all'altezza dei tempi e quindi inutile.
Eppure,
oltre al mancato controllo del tempo che, scandito dai ritmi veloci della
tecnica, incalza in modo assillante, la nostra cultura efficientista e
utilitarista regala al vecchio quella dimensione che gli ha sottratto per tutta
la vita, la dimensione della libertà. "Sono condannato a essere
libero" diceva Jean Paul Sartre nei giorni della sua vecchiaia, e non
alludeva a quella libertà che molti considerano la prerogativa essenziale
dell'uomo, ma a quella disponibilità infinita di tempo che la nostra società
regala ai vecchi, al solo scopo di far loro assaporare quanto questo tempo sia
inutilizzabile, quanto nessuno ne abbia davvero bisogno.
E
allora occorre Inventare la vecchiaia, come recita il titolo dell'ultimo
libro scritto sull'argomento dal pedagogista Sergio
Tramma (Meltemi, pagg. 120, lire 19.000) dove, opportunamente e anche in
modo persuasivo, si ipotizza la vecchiaia come il tempo della "cura di sé".
Ma che significa per davvero "cura di sé"?
Se
pensiamo alla cura "esteriore", già sui vecchi si sono buttati le
industrie della cosmesi, la chirurgia estetica, i proprietari delle palestre, le
agenzie di viaggio, le trasmissioni televisive nelle ore mattutine e
pomeridiane. Se invece pensiamo alla cura "interiore" di sé, qui
sgombriamo subito il campo da due equivoci: il piacere del ricordo e
l'acquisizione della saggezza, due luoghi comuni inventati dalle cattive
coscienze per persuadere i vecchi ad accontentarsi del loro passato, su cui
sarebbe cresciuta la loro ipotetica saggezza.
In
realtà a una certa età il ricordo è il più disumano degli atti, perché se
è vero che tutte le vite invecchiano e si consumano, nel ricordo viviamo nella
consumazione e per la consumazione. Non ci limitiamo a subirla, fino ad
affondare nel tempo così rovinosamente e talora con tale velocità che non
riusciamo neppure ad assaporare il tempo che ci resta. Che cosa potremmo
assaporare, se viviamo solo il tempo che irrevocabilmente è stato, se
disponiamo solo del passato che è poi la vita trascorsa, consumata, divenuta
nonvita?
Ma
se per il vecchio il passato è una tortura, il presente non è la saggezza,
come si è soliti dire quando si è in cerca di vane consolazioni. Gli anni,
infatti, non insegnano nulla, semmai rendono ancora più indifesi, perché
inducono a pensare che la vita sia contro di noi, sia per così dire la nostra
naturale nemica. E cercare una qualsiasi arma per difendersi da essa è la
peggiore delle stoltezze.
La
saggezza, infatti, non dipende dagli anni, né dalla nostra fedeltà ai principi
guida della nostra vita, ma da quella visione del mondo che nasce dalla
consapevolezza che noi siamo irrimediabilmente mortali, per cui è opportuno: se
si è giovani, dimenticare di esserlo (cosa che di solito riesce naturale), se
si è vecchi dimenticare tutto, anche il fatto di essere stati giovani (cosa più
difficile, ma anche di grande sollievo). La vecchiaia, infatti, che i progressi
della medicina e delle condizioni sociali ci hanno regalato, è dura da vivere
non solo per il deterioramento biologico, non solo per i fattori culturali che
emarginano chi è inutilmente libero, ma anche, come ci ricorda lo psicoanalista
Alberto Spagnoli
nel suo libro: E divento sempre più vecchio (Bollati Boringhieri, pagg.
188, lire 28.000), per una serie di destrutturazioni che in età giovanile
sarebbero devastanti e al limite della psicosi, mentre nell'età senile non
assumono necessariamente questo aspetto perché arginate dall'irrigidimento
delle abitudini.
La
prima destrutturazione è tra l'Io e il suo corpo: non più veicolo per essere
al mondo ma ostacolo da superare per continuare a essere al mondo. La seconda
destrutturazione riguarda l'Io e il mondo circostante, dovuto al fatto che tutti
noi ci difendiamo spasmodicamente dalla sola ipotesi di identificarci con un
vecchio. Senza identificazione un bambino cade nell'abisso dell'autismo, e molti
silenzi dei vecchi sono abissi autistici in cui noi li abbiamo fatti precipitare
con il nostro silenzio emotivo. La terza destrutturazione riguarda l'erotismo e
la sessualità. I vecchi infatti cessano di essere riconosciuti come soggetti
erotici, e quale amore potrebbe resistere a un continuo misconoscimento, al
rifiuto non solo di essere ricambiati ma addirittura riconosciuti come possibili
soggetti d'amore?
La
psicologia scientifica, così ricca di consigli per i bambini, gli adolescenti,
i giovani, gli emarginati non ha speso una parola sull'erotica senile
limitandosi a fornire gli strumenti di "gestione" della vecchiaia e
non gli strumenti di "comunicazione". E così, per essere accettati, i
vecchi devono esprimere tutte queste virtù da cui sono dispensati i giovani:
devono far tacere il desiderio sessuale che non si estingue con l'età, devono
rinunciare ai contatti corporei che si addicono ai giovani, devono essere
allegri ma con misura, devono partecipare alla vita familiare e sociale senza
pretendere di essere ascoltati, devono essere autonomi e indipendenti, due
metafore per dire "soli".
A
tutto ciò si potrebbe obiettare che in fondo nell'età della tecnica i vecchi
sono avvantaggiati da quei compensi protesici che vanno da quelli generali
(termosifone, ascensore, telefono) a quelli individuali (dentiera, occhiali,
insulina), fino ai più sofisticati (pacemaker, apparecchio acustico, teledrin).
Che cosa vogliono di più?
Vorrebbero
semplicemente non essere costretti a giocare in difesa, rifugiandosi nelle loro
abitudini che diventano gli argini della loro sicurezza. Vorrebbero non morire
anticipatamente di noia, di indifferenza, di tristezza perché è a loro
impedito di esprimere quel potenziale emotivo che li rende ancora in grado di
progettare. E soprattutto vorrebbero che la progettazione di cui ancora sono
capaci non cadesse nell'indifferenza, nella compassione, o nell'accoglienza
patetica.
La
vecchiaia quindi, prima di un decadimento biologico, è uno stile di vita
imposto dagli altri che ai vecchi concedono uno spazio espressivo molto ridotto,
oltrepassato il quale il vecchio o è giudicato trascurato, disordinato,
sciatto, o ambizioso, vanitoso, ridicolo. Per i vecchi infatti vale la legge del
tutto o nulla. Forse perché la prossimità alla morte, che ogni vecchio
segnala, attiva in ciascuno di noi quell'angoscia originaria, iscritta nel
nostro destino di mortali, che non trova forma migliore d'esorcismo se non
quella di scaricarsi sui vecchi che impudicamente la rappresentano. Che ne è a
questo punto della depressione senile? La conseguenza del decadimento biologico
o una condizione spesso indotta dall'ambiente circostante quando non addirittura
autoimposta?
A porsi questo problema è il neuropsichiatra Mario Barocci in Umore e invecchiamento (Idelson, pagg. 136, lire 20.000) dove l'ipotesi avanzata è che le condizioni affettivo-emotivo incidano più di quanto non si creda sull'inizio dell'invecchiamento e sulla sua qualità. Già la saggezza popolare sa che: "Il cuore non invecchia mai", ma quante domande del cuore a una certa età ricevono risposta, consentendo quel ricambio emotivo con il mondo che è poi la prima condizione perché una qualsiasi esistenza si senta giustificata?