torna a Tracce/saggi ed articoli


INCONTRO CON LO SCRITTORE AMERICANO DI CUI STA PER USCIRE «RITORNATI DALLA POLVERE», UN ROMANZO PENSATO PER CINQUANT'ANNI
Bradbury, scacco alla morte


di Claudine Mulard

In uno dei quartieri occidentali di Los Angeles, Ray Bradbury apre la porta della sua casa gialla. Ha indosso un paio di pantaloni corti consunti con una camicia in tinta e la cravatta. Cammina appoggiandosi ad un bastone da quando un attacco cerebrale l'ha recentemente lasciato lievemente menomato. Seduto nel salotto le cui pareti somigliano alle incisioni dei suoi libri - vedute un tantino scure ma incantevoli - l'autore di Fahrenheit 451 inizia a parlare, a parlare da lasciare stupiti.

«E' il mio ruolo nella vita, quello di collezionare metafore», così lui definisce la propria creazione, circa trenta libri, seicento racconti, pezzi teatrali e adattamenti per il cinema e la televisione. Un'opera che gli è valsa, un anno fa, la medaglia della National Book Foundation per il suo contributo alla letteratura americana.

All'età di ottantuno anni, i bianchi capelli arruffati, lavora a pieno ritmo, sempre nella grande città californiana dove quest'originario del Middle West si trasferì assieme alla famiglia quando aveva tredici anni. E sempre su una semplice macchina per scrivere, qualche volta anche a mano perché, pur non rifiutando la tecnologia, non nutre alcuna fiducia nei computer.

Ha appena pubblicato uno dei suoi libri migliori, From the Dust Returned - A Family Remembrance (ed. William Morrow, in uscita a febbraio da Mondadori con il titolo Ritornati dalla polvere), un testo onirico in gestazione da oltre mezzo secolo, dove il gusto per le parole, la gaia magia, sono sempre presenti, ancora più forti. «Something Wonderful This Way Comes» (Ci succede qualcosa di meraviglioso), si leggeva sulla prima pagina della Book Review del Los Angeles Times, che parodiava affettuosamente un altro titolo di Bradbury, Something Wicked This Way Comes, nel tessere l'elogio dell'ultima pubblicazione del grande fantasmagorico poeta.

«Certo che sono Timothy!», confessa con un sorriso gioviale a proposito del ragazzino di Ritornati dalla polvere, il solo essere umano in questa eterna famiglia degli Elliot, che vorrebbe tanto divenire eterno come il personaggio di «a thousand times great grand-mère», la mille volte nonna, sposata da oltre quattromila anni.

Il suggeritoreTruman Capote.
Quanto alla giovane Cecy, se ne sta nascosta in solaio ma passeggia nello spirito della gente per conoscere momenti di passione incredibili. Fu Truman Capote, allora capo redattore della rivista Mademoiselle, ad insistere per pubblicare sul numero di Halloween del 1946 un racconto dalla cui trama è nato, cinquant'anni più tardi, Ritornati dalla polvere.
Attraverso il personaggio di Timothy, Dust parla di mortalità e immortalità. «Due fatti hanno segnato la mia vita: quando ho scoperto di essere vivo, a dodici anni, guardando i peli sul dorso della mia mano; è incredibile, nessuno me l'aveva mai detto, la vita è un vero mistero, che strana sensazione! Ma un anno più tardi, vedendo delle persone morire in un film di cow-boy, ho capito che ciò poteva finire.

Sono stato preso dal panico! Come evitarlo? Uccidendomi? Ma se mi uccido, faccio il gioco della morte!... Ho cominciato a scrivere quando avevo dodici anni e questo conflitto tra vita e morte non mi ha mai abbandonato. Ritornati dalla polvere è il puro e semplice riconoscimento di questo scambio continuo nella mia esistenza, quello tra la vita e la morte, e di come mi sento bene ogni volta che vinco - diciamo ogni volta che finisco un racconto o un poema e lo imbuco nella cassetta della posta».

Nel 1999, dopo l'attacco cerebrale, «stavo in ospedale e non potevo muovere la parte destra - rammenta Bradbury. - Allora ho chiamato mia figlia, che mi fa da segretaria, e ho riveduto con lei il manoscritto completo di un romanzo che avevo appena terminato. Presto sono stato in grado di alzarmi e camminare, ma non riuscivo ancora scrivere. Mi sono sforzato di firmare uno dei miei libri, ma non potevo farlo che con il pollice intinto nell'inchiostro! Quei libri devono essere una vera rarità oggi. Mi ci sono volute sei settimane per imparare di nuovo a scrivere ed ho dovuto imparare di nuovo anche a parlare perché la mia dizione era terribile. Tuttavia, dieci settimane dopo, su una sedia a rotelle, ho fatto la mia prima conferenza, e davanti a dei medici per giunta. Che ne dice?».

Nella casa californiana che divide con la moglie Marguerite, la routine del lavoro quotidiano appare gioiosamente semplice. «Quando mi sveglio, la mia musa, che ho soprannominata il mio demone appassionato, mi fa la predica su quello che devo fare ogni mattino; eh sì! Anche la domenica! Chiamo tutto questo il mio teatro mattutino - «my morning theater» -, un momento in cui, non ancora sveglio e non più addormentato, le metafore si accalcano nella mia testa e diventano storie. Mi sveglio sempre pieno d'idee».

Ecco un autore al quale l'ispirazione non fa difetto. «La vertigine della pagina bianca si manifesta quando ci si deve mettere a scrivere cose che sarebbe meglio non scrivere!» - dice divertito -. Geneticamente, Dio ha fatto di me un collezionista di metafore; è un dono che non si insegna... Mi sono sempre piaciuti i miti, mi sono innamorato dell'Egitto quando avevo tre anni - ricordo ancora quella maschera dorata scoperta nella tomba di un re nel 1923. Come non rimanerne affascinato?

Amavo il gobbo di Notre-Dame de Paris, ho visto il Fantasma dell'Opera a cinque anni e simpatizzavo per Quasimodo, non perché fossi un bambino brutto, ma la grottesca agonia di qualcuno il cui amore non è contraccambiato e mendica riconoscenza in modo così esagerato mi ha segnato per sempre. Molto presto, ho visto il film The Lost World (Il mondo perduto), animato dallo stesso illusionista di King Kong. Poi mi sono innamorato del circo, dei maghi, dai sette anni in poi. Ma nella pratica non ero bravo perché non mi allenavo.

Allora sono diventato mago delle parole». «Sono un autore popolare che si è nutrito di pulp e scriveva per un penny a parola... - ricorda Bradbury che non si è mai considerato uno scrittore di fantascienza -. Ho fatto fantascienza soltanto una volta, in Fahrenheit 451, dice del suo libro più noto e portato sul grande schermo da François Truffaut -. Come nella maggior parte delle mie storie, Cronache marziane immaginano un mondo fantastico e persone che non esistono. Ma Fahrenheit è molto reale - i libri che bruciano, la stupidità delle persone - perché la fantascienza parte sempre dalla realtà».

L’universo lo appassiona, ha pianto quando l’uomo è sceso sulla Luna, ma non posa gli occhi solo sulle stelle: si interessa alle città e al loro funzionamento. Si dimentica spesso che di recente ha lavorato come consulente in urbanistica per numerosi centri commerciali di Los Angeles, la Glendale Galleria e il Westside Pavillion o la Horton Plaza di San Diego.

Sempre attivo e prolifico, sta per pubblicare due romanzi polizieschi e annuncia ridendo forte il titolo di uno di essi: Let's All Kill Constance (Andiamo tutti ad uccidere Costanza). Ha terminato una raccolta di racconti, One More for the Road, e due libri di poesie, di cui uno di cinquecento pagine.

Il remake di «Fahrenheit»
Attualmente lavora a numerosi adattamenti cinematografici con Renny Harlin, che porterà sullo schermo A Sound of Thunder, e Franck Darabout che progetta di rivisitare per il cinema Cronache marziane e lo stesso Fahrenheit 451. La catena di fantascienza Sci-fi-Channel prepara la sua versione de L'Uomo illustrato. Tutto questo fa scrivere al webzine Salon.com che in questo momento Bradbury è molto «hot» a Hollywood. E la rete di trasmissioni via cavo HBO gli ha già dedicato una serie di oltre sessanta episodi, The Ray Bradbury Theater, procurandogli sei Emmy.

All'inizio di dicembre, in un teatro di Hollywood, lo scrittore, sempre in pantaloncini nonostante una temperatura abbastanza bassa all'esterno, ha assistito alla prima di Falling Apward, una commedia derivata da La Balena di Dublino, il libro di ricordi sulla sua collaborazione con John Huston per il quale aveva scritto l'adattamento di Moby Dick di Herman Melville. Introducendo la sua commedia ambientata in Irlanda, Bradbury imita la voce grave del regista americano di origine irlandese, che lo chiamava «kid» e gli aveva ordinato di leggere per il mattino successivo il libro di Melville considerato inadattabile.

Questa commedia di grandi bevitori irlandesi che incontrano un gruppo di omosessuali, con biciclette che si scontrano sulla scena, è di una spassosa bricconeria. «To Eire is human, to forbid divine» (Errare è umano, proibire divino), dice il programma giocando sul doppio senso di err/Eire, errare e Irlanda.

Che Bradbury sia un accanito ottimista? «E' una parola che non amo; preferisco parlare di attitudine ottimale. Se siete al colmo delle vostre passioni, ogni giorno della vostra vita, allora sarete felici. La speranza risiede in ciò che si è già fatto», dice colui che talvolta, di notte, scende in soggiorno e rilegge la sua prosa con grande contentezza. «Ma non mi vanto, è la mia musa che li ha scritti!». «Ho due regole basilari nella mia esistenza. Una è "The hell with it!" - Al diavolo! - e l'altra: "Fai quello che devi fare!"».

Copyright Le Monde
(Traduzione del gruppo Logos) .

16 gennaio