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Sebaste
Beppe, Sarà così lasciare la vita
in l’Unità ( ottobre 2001
Un
volume antologico affronta il tema con saggi di psicologi, filosofi, ed
esponenti religiosi
Spersonalizzata,
senza volto, esiliata nella solitudine, rimossa: la morte è il più grande tabù
dell'Occidente
Persino
l'astrofisica si pone il problema: quando parla di nascita dell'universo non può
non parlare anche della sua fine
Il
titolo di questo libro, a cura della psicanalista Livia Crozzoli Aite, che
raccoglie saggi, meditazioni e interventi di operatori sociosanitari, psicologi,
filosofi ed esponenti religiosi, viene da una poesia di Vivian Lamarque:
«A vacanze concluse dal treno vedere / chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna
/ loro vacanza non è ancora finita: / sarà così sarà così / lasciare la
vita?». Siano da ringraziare la
curatrice, e l'associazione culturale Gruppo Eventi che sta a monte di questa
iniziativa, per l'attenzione dedicata a un tema che oggi, è perfino ovvio
osservarlo, è il più grande tabù dell'occidente: la morte e il morire.
La
prima osservazione da fare è questa: se confrontiamo la morte alla nascita,
come avviene spontaneamente in ogni cultura e in ogni tempo, si staglia la
sapienza delle donne, in prima linea in quel silenzioso volontariato che cerca
di «promuovere e diffondere una cultura coraggiosa che dia accoglienza e
dignità al morire, invece di allontanarlo e rimuoverlo».
Cito dal saggio di Giuditta Lo
Russo, Maschile e femminile di
fronte alla morte, che sottolinea la richiesta di relazione da parte dei malati
terminali - una relazione esterna ad ogni competenza terapeutica, e il cui
senso sorge proprio quando i medici e le persone deputate alla cura
rinunciano ad ogni relazione. Le
donne, abituate a fare nascere, sono le più esperte in questa relazione di
accompagnamento coi morenti. «All'opposto di questa competenza originaria
delle donne sta il competere maschile - scrive Lo Russo - che è letteralmente
una competizione con la morte, l'onnipotenza invece dell'accettazione, vuoi
nelle sue forme più recenti dell'accanimento terapeutico, al di là dei
confini del buonsenso e della decenza, vuoi nell'atavica corsa alla
fabbricazione di armi mortali sempre più micidiali.
L'uomo che non può sconfiggere la morte può diventarne artefice,
uccidendo e sterminando». E
ancora: «Come la morte, anche l'evento della nascita mette in atto un'esigenza
maschile di controllo e dominio, il millenario controllo culturale sulla sfera
procreativa, giunto oggi alle sfide tecnologiche dell'ingegneria genetica,
davvero inquietanti. Lo spazio
della morte, come quello della nascita, è uno spazio sacro. Non può essere medicalizzato e tecnicizzato più di tanto.
In una società desacralizzata sembra non esserci più posto per i
morenti. La nostra cultura deve
restituire sacralità al morire».
«La
morte si sconta vivendo», dice il titolo dell'intervento di Marco Guzzi,
il che ci fa pensare, ma fuori da ogni idea di lutto, alle parole del filosofo e
teologo Raimon Panikkar sul «cuore puro» come «farsi svuotare dalla vita»,
sinonimo di gioia e beatitudine. Guzzi,
poeta e saggista, cita invece Mario Luzi, Yves Bonnefoy, Fernando Pessoa, e
anche il sociologo Baudrillard, che sul tabù della morte scriveva anni fa: «Parlare
di morte fa ridere, d'un riso forzato e osceno.
Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso è
legale, solo la morte è pornografica». La
morte o è spersonalizzata, scrive Guzzi, «senza volto», fino al risultato
paradossale che «la nostra è la prima cultura umana che tenti di elaborare
una risposta che in realtà non è altro che un tentativo di cancellare, di
rimuovere la domanda stessa». Una
situazione, continua, da «crisi terminale della nostra cultura
tardo-occidentale». Nulla quindi
è più attuale, più sociale e più politico, del pensare la morte e il
morire - a parte, forse, la vecchiaia. Sarà
così lasciare la vita? è ricco di rimandi e risvolti politici dell'ars
moriendi.
Se
è vero che «quando si muore, si muore soli», come cantava Fabrizio De André,
Stefano Sacconi, giornalista e politico, interroga questo «morire soli»
sviluppatosi soprattutto intorno alla metà del XX secolo, delineando una «società
democratica» in cui la «.fraternità» possa «riconciliare" fra le
altre scissioni dell'umanità, anche quella tra viventi e morenti».
Una prospettiva - precisa - di «riappropriazione» della morte e della
vita, dove il morire «non sia più esiliato ai margini e nella solitudine,
lontano dalla vista dei viventi, ma ricondotto all'interno della società, nel
suo nucleo più profondo di rapporti affettivi: la famiglia in senso
ampio», cioè la vita civile. E'
per quanto riguarda la pluralità dea accessi al sacro, di cui il nascere e il
morire sono le esperienze fondanti, matrici di ogni rito, il libro presenta
riflessioni sulla morte e il morire di un largo ventaglio spirituale - dal
Cristianesimo all'Ebraismo, dall'Islam alle religioni dell'India. «Sono sempre
gli altri che muoiono», fece scrivere beffardamente sulla propria tomba il
geniale artista Marcel Duchamp. Il
tema della morte dopo anni di occultamento, riemerge infine, e prima della nuova
guerra, dalle smagliature sempre più frequenti e necessarie del discorso
filosofico e scientifico. Nell'astrofisica,
disciplina che compendia ormai ogni scienza, e che parlando di vita
dell'universo non può non parlare anche di morte. Nella filosofia, che nel suo ricorrere ineluttabile alla
soggettività non può non pensare la propria morte, e partire da essa.
Non solo quella degli altri, che incorniciano come lutto, e su cui si
soffermava Heidegger, ma la propria, «l'istante della mia morte», come hanno
scritto, Jacques Derrida e, prima di lui, Maurice Blanchot.
Che la scrittura sia sempre testamentaria, cioè abbia a che fare con la
morte, lo sapeva già Platone, che anche per questo la avversava dandone la
paternità al dio egiziano Thot, custode degli Inferi: l'autore di ogni testo,
anche di una e-mail, potrebbe essere sempre già
morto mentre lo leggiamo. La
definizione di «poesie» che diede Ezra Pound, «news, notizie, che non cessano
di essere tali anche dopo averle lette», è bellissima proprio per l'utopia
rigenerativa che nel suo intento illumina e salva le parole, anche quelle
riciclate, anche di queste pagine di giornale. Muoiono le parole, o si
trasformano (si tramandano?) come il gatto di Alice?
E «a cosa serve la grammatica se dopo si muore?» - chiese Françoise,
otto anni, durante la sua psicoterapia (questa citazione, vera «notizia» nel
senso di Pound, è in un saggio di Pierre Fedida
su Gilles Deleuze).